Gravenhurst

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I viaggi interiori di Nick Talbot

Nick Talbot è un polistrumentista inglese che negli anni 2000 è diventato protagonista assoluto nell'ambito del folk etereo. Ripercorriamo le tappe del suo interessante viaggio, durante il quale ha in parte abbandonato le sonorità acustiche in favore di un post-rock oscuro ed inquietante, saturando i propri suoni tanto da essere accostato alla scena shoegaze

di Andrea Vascellari

Pensando alla musica di Bristol, la prima cosa che viene alla mente è il trip-hop di Tricky, Portishead e Massive Attack, un'inconfondibile mistura di soul, hip-hop e ritmi elettronici da club. Ma la città del sud-ovest inglese ha dato i natali anche ad un altro interessante movimento sul finire degli anni 90, ovvero la nuova psichedelia spaziale di gente come Flying Saucer Attack, Third Eye Foundation e Crescent.
È in questo retroterra musicale che muove i primi passi il talentuoso polistrumentista Nick Talbot, dando il proprio contributo come chitarrista in alcune band dalla vita effimera.

L'occasione di esordire come solista coincide con la nascita della Silent Age Records, piccola etichetta fondata dallo stesso Talbot con l'amico Guy Bartell dei Bronnt Industries Kapital: la prima release della label è infatti Internal Travels, un album non molto originale di cantautorato folk. Un fingerpicking ricercato e incessante sta alla base di ogni canzone, e su di esso le liriche vengono scandite da una voce leggera e delicata. Gli arrangiamenti vengono volontariamente ridotti al minimo, le tracce tendono ad assomigliarsi troppo, e la profusione di arpeggi non riesce a sopperire alla mancanza di idee innovative. Le uniche canzoni ad emergere sono l'intermezzo ambientale "The Silent Age", e la ballata nostalgica "The High Seas", impreziosita da echi distanti sullo sfondo.

L'anno successivo, sempre sotto il marchio Silent Age, esce Flashlight Seasons che è di fatto un nuovo inizio. Sin dalla copertina, che richiama evidentemente "The White Birch" dei Codeine, ci si trova davanti ad una dichiarazione d'intenti: le chitarre tendono a rarefarsi lentamente, a vantaggio di pad eterei ("Tunnels") o contrappunti di glockenspiel inquietanti ("Bluebeard"); se il folk bucolico stile Fairport Convention di "Damage II", e lo space-rock strumentale di "East Of The City" testimoniano i differenti retaggi musicali di Talbot, ad emergere sono le ballate tragiche e disperate come "Fog Round The Figurehead" e "I Turn My Face To The Forest Floor", impreziosite da raffinate armonie vocali che risentono pesantemente dell'influenza di Simon & Garfunkel. L'album attira immediatamente l'attenzione della Warp Records, che lo ristampa e distribuisce in tutto il mondo, rendendo Talbot la nuova promessa inglese del folk etereo.

Nel 2004 la Warp pubblica un lungo EP dal titolo Black Holes In The Sand, con il quale il progetto Gravenhurst raggiunge la piena maturità. Talbot recita testi criptici, incentrati su assassini e addii, accompagnandosi con un fingerpicking intenso e pulito. Rispetto alle opere precedenti, qui è l'ambientazione a fare la differenza: la title track è un incubo acustico immerso in distorsioni, bordoni soffusi e chitarre dissonanti, mentre "Still Water" sembrerebbe un'innocua nenia alla Paul Simon ma si trasforma ben presto in una marcia Codeine-iana con overdrive dilatati e cembalo ipnotico. Tuttavia il momento di maggior pathos viene raggiunto con la minimale "Diane", storia di uno stupro resa ancora più terrificante dell'originale degli Husker Dü. Con Black Holes In The Sand pare che Talbot debba essere annoverato tra i grandi folksinger dell'effimero, ripercorrendo le tappe che dieci anni prima, dall'altra parte dell'Oceano, avevano percorso gruppi come Cowboy Junkies, American Music Club e Red House Painters.

E invece qualche mese dopo l'inglese mischia le carte in tavola, abbandona la chitarra acustica, e pubblica il capolavoro Fires In Distant Buildings, tanto inaspettato quanto sorprendente.
Il post-rock Slint-iano di "Down River", prima indolente poi esplosivo, la trascinante linea di basso alla Peter Hook di "Velvet Cell", la ballatona elettrica "Animals" su cui viene edificato un muro shoegaze, tutto quanto partecipa alla costruzione di un'atmosfera oscura e decadente, dando alla musica di Gravenhurst un intenso profumo dark. Il folk hippie di "Cities Beneath The Sea" è l'unico evidente tassello di collegamento col passato: per il resto, l'arpeggio strappalacrime della poetica "Nicole", e la cover dei Kinks "See My Friend" intrisa di psichedelia chimica, contribuiscono a calare l'ascoltatore in un buio ipnotico come pochissimi album nel nuovo millennio erano riusciti a fare. Una menzione speciale meritano i dieci minuti di "Song From Under The Arches", uno dei più riusciti manifesti slowcore della storia, e probabilmente quanto di meglio la mente di Talbot abbia mai partorito.

Il successivo The Western Lands, è l'album ideale per chi vuole iniziare ad ascoltare Gravenhurst. Talbot infatti da un lato sembra voler tirare le fila di quanto fatto nei cinque anni precedenti, accostando post-rock canonico ("Grand Union Canal") ad arpeggi elettro-acustici ("The Collector", "Saints"). Dall'altro satura il suono della propria chitarra imitando Kevin Shields ("Hollow Man", "The Western Lands") e suona i Fairport Convention come se a farlo fossero i Flying Saucer Attack ("Farewell, Farewell"). Il songwriter dà però ancora una volta il meglio di sé nelle tracce più rarefatte come il mantra evocativo di "Song Among The Pine" e la malinconica "Hourglass", in cui si fondono perfettamente tristi trame dilatate e retrogusto pop. Nonostante una certa disomogeneità, The Western Lands è un album ben fatto, le cui melodie circolari non possono fare a meno di suscitare richiami a gruppi come i Pale Saints, e alla loro irripetibile capacità di unire la delicatezza di atmosfere evanescenti a contesti sonori di asprezza temperata.

La quinta fatica del genietto di Bristol si fa attendere cinque anni. Un tempo così ampio portava ad immaginare chissà quali novità nel suono di Gravenhurst. Invece The Ghost In Daylight è a tutti gli effetti un passo indietro (ma non un passo falso). L'iniziale "Circadian" sfoggia un riff acustico ripetuto a tempo col ride spazzolato, e rende da subito evidente come Talbot voglia condurre nuovamente l'ascoltatore nelle atmosfere eteree dei primi lavori: "In Miniature" è una sorta di "Scarborough Fair" calata nel disincanto del nuovo millennio, l'inquietante "The Foundry" è invece l'ideale continuazione di Black Holes In The Sand, con bordoni ambientali che oscurano il suono pulito della chitarra acustica. Spezza l'album la psichedelica "Islands", con cui Talbot si avventura momentaneamente in territorio trip-hop, mentre i sei minuti del singolo "The Prize" sono un buon riassunto delle varie anime di Gravenhurst (folksinger minimale, ma anche intenso post-rocker).
The Ghost In Daylight conferma che Nick Talbot riesce sempre a risultare interessante e poetico, persino nel suo album meno sorprendente.

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Discografia

Internal Travels (Silent Age, 2002)

5,5

Flashlight Seasons (Silent Age/Silk And Stove/Red Square, 2003)

6,5

Black Holes In The Sand (Ep, Warp, 2004)

7,5

Fires In Distant Buildings (Warp, 2005)

8

The Western Lands (Warp, 2007)

7

The Ghost In Daylight (Warp, 2012)

6,5

Pietra miliare
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