Folletti, streghe, elfi e satiri: tutti gli esseri del bosco hanno assistito alla nascita, in una ninfea colma di rugiada, dell'ultimo nato tra i leprechaun. Da quel piccolo bozzolo di luce Kristian Matsson ha fatto parecchia strada: eppure era già predestinato, con le sue origini radicate nelle limpide. interminabili schiarite delle estati nordiche e, viceversa, negli sprazzi inconsistenti di vita dei suoi inverni. Predestinato a rivitalizzare un genere, ormai oppresso dalle schiere di laminoristi in un eterno regno di auto-contrizione e dagli stantii proclami di improbabili ritorni alle origini.
Tutto, nella sua musica, porta con sé uno sguardo naif, pionieristico, ma insolitamente intenso, penetrante: il suo rauco vociare accentato da verandato sudista, la corrente mai doma del suo affaccendato fingerpicking, il suo lucido ma ardito sguardo metaforico. Nei Montezuma, gruppo di rodaggio delle sue origini, ha imparato a piegarsi verso il pubblico, dardeggiando le sue occhiate killer, dedicandogli esibizioni trascinanti (in un rovesciamento di valori, riprodotte fedelmente su disco in rustici, inebrianti one-take); ad acconciare il ciuffo, così da potersi elevare un po' al di sopra di quel metro e sessanta che gli permette di infilarsi nei cuori altrui e farne razzia. È solo così che si diventa "l'uomo più alto sulla Terra".
"Seguire la pioggia": la perturbazione scandinava va formandosi
Have you ever seen the far side of a mountain,
swallow the sky,
as you travel through the valley,
as your speedin' still far behind,
through the valley where lovers climb,
where the children will blink and sigh,
they have caught a lightning strike,
in a jar just to watch it die,
in the valley where lovers climb,
Yes, it will follow the rain,
I said oh my friend it will follow the rain.
(da "It Will Follow The Rain")
Come nelle stagioni della sua terra natia, la divisione tra le oscure profondità di relazioni che si trascinano stancamente, dove la luce di una lontana passione si dissolve rapidamente, e la promessa di vette spazzate dal sole è dolorosa quanto le punture delle note pizzicate da Matsson, dirette verso di noi tra scrosci di pioggia e tuoni minacciosi. Per tutto il corso della sua carriera, il rumore polveroso di una ricostruzione emotiva dai contorni primitivi, essenziali ma non scarnificati, sarà infatti un marchio di fabbrica decisivo nell'espressività del cantautore svedese.
Fondamentale per garantire alle sue canzoni quel respiro terso di nembi in vaporosa progressione, investiti dai raggi rossastri di un sole in perenne tramonto, che entra nelle narici prima di potersene riparare. Anche quando, come nella sua - omonima - prima uscita, del 2006, i suoi temi musicali sono ancora abbozzati, a cominciare dalle melodie.
Come già detto, l'esperienza coi Montezuma non impedisce a Kristian di esercitarsi privatamente con la chitarra, sulle orme dei grandi bluesman del passato. E in compagnia della presenza spiritica di Dylan - ricordato con stanchezza già da chi scrive, figurarsi da Matsson stesso - la cui importanza, a inizio carriera, è naturalmente ammessa dallo stesso svedese. Eppure non si può non ravvisare che nel primo Dylan la presenza di una band era già una promessa che aleggiava nell'aria, mentre l'abilità chitarristica di Matsson gli permette un'indipendenza più drakeiana, di un cantautore le cui potenzialità espressive si esauriscono già nel rapporto col proprio strumento.
The Tallest Man On Earth Ep non è, infatti, il prodotto sgualcito di un giovane cantautore dagli scarsi mezzi. Sono cinque canzoni che già contengono tutte le promesse di un istinto melodico puro e sfrontato ("Walk The Line"), una sicurezza, una personalità che trasudano già un poderoso e ingannevole istrionismo ("Steal Tomorrow") - fino al richiamo finale che tende la mano, invitando in un mondo di poetici chiaroscuri, terribilmente realistici e terrigni nella loro visionarietà liberatoria ("Let's come all steal/We will lie and cheat/ And turn around/All their limit signs/ And redirect/ This great old boring road/Into the depths/ Of a lion's mouth/ Just to see/ If there's something we believe", da "Into The Stream"). Il tocco chitarristico del Nostro segue fedelmente il proprio canto abbandonato, in un'opera di scultura artigianale che sa incidere senza ferire, arrivando a una rappresentazione rodiniana di ruvida passione ("Over The Hills").
Qualche pezzo sul suo Myspace, e Niclas Stenholm della connazionale Gravitation lo scrittura all'istante, pubblicando The Tallest Man On Earth Ep e programmandogli già un tour di presentazione. Preso di peso e buttato nell'acqua, Matsson si trova a suonare dal vivo con un pugno di canzoni ed è quindi costretto a ingrassare il proprio repertorio in breve tempo. Kristian Matsson pare però uno di quei cantautori dall'emotività potente e viscerale, sempre desta e pronta a rivelarsi, sul treno nel mezzo di una folla di pendolari, o nella solitudine delle faccende domestiche.
È così che, sulla scorta di questa intensa attività promozionale e dello sprone di Stenholm - non proprio l'ultimo arrivato, anzi uno che sa fare il proprio lavoro e con passione, come vedremo - due anni dopo esce il primo Lp dello svedese: Shallow Grave.
Il sottile strato che ricopre una "bara poco profonda", da cui osservare il cielo, il mondo
Sono le forme sfuggenti, cangianti in dimensione e colore, delle nuvole a rappresentare la luce-guida del primo disco di Matsson. Quanta umanità nella piccola parabola della title track, costellata di cinguettii e di quel trotterellante solleticare di banjo! Lo svedese non è che al cospetto di se stesso e dei propri tentativi, magre sconfitte e scorci su remote vittorie. Invece di ripiegarsi, lo spirito del Nostro si apre arruffato e spavaldo, non impaurito dai primi salti nel vuoto.
Lo accompagna uno stile cantautorale sempre più sicuro e timide intrusioni di corde "altre" in un repertorio di canzoni di quella immediatezza che ti porta ad assorbirle all'istante, riconosciute subito come affini. L'ironia nera, coheniana della prima hit, "The Gardner", è lì a testimoniare di che si tratti: una rincorsa di accordi che si aprono e si chiudono, come sotto l'influsso di correnti ascensionali, uno strumento sfruttato fino all'osso ma con un'idea precisa del proprio obiettivo, così come il protagonista della canzone.
Trasporto e understatement si combinano, così, con la naturalezza di un rapporto istintivo con lo strumento, con la composizione impressionistica di ritagli di giornale e richiami lontani degli animali della foresta. Shallow Grave è un inno a un risveglio non già delle coscienze - quello che poteva muovere il polso dei giovani arrabbiati decenni or sono - ma al panta rei di una vita intelaiata su impercettibili movenze erbacee e scandita dal fascino bioritmico di un palpabile primitivismo espressivo. Il pregio - e la fortuna - di Matsson è stata in effetti questa: la capacità di intercettare quanto lo stuolo di ascoltatori compulsivi va cercando con frenesia a volte cieca tra le decine di cantautori che si susseguono sul grande palcoscenico globale: niente più che qualche bella canzone, vividamente corredata di storie e immagini. Nel caso dello svedese, si può ben dire che il tutto arrivi prima dei suoni, della costruzione di una propria mitologia personale di sfortunato tormento.
Le canzoni di Shallow Grave sono in effetti memorabili - e questa qualifica non ha un significato qualsiasi. Risvegli ormonali degni del primo sbadiglio post-letargo ("Pistol Dreams", "Honey Won't You Let Me In"), fragranti valzer campagnoli, in punta di piedi nell'afrore mozzafiato dell'indorare del grano ("This Wind") sono improvvisamente oscurati dalle nubi temporalesche di innocenti interrogativi salingeriani ("Where Do My Bluebirds Fly?").
La mente corre subito all'ovvia rappresentazione della mutevolezza del tempo nordico, ma a sorprendere è il rapporto di Matsson con le parole, la capacità di forgiare immagini plastiche, che riverberano con rara immediatezza. C'è chi invoca la libertà un po' dissacrante presa con una lingua non propria - il che sarebbe già una conquista, pensando invece al rapporto parossisticamente dimesso dei "nostri" anglofoni - eppure la spiegazione pare un po' limitativa dell'abilità di "traduttore universale" di Matsson, le cui oblique suggestioni naturalistiche evidentemente prescindono dalla lingua utilizzata.
Nobody knew what the raven would do
If he found it was rain in your hands
Like a dog set on wheels you will lope down the street
From the sound of the scratch in his claws.
As the buildings who hide you knew nothing ‘bout time
But an arrow just brushin' your chin
You said, "Damn be this wind is still movin' on in
To the bones and the bed of my soul."
(da "This Wind")
Forse qualcosa aveva già intuito il capace Niclas Stenholm, nel programmare un paio di settimane di tour statunitense, che verrà descritto dallo stesso Matsson come "piuttosto bizzarro". Intanto, come in un cinematografico "sogno americano", in una di queste serate in saloon dispersi nella neve, tra le berciate assordanti di redneck ciondolanti al bancone, si trova fra il pubblico il booking agent di Justin Vernon: quella sera, alla sua agenda di artisti da spedire sui palchi dei cinquanta Stati, verrà aggiunto The Tallest Man On Earth. Nel dicembre 2008, Kristian si sobbarca ben quindici date in un mese, la metà East Coast insieme a Bon Iver, più una data con Marissa Nadler, una con Will Sheff e una coi Two Gallants, stregando gli stessi artisti e le platee, già popolate di propri fan in esclusiva.
Tra tutti questi è evidente però la connessione tra lo svedese e l'ombroso omaccione del Wisconsin, anche se, probabilmente, per caratterizzare l'esperienza di Matsson il ricorso a mitiche ricostruzioni di isolamenti invernali, materiali e spirituali, è assai più dispensabile. L'approccio "naturale" del Nostro prescinde dalle affettazioni e dalle architetture delle quali spesso si circondano artisti più blasonati.
La tournèe di supporto a Bon Iver costituirà per Matsson l'Ellis Island della sua migrazione nell'Olimpo del cantautorato americano, guadagnandogli l'apprezzamento delle (anti-)star di quel piccolo mondo, tra questi lo stesso Vernon e Will Sheff. La vita dell'artista di successo investe così in pieno Kristian, che si trova a comporre il suo secondo disco in viaggio nelle terre vagheggiate nella sua musica formativa.
La "caccia selvaggia" all'affermazione definitiva
I left my heart to the wild hunt a-comin'
I live until the call
And I plan to be forgotten when I'm gone
Yes I'll be leavin' in the fall
(da "The Wild Hunt")
Inutile sottolineare come il compito di (quanto meno) attirare l'attenzione, nonostante una formula risicata, potesse apparire arduo dall'esterno. Certo, il contratto con la Dead Oceans, etichetta di spicco del cantautorato americano (che ospita, tra gli altri,
John Vanderslice), lascia apparire il secondo disco di Matsson come un esordio su più vasta scala.
Shallow Grave - e lo testimonia la recente ristampa - era in effetti ancora un disco prodotto in lande remote, in pochissimi esemplari, e The Tallest Man On Earth un nome noto solo agli appassionati.
Rimane comunque sorprendente come il suo tocco sulla chitarra, gentile e guizzante allo stesso tempo, non abbia perso il vigore del vento e del sole del Sud, insieme a una voce che si fa ancora più potente e graffiante (forse addirittura irruvidita). Invece di appiattirsi, di smussarsi, le registrazioni di questo The Wild Hunt sembrano, in misura ancora maggiore, momenti rubati a una vita senza soste, tra camere d'albergo e deserti campi di mais.
Si sarà intuito, insomma, che il secondo disco di The Tallest Man On Earth si muove nelle medesime coordinate del precedente, nella consapevolezza che il valore aggiunto della musica dello svedese di Dalarna non risiede negli abbellimenti esogeni e nella ricerca di una quanto mai ipotetica "evoluzione musicale", quanto nell'inconfondibile dialogo del Nostro con la sua acustica e l'eccezionale capacità di creare melodie e intrecci memorabili con due soli strumenti.
The Wild Hunt conserva inoltre il fascino un po' ammiccante di sensibile rubacuori delle sue ballate d'amore, un'esplosione di vita e spavalderia giovanile, come nell'escursione "esotica" e profumata del singolo di lancio, "King Of Spain". In quest'ultima Matsson trova anche il tempo di citare scherzosamente il suo nume tutelare ("And I wear my boots of Spanish leather"), quel Dylan sul quale, a insistervi su, si farebbe torto al giovane svedese. Erroneamente considerata una trasformazione quasi caricaturale dell'afflato testosteronico di The Tallest Man On Earth, un proclama d'amore sanguigno e baldanzoso - come un torero nell'arena - "King Of Spain" è la tremenda allucinazione di un cuore sì trasfigurato dal sentimento, ma nel contempo esposto alle stilettate dell'amante (si veda lo scambio: "[...]While we're floating in siestas/ You search for bottles and for knives", che poi tracima nella supplica "Why are you stabbing my illusion?").
Verrebbe da scommettere che la tripletta iniziale rischi di esaurire le potenzialità emotive del disco, attraversando il fresco tepore dell'iniziale
title track (in cui si intromette il gentile accompagnamento di un banjo), la ruspante cavalcata di "Burden Of Tomorrow", il carezzevole, ardito arpeggio di "Troubles Will Be Gone"... Invece
The Wild Hunt non fa altro che riprendere l'ispirazione melodica di "Shallow Grave", amplificandone probabilmente il lato solare e di apertura, come nel palpabile trasporto di "You're Going Back". Brividi nell'intimità scandita dallo stivale di Matsson che batte il tempo nella tersa ballata di "The Drying Of The Lawns", nella quale lo svedese dà un ulteriore saggio delle sue capacità di autore ("Well I've said I've sailed the frozen corners of the dark Atlantic Sea/ And I drifted on the waves and the mirage beneath/ And never have I felt such numb and pointless searchin' true/ As when I set my eyes and torched the plans on the mark of you").
Vi risparmiamo infine un'oziosa speculazione sull'originalità di questo lavoro, sul suo debito verso le ultime anse del Mississippi, sulla difficoltà degli artisti scandinavi a trovare un'identità peculiare. Dunque solo un ulteriore inciso: è nel respiro di
The Wild Hunt, per metà malinconico abbandono, per l'altra (in)cosciente slancio vitale, che si apprezza il chiarore limpido della terra di Matsson.
Sarà per questo che il disco si chiude con una sofferta ballata al pianoforte ("Kids On The Run"), la prima digressione strumentale, se così vogliamo chiamarla, della breve carriera dello svedese. Si disintegra in tal modo il timore di una flessione nell'ispirazione di Matsson che, non pago, si permette anche di tratteggiare nuovi scenari per i certo promettenti anni a venire.
The Wild Hunt consegna The Tallest Man On Earth a un'adozione definitiva presso il pubblico americano. E' tempo per un tour in solitaria, tutti i maggiori
videoblog se lo contendono, in qualità di mini sex symbol del pubblico alternativo. E' quindi il momento di non mollare la presa, di fissare per bene il chiodo alla parete, e così, di concerto con la Dead Oceans, Matsson registra nell'estate del 2010 un Ep:
Sometimes The Blues Is Just A Passing Bird. In quest'ultima uscita il Nostro non si fa mancare un piccolo, autoironico colpo di scena., rappresentato da "The Dreamer", seconda traccia di questo Ep registrato in estate sull'onda del successo di
The Wild Hunt, che rappresenta la prima traccia incisa dal nostro con una chitarra elettrica. Non è una prova, allo stesso tempo, di una necessità da parte del Nostro di rompere il proprio isolamento e lanciarsi verso più ampi orizzonti: non è che una piccola divagazione (come quella di "Kids On The Run" al pianoforte), un esperimento espressivo di cui a volte si sente anche il bisogno, a dirla tutta.
La sensazione che i suoi pezzi stiano diventando
pastiche, riassemblaggi di pezzi precedenti, è a volte soverchiante, nella paura forse che, a forza di insistere sugli stessi stilemi, Matsson possa perdere il lume d'ispirazione che lo ha accompagnato finora. Prendiamo l'iniziale "Little River", per esempio: l'attacco della
title track di
The Wild Hunt, un giro simile a quello di "I Won't Be Found"... Eppure il saliscendi melodioso del ritornello risana la diffidenza iniziale: si instaura di nuovo quella familiarità rassicurante, pare di essere a pochi metri dal palco, o di passeggiare per una
avenue di una metropoli americana, col sottofondo di un lontano cantautore di strada. Emblematica in questo senso la già citata "The Dreamer", in cui la chitarra elettrica diventa un borbottio rimuginante che copre anche, come spesso accade nei pezzi di Matsson, i
riff d'accompagnamento, a volte solo suggeriti. Lo strumento gli permette inoltre una costruzione diversa dal solito, con un ritornello poppeggiante,
costelliano.
Il vero asso cantautorale viene però sfoderato in "Like The Wheel", già beniamina del pubblico essendo stata proposta negli ultimi
live del tour americano. E' in questo pezzo che si comprende finalmente e pienamente che la sua carica emotiva non ha perso un grammo della sua genuinità, il suo tocco di scrittore sempre personale - direttamente comprensibile e insieme poderosamente metaforico ("Oh I wish I was the sparrow in your kid's eye/Like a fly above is summer all day long/On an island in the heart he has to carry/Past the many you have let into your song"). Si conclude, l'Ep, con due pezzi dichiaratamente minori (l'arpeggio di "Tangled In This Trampled Wheat" è, questa volta, un chiaro riciclo; più che questo conta il fatto che non si osserva neanche il tentativo di provare qualcosa di nuovo). Resta il fatto che, per il
plucking che segue lo "You're so beautiful now" di "Thrown Right At Me", diversi cantautori darebbero l'anima. In effetti, a ogni uscita Kristian Matsson pare aggiungere un certo distacco ai coetanei inseguitori. E lo scollinamento non è poi così lontano.
In
There's No Leaving Now (2012) l'"uomo più alto sulla Terra" trova un modo sottile e "intelligente" per affrancarsi dalle sue registrazioni
one-take senza perdere il carattere diretto e onesto della sua musica, smorzando nel contempo il prevedibile e ameno chiacchiericcio sulla cosiddetta "svolta elettrica".
Questo nuovo e terzo lavoro di Matsson prosegue infatti nel solco tracciato dal precedente
The Wild Hunt: accompagnamenti appena accennati - di flauto e tastiera e lievissimi trepestii di piatti in "The Revelation", di formicolii elettrici in "1904", di
slide in "Bright Lanterns" - che nulla tolgono all'ispirazione del piccolo svedese, il cui talento melodico non è per nulla scalfito in questo
There's No Leaving Now. Si riveste anzi di una finezza forse meno percepibile nell'esuberante, arruffato precedente, riportando un po' della "fragranza" di
Shallow Grave - si mettano a confronto, ad esempio, le tracce pianistiche, "Kids On The Run" e la
title track di questo.
Certo, per chi conosce un po' le gesta di The Tallest Man On Earth, per chi ha consumato le sue canzoni, vi si è immerso fino a conoscerne anche le minime imperfezioni, prevedere dove porteranno i saliscendi emotivi di "There's No Leaving Now" non richiederà grande concentrazione - d'altro canto, non è possibile voler male a Kristian Matsson per questo.
È invece la delicatezza di questo disco che accontenterà i fan di lunga data: il profumo assolato dell'arpeggio country di "Leading Me Now", la serenata spagnoleggiante di "On Every Page", il latrato frizzante di "Wind And Walls".
E' del 2015
Dark Bird Is Home. In questo disco, il flebile tentativo di arricchire i propri arrangiamenti, inevitabile dopo tre Lp suonati sostanzialmente chitarra e voce senza produzione, non cancella la sensazione di avere un po' già sentito le canzoni, ma ha comunque il pregio di dare respiro alla scrittura dello svedese e lasciando spazio a reintepretazioni più impressionistiche della sua musica (la
title track), diminuendo l’effetto ormai claustrofobico dei suoi pezzi.
Così questo
Dark Bird Is Home è stato introdotto dal brano più prodotto e arrangiato della carriera di The Tallest Man On Earth, “Sagres”, il cui elemento più forte è appunto il tema d’archi, che si sostituisce a tutti gli effetti al ritornello del pezzo, per il resto di certo lontano dall’esuberanza melodica ed espressiva dei brani di Matsson.
Una carica sensuale che forse non è più nelle sue corde: se non fosse per la voce inconfondibile, una “Timothy” sembra più vicina all’epico romanticismo Midwest di “
Ghosts Of The Great Highway” che al minaccioso “giardiniere” di “Shallow Grave”, mentre “Darkness Of Our Home” assume una sfumatura
Springsteen-iana, coi suoi cori appena accennati, la forte impronta ritmica, pianoforte, sax e un vago assolo elettrico.
Rimane un disco che, come sempre, se preso indipendentemente dalla carriera pregressa di Matsson, è ancora una dimostrazione di un talento per la melodia e per la scrittura musicale fuori dal comune (“Little Nowhere Towns” è il suo brano migliore al pianoforte); rimane comunque un disco intercambiabile nella forma e nella sostanza con uno qualsiasi degli altri pubblicati dallo svedese, e difficilmente preferibile a tutti questi. Non è un motivo per smettere di amarlo, ma per sperare che trovi qualche motivazione in più che vada oltre la semplice decorazione sonora.
I Love You. It’s A Fever Dream. (2019) è il “solito” disco a nome The Tallest Man On Earth, in cui anche le integrazioni, sparute, di pianoforte, fiati e finanche elettronica non possono più rappresentare una novità.
Anche nella scrittura non ci sono particolari novità, ma una sempre rinnovata freschezza (ormai misteriosa) anima le canzoni del disco, tanto da farsi perdonare qualche auto-plagio (“I’ll Be A Sky”, “There’s A Girl”). Misteriosa è ormai una carriera che Matsson ha portato avanti con una coerenza quasi inspiegabile, fedele a una formula che continua a non vedere una stanchezza vera e propria, né scadimenti
edsheeran-eschi, pur nel carattere radiofonico di alcuni brani (“The Running Styles Of New York”).
Nonostante sia difficile riscontrare un brano che possa dire qualcosa in più dell’ormai corposo repertorio di Matsson (anche “I’m A Stranger Now” spicca soprattutto per l’incrollabile interpretazione volitiva dello svedese), anche questo disco, con i suoi irresistibili slanci di una libertà immaginata, non potrà scontentare chi segue The Tallest Man On Earth.
In
Henry St. (2023) tenta in qualche modo di uscire dalla trappola della ripetizione, già presente nel precedente
I Love You. It's A Fever Dream, una specie di riproposizione meno
lo-fi dello spirito d'emozionalità esuberante degli esordi.
Lo fa accontentandosi a volte di un Americana piuttosto incolore ("Goodbye"), o abusando un po' del monologo al pianoforte (la
title track) a volte trovando comunque una quadra negli arrangiamenti ("In Your Garden Still", "Bless You").
Il risultato è forse più accattivante a un livello tutto sommato epidermico e radiofonico ("New Religion", "Italy"), ma rappresenta comunque un insieme di canzoni del tutto dignitose, nessuna che spicca né demerita particolarmente nel repertorio di The Tallest Man on Earth.