Tutta questa gente che balla in maniera lenta, sognante ma senza chiudere gli occhi, quasi per non privarsi della possibilità di avvertire il pericolo, alle spalle, dietro un angolo, in un viottolo, anche perché la sera è scura, di un buio pesto e discretamente avvolta dalla nebbia. Sarà per via del porto. Quello di Bristol, crocevia plurisecolare di merci, di culture e quindi di suggestioni. Un luogo di scambio, di strette di mano, ma privo di distrazioni, ricco di cortesia, ma non di arrendevolezza, dove ci si può anche entusiasmare ma senza darlo a vedere. Un posto severo Bristol, ma per forza di… storia disteso.
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Sarà per questo che anche le danze appaiono aperte a molti suggerimenti, ma orgogliosamente isolate, pensate, cerebrali, nere, ma senza mostrare le viscere sempre e comunque, con rime recitanti ma non troppo quadrate, con ritmi funky ma a lenta carburazione, con bassi brillanti eppure sporchi, con quel contorno di nebbia che forse è fumo, con ugole rauche ma spesso anche docili, infantili, sorta di carillon umani, quindi sinistri. Trip-hop.
Faceva capolino ufficialmente all’inizio dei lontani anni 90, diventava celeberrimo nell’arco di un lustro, al punto che un po’ tutti sembravano volersi cimentare in quell’arte dagli equilibri (in)stabili. Da quel giorno di aprile del 1991, quando i Massive Attack rilasciarono Blue Lines, dopo aver sottostato al giogo della censura, per motivi bellici, e inaugurarono il fronte delle nuove danze, fisiche e oniriche, volentieri votate al paradosso. Davide e Marco c’erano, mascherati da mozzi in quel porto che fece da spartiacque e oggi celebrano anche il loro passato di marinai di avventura, quella del trip-hop.
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