Brian Wilson - Beach Boys

Sulle tracce di "Pet Sounds" e del leggendario "SMiLE"

Ho compreso, infine,
che nel bel mezzo dell’inverno
vi era in me
un’invincibile estate
(Albert Camus, 1954)

A ventidue anni, Brian Wilson cominciò a sentire delle voci nella testa. Qualche settimana prima, era il 1964, aveva provato per la prima volta l’Lsd, stuzzicato da quanto aveva sentito dire dai ben informati, e cioè che quella roba contribuiva a espandere la mente e a lui questo interessava davvero tanto, visto che ciò gli avrebbe permesso di rendere praticamente illimitati gli orizzonti della sua musica. Tuttavia, ciò che quell’esperienza gli lasciò in dono nell’immediato, è lui stesso a dircelo, furono proprio quelle voci, anzi “la voce di una persona reale, una persona diversa da me che non potevo controllare, ma dentro la mia testa”. La paura s’impadronì di lui. Ma non per questo se ne stette con le mani in mano. Provò, anzi, a “fare una musica che catturasse tutte quelle voci”, consapevole che l’arte può mettere ordine o, quantomeno, provare a mettere ordine nella complessità che ognuno di noi rappresenta. Del resto, “Io è un altro”, lo diceva già Arthur Rimbaud e ben oltre centocinquanta anni fa.

Col senno di poi, e soprattutto oggi che Brian non c’è più, fa un certo effetto ricordare che quest’anima gentile e tribolata cominciò a prendere confidenza con la musica, lì a Inglewood, nel sud della California, proprio con le armonie vocali, tanto che alla fine degli anni Cinquanta era già in grado di arrangiarle per quattro o cinque voci. Galeotti erano stati i Four Freshmen, un quartetto vocale di Indianapolis. Di solito, dopo aver messo sul piatto un loro disco, Brian si sedeva in religioso silenzio ad ascoltare, cercando poi di riprodurre al pianoforte l’essenza di quanto Don Barbour, Bob Flanigan, Ken Errair e Ross Barbour avevano prodotto utilizzando il solo strumento più originario di tutti. Provando a cantare sui loro dischi, Brian definì anche il suo tipico falsetto, che tanta parte avrebbe avuto, un giorno, nell’economia del suono dei Beach Boys. Il maggiore dei fratelli Wilson si prese, quindi, la briga di insegnare ai suoi due fratelli (Carl e Dennis) quelle tecniche così pazientemente apprese.
Fu l’inizio di tutto. 

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Col tempo, al terzetto Wilson si accodarono il talentuoso cugino Mike Love e l’amico comune Al Jardine: nacquero, così, i Pendletones. L’unico appassionato e praticante di surf era Dennis, che usò tutta la sua diplomazia per convincere gli altri a dedicarsi alla musica che Dick Dale aveva inventato per celebrare la magia di quello sport. Seguirono serate nei locali della zona e poi la firma con la Candix Records. Dunque, il primo singolo. E la scelta di un nuovo nome, Beach Boys, perché i capoccia dell’etichetta losangelina avevano già da parecchio in mente un nome più chiaro, diretto e solare. Ecco, dunque, singoli e album di successo, nel nome di una surf-music che però andava lentamente trasformandosi in qualcosa di più complesso, in un congegno pop sempre più raffinato, influenzato sia dal "wall of sound" di Phil Spector, che da quanto, oltreoceano, andavano facendo i Beatles di Lennon & McCartney. Il sogno era quello di scrivere la canzone pop perfetta, di condensare, insomma, nel giro di pochissimi minuti un universo intero di sensazioni ed emozioni, di deviare, anche solo per un breve, brevissimo tratto, il fiume del perenne mutamento verso una pozza di creatività in cui la potenza disumana di quello stesso fiume potesse risplendere ogni volta che la puntina, facendo il suo dovere, avesse trasformato le scanalature dei solchi vinilici in note, parole, ritmi.

beach_boys_all_summer_long_ondarock_nunziataSe c’è un disco con cui Brian si congedò, almeno idealmente, dalla cultura surf californiana, quello è sicuramente “All Summer Long” (luglio 1964), aperto da uno dei brani più celebri e importanti catalogo Beach Boys, vale a dire “I Get Around”, un piccolo congegno di pop evoluto che, oltre a testimoniare la crescita esponenziale della band nel maneggiare le armonie vocali, qui costruite intorno allo svettare iperbolico del falsetto di Brian, e a evidenziare l’abilità di quest’ultimo nell’utilizzare lo studio di registrazione come un vero e proprio strumento, riflette sulla fama immediata ottenuta dalla band, tra le righe chiedendosi se tutto ciò sia davvero quello che conta.
Dopo “All Summer Long”, le cose cambiarono. La vita sotto i riflettori e la continua tensione verso un sound sempre più sofisticato avevano già lasciato diverse cicatrici sulla psiche di Brian.

Poi, arrivò quel 23 dicembre del 1964: la band era in tour e stava volando da Los Angeles a Houston quando, all’improvviso, Brian fu colpito da un violentissimo attacco di panico. La misura era colma. Il leader e compositore maximo dei Beach Boys (che nel frattempo aveva anche scoperto di essere parzialmente sordo all’orecchio destro, chissà se per un difetto congenito o perché colpito da una bastonata infertagli dal padre-padrone Murray) decise di abbandonare il tour e la band, per onorare gli impegni già presi, fu costretta a sostituirlo momentaneamente con Glen Campbell. Alcuni giorni dopo, Brian convocò gli altri membri del gruppo e comunicò loro che, da quel preciso momento, la sua unica preoccupazione sarebbe stata quella di concentrarsi sulla composizione e sul lavoro in studio. La band cercò di opporsi, ma fu costretta poi a ingaggiare in pianta stabile Bruce Johnston per sostituirlo nelle esibizioni dal vivo.

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Cercando di alleviare lo stress, ma anche per tentare la sua musa, Brian iniziò a fumare marijuana. Prese, quindi, a lavorare spasmodicamente alla realizzazione di “The Beach Boys Today!”, disco che vedrà la luce nel marzo del 1965. Abbandonati i temi legati all’universo del surf, agli amori giovanili e alle auto veloci, il nuovo lavoro mostrò un’ulteriore maturazione a livello di arrangiamenti, cosa che richiese, in fase di registrazione, l’intervento di una trentina di sessionmen (!), molti dei quali componevano la cosiddetta Wrecking Crew, utilizzata per le sue produzioni dall’amato Phil Spector. Inoltre, per la prima volta in fase di produzione Brian focalizzò la sua attenzione sul suono di ogni singolo strumento, salvo poi costruire il “muro del suono” come un vero e proprio mosaico. Anche a livello di testi il cambio di rotta fu eclatante: in essi Brian si concentrò sulla meraviglia che solo l’amore adolescenziale è in grado di farci provare, portando allo scoperto, di rimando, molte delle sue inquietudini e delle sue fragilità. La scrittura in prima persona è la spia più evidente di questo cambio di rotta: adesso, ciò che egli scrive è, niente più, niente meno, che la trasfigurazione poetica di quel magma di sensazioni e di emozioni che s’agitava in fondo alla sua anima.
La prima parte di “The Beach Boys Today!” è costituita da brani ritmati molto accattivanti e ovviamente conditi con quelle armonie vocali che, sempre più complesse, costituivano ormai uno dei tratti più caratteristici della loro musica. “Do You Wanna Dance” (brano di Bobby Freeman del 1958, qui trattato secondo i dettami dello spectoriano wall of sound), “Good To My Baby” (il titolo riecheggia, certamente non a caso, il successo delle Ronettes), “Don’t Hurt My Little Sister”, “When I Grow Up (To Be A Man)” (altro esempio di brano uptempo dai toni malinconici), “Dance, Dance, Dance” e la prima versione, con variazione di volume nel finale, di “Help Me, Ronda” (fortemente influenzata da quella “Fanny Mae” del bluesman Buster Brown che anche Dick Dale aveva reinterpretato) fotografano, insomma, i Beach Boys alle prese con il sound più sbarazzino delle loro origini, ma ormai trasformato da Brian in qualcosa di completamente nuovo, in cui le sfumature, le stratificazioni e la scelta della strumentazione hanno un significato preciso: spingere il pop verso dimensioni sempre più ambiziose.

Sul vinile, il lato B (i cui brani furono interamente scritti e arrangiati da Brian sotto l’effetto dell’Lsd) si apriva con “Please Let Me Wonder”, proseguendo, quindi, nel solco di ballate atmosferiche in cui si riconoscono più marcati accenti doo-wop (“I’m So Young”, da un singolo del 1958 degli Students) o in cui l’afflato romantico è, più o meno, rimarcato da una tensione estatica (“Kiss Me Baby”, “She Knows Me Too Well”). L’orchestrazione in punta di piedi (con uso vagamente psichedelico degli archi) di “In The Back Of My Mind” è perfetta, invece, per guidarci nelle stanze più intime di Brian. La traccia più debole (del tutto inutile, a dirla tutta) è “Bull Session With ‘Big Daddy'”, nient’altro che una porzione di un’intervista che i membri della band avevano recentemente concesso al giornalista Earl Leaf.

Le vendite di “The Beach Boys Today!” non soddisfecero la Capitol, che fece pressioni su Brian affinché realizzasse un disco più commerciale, magari con un maggior numero di hit. A malincuore, Brian accettò e il risultato fu “Summer Days (And Summer Nights!!)” (luglio 1965), lavoro che, in termini artistici, fece segnare almeno un passo indietro rispetto al suo predecessore, per quanto la strumentazione messa in campo fosse ancora ragguardevole.
Facendo ancora seguito alle pressioni della Capitol, che a questo giro richiedeva un disco da immettere sul mercato in tempo per Natale, la band approntò “Beach Boys’ Party!” (novembre 1965), uno dei momenti più bassi della loro discografia. Tuttavia, pochi giorni dopo la pubblicazione di “Beach Boys’ Party!”, venne pubblicato il singolo inedito “The Little Girl I Once Knew”: si trattava di un ritorno alla forma migliore, a dimostrazione del fatto che il “party album” era stato solo un incidente di percorso, perché ormai Brian non vedeva dinanzi a sé alcun limite: “Per tutto l'anno dopo il volo per Houston, ho continuato a pensare a che tipo di canzoni avrei dovuto fare e se ci fossero limiti a come poteva suonare una canzone pop. Non riuscivo a pensare a nessun limite. Sapevo che dovevo esplorare di più quel sound. Dovevo andare oltre in quella direzione, aggiungere più orchestrazione e diversi tipi di arrangiamenti alla nostra musica.”

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A quell’altezza (novembre 1965), Brian stava già lavorando a "Pet Sounds", disco che nelle sue intenzioni doveva rappresentare il compimento della ricerca sonora iniziata con “The Beach Boys Today!”. A spingerlo verso soluzioni sempre più ardite contribuirà l’ascolto di “Rubber Soul”, pubblicato dai Beatles il 3 dicembre di quello stesso anno. Il sesto album dei quattro di Liverpool lo mise alle corde, perché in esso Brian vide non una semplice raccolta di canzoni, ma un lavoro artisticamente coerente, privo di riempitivi. Fu così che Brian annunciò a tutti che avrebbe realizzato il “più grande disco mai fatto”, perché solo così poteva superare “Rubber Soul”, che sin dal primo ascolto gli era sembrato “il più grande disco di sempre”.
Per raggiungere lo scopo, avrebbe ovviamente continuato a percorrere la strada indicatagli da Phil Spector, il mago del wall of sound, una tecnica che egli aveva appreso anche grazie alla frequentazione degli studi nei quali il produttore newyorkese andava registrando, di volta in volta, i brani dei suoi assistiti, e che ben rispecchiava quanto lo stesso Brian percepiva col suo unico orecchio perfettamente funzionante, in cui “tutti i suoni si appiattivano su un unico strato”, dirà. Del geniale e controverso produttore newyorkese, Brian divenne un discepolo così devoto che, come avrebbe dichiarato alcuni anni dopo, per lui i Beach Boys si erano ormai trasformati nei “messaggeri” di Spector.
Per mesi, dunque, Brian lavorò come un matto nello studio di registrazione, componendo, arrangiando e producendo il materiale destinato al nuovo disco, che in pratica fu un suo lavoro solista, più che l’ennesimo parto dei Beach Boys. Gli altri membri della band si limitarono, infatti, a fornire le registrazioni delle loro voci, in modo che Brian potesse lavorarle, stratificarle e, quindi, amalgamarle, al pari di un vero e proprio strumento, al resto del wall of sound, in cui, con certosina pazienza e precisione, egli andava anche dislocando percussioni di ogni tipo, fisarmoniche, bassi, chitarre, pianoforti, archi, ottoni, campanelli per bicicletta e finanche un Tannerin, uno strumento approntato verso la fine degli anni Cinquanta dal trombonista Paul Tanner e dall’inventore Bob Whitsell, in modo da riprodurre il suono del theremin.

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Uscito nel maggio del 1966, "Pet Sounds" (titolo che Brian scelse dopo aver ascoltato un commento negativo di Mike Love sulle sue nuove canzoni, una roba tipo: “Chi vuoi che ascolterà questa merda? Le orecchie di un cane?”) è un concept-album incentrato sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, un tema articolato in tredici brani i cui testi Brian affidò al paroliere Tony Asher, che lo aiutò a tradurre in un linguaggio poetico più rifinito quei sentimenti confusi che da qualche tempo lo perseguitavano.
“È difficile dire esattamente quando è nato il suono di ‘Pet Sounds’. Era qualcosa che si stava formando da un po'. Forse è iniziato quando ho sentito per la prima volta ‘Be My Baby’ [delle Ronettes] alla radio e ho iniziato a capire come si potessero creare emozioni attraverso il suono. Forse è iniziato quando ho meglio compreso cantanti soul come Dionne Warwick e Aretha Franklin e su come potessero farti provare emozioni incredibili con piccoli gesti vocali. O forse tutto è partito dal secondo lato di ‘The Beach Boys Today!’, quando presi a scrivere canzoni più morbide e lente, e che non erano esattamente ballate d'amore, ma piuttosto istantanee di come mi sentivo mentre crescevo. Probabilmente, è stato tutto questo insieme, ma ha cambiato quello che facevo”.

Introdotto da un piccolo fraseggio di chitarre che suonano come arpe, il primo brano del disco, “Wouldn’t It Be Nice”, “una canzone su qualcuno che non ha qualcosa che desidera”, s’impone come uno snodo tra il disimpegno degli esordi e la complessità del nuovo corso, procedendo, con piglio sinfonico, tra chiassose sarabande e oasi di nostalgico stupore. Tutto, comunque, nel complesso suona carico di giubilante ottimismo, come è giusto che sia all’inizio di ogni viaggio che si rispetti. A una ninna-nanna rinascimentale assomiglia, invece, “You Still Believe In Me”, mentre “That’s Not Me” ha un afflato devozionale e porta con sé i dubbi e i dolori che accompagnano sia la scoperta della propria identità che la ricerca della propria indipendenza. La love ballad di “Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder)” assume, invece, un tono austero, avanzando con solennità regale tra la voce che si riflette nella sua eco e un quartetto d’archi che veicola il mistero di un amore che non ha bisogno di parole.

Posso sentire così tanto nei tuoi sospiri
E posso vedere così tanto nei tuoi occhi
Ci sono parole che entrambi potremmo dire
Ma non parlare, metti la testa sulla mia spalla
Avvicinati, chiudi gli occhi e resta immobile
Non parlare, prendi la mia mano e fammi sentire il battito del tuo cuore
Essere qui con te è così giusto
Potremmo vivere per sempre stanotte
Non pensiamo a domani

Dal canto suo, “I’m Waiting For The Day” alterna brevi momenti di riflessiva introspezione ad altri dominati dal vigore delle percussioni. Preceduto dai toni meditativi dello strumentale “Let’s Go Away For Awhile” (in cui archi e sassofoni sembrano seguire il flusso irregolare di un’intima mareggiata, mentre, ricorderà Brian nel suo memoir, “una chitarra a cui avevamo legato una bottiglia di Coca-Cola alle corde” suona “come una steel guitar hawaiana”), il mulinello di chitarre celestiali (quasi in orbita Byrds) e il passo bandistico di “Sloop John B” (un vecchio brano tradizionale delle Bahamas che Carl Sandburg aveva messo su disco, per la prima volta, nel 1927 con il titolo di “The John B. Sails”) ci accompagnano verso la fine del lato A con un misto di grazia festante e soffocata inquietudine. Il viaggio verso la maturità è a una svolta, ma il refrain “let me go home, I wanna go home” (“lasciami tornare a casa, voglio andare a casa”) mostra che i dubbi e le paure sopravvivono ancora nell’ombra, perché qui, a conti fatti, la “casa” null’altro è che il simbolo di una giovinezza ormai perduta per sempre.
Si riparte, dunque, con uno dei brani più belli scritti da Brian: “God Only Knows”, guidata dai corni francesi e impreziosita da un refrain che assomiglia a una preghiera affidata agli angeli. Brian non è capace di spiegare il suo amore per l’amata: solo Dio sa cosa egli sarebbe senza di lei, un Dio che incarna “qualsiasi forza aiuti una persona a controllare le proprie speranze e i propri dubbi”.

Se un giorno deciderai di lasciarmi
La mia vita, credimi, continuerà comunque
Il mondo non avrebbe nulla da mostrarmi
Perciò che senso avrebbe vivere?
Dio solo sa cosa sarei senza te

La stesura di “I Know There’s An Answer” risaliva a un periodo antecedente la prima idea del disco. Brian la scrisse dopo l’ennesima esperienza con l’acido lisergico. “La gente prendeva l’acido per allontanarsi da se stessa, ma non era il modo giusto di prenderlo. Doveva farti andare più a fondo in te stesso. Volevo ricordare alla gente che poteva meglio sopravvivere a tutto se si ricordava chi era”. Musicalmente, “I Know There’s An Answer” presenta ancora un arrangiamento molto particolare, costruito amalgamando sassofoni, flauti, un organo, un banjo, un’armonica (il cui suono, durante l’assolo, assomiglia molto a quello di un kazoo) e finanche un pianoforte preparato. Nel viaggio che tutti affrontano dall’adolescenza alla maturità, la risposta da cercare è racchiusa nella propria interiorità: questo il messaggio del brano.

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“Here Today” ruota, invece, intorno al tema dell’amore messo a dura prova dal tempo, bagnandosi nelle acque del pessimismo e della disillusione (sensazioni che il rude borbottio del trombone richiama efficacemente). Il disincanto di Brian è ancora più evidente in “I Just Wasn’t Made For These Times”, un brano in cui egli dichiara, fin dal titolo, di sentirsi fuori dal suo tempo. Si tratta di una condizione che lo rattrista molto, anche perché, ogni volta che avverte su di sé la luce dell’ispirazione per cambiare le cose, le persone che lo circondano non sono in grado di aiutarlo.
L’altro momento strumentale del disco è quello della title track, il cui feeling esotico e tribale è rinvigorito dal suono dei bonghi e delle lattine di Coca-Cola percosse dal batterista Ritchie Frost su esplicita richiesta di Brian. Il compimento del viaggio è perfettamente esemplificato dalla malinconica ballata di “Caroline No”, chiusa dall’abbaiare dei cani dello stesso Wilson e dal rumore di un treno in transito nei pressi di un passaggio a livello. La giovinezza è passata e con essa anche la donna amata. Non è più possibile riportarle in vita. Al massimo, si possono trattenere sul bagnasciuga della memoria.

Potrò mai ritrovare in te
Quelle cose di cui mi sono innamorato allora
Le potremmo riportare una volta che se ne sono andate
Oh, Caroline no

beach_boys_good_vibrations_ondarock_nunziataPer la musica pop americana (e non solo), “Pet Sounds” rappresentò un momento cruciale, un punto di svolta in direzione di sonorità consapevolmente sperimentali ed elegantemente colte. Per molti addetti ai lavori, il disco non solo fece guadagnare alla pop-music un posto tra i ranghi delle espressioni creative più importanti cui l’uomo può affidare le proprie idee ed emozioni, ma contribuì anche a diffondere il verbo della musica psichedelica (che proprio in quel 1966 stava iniziando a muovere i suoi primi, consapevoli passi) e ad anticipare la tendenza “barocca” di quella “progressiva” (non a caso, nel suo lancio in Inghilterra, il disco fu presentato come “the most progressive pop album ever!”).
I “rivali” Beatles presero nota e ascoltarono il disco mentre erano alle prese con gli ultimi ritocchi da dare a “Revolver”, in uscita nei primi giorni di agosto di quello stesso anno, nemmeno due mesi dopo il lancio di “Pet Sounds”. Il duello a distanza all’ombra del Sacro Graal del Pop continuava e Brian, una volta ascoltato il nuovo disco dei Fab Four, volle subito replicare, mostrando di essere ancora un passo avanti. Nell’ottobre successivo, i Beach Boys pubblicarono, quindi, “Good Vibrations” (liriche di Mike Love; oltre un milione di copie vendute), destinato a diventare uno dei singoli più grandi e rivoluzionari della storia della musica che tanto amiamo. Assemblando vari frammenti musicali nati in situazioni diverse, Brian (che lavorò al brano per mesi e mesi, registrando in totale oltre novanta ore di nastro magnetico – per venti versioni differenti del brano! – e facendo spendere alla Capitol la cifra, per l’epoca esorbitante, di 75mila dollari!) cesellò una gemma di pop psichedelico ispirata sia dall’assunzione di Lsd, che da un impellente bisogno di scrivere “musica spirituale” e il tutto si spiega alla luce del fatto che, per la sua prima esperienza con l’acido lisergico, Brian avesse parlato di “evento religioso”, con annessa percezione dell’entità divina…

I Beatles accusarono il colpo e iniziarono a pensare a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. Brian, però, non aveva certo intenzione di starsene con le mani in mano. Anzi: a quell’epoca, nella sua testa andava già materializzandosi una serie di brani in cui il pop barocco di “Pet Sounds” lasciava campo libero a qualcosa di ancora più avveniristico.
Il trionfo dello spectoriano wall of sound tra i solchi di "Pet Sounds" e quello “collagistico” del singolo “Good Vibrations” lo avevano proiettato nell’olimpo della musica pop. Ancor prima che “Pet Sounds” fosse ultimato, Brian aveva già in testa il passo successivo. La sua idea era quella di scrivere una "sinfonia adolescenziale dedicata a Dio", come lo stesso ebbe a dire all’epoca, probabilmente ispirandosi all’idea di “pocket symphony” teorizzata dagli autori e produttori Jerry Leiber e Mike Stoller, presso i quali – guarda un po’! – Phil Spector aveva compiuto il proprio apprendistato.
Con “Good Vibrations”, Brian aveva avuto modo di sperimentare nuove tecniche di registrazione, incollando tra di loro svariati suoni e creando, quindi, un vero e proprio collage sinfonico. Proprio da lì egli volle ripartire, immaginando la sua nuova fatica come una suite in cui i brani dovevano essere uniti tra di loro mediante un’identità musicale e tematica. L’incontro decisivo per l’avvio di questo nuovo progetto fu quello con il compositore e arrangiatore Van Dyke Parks, che si era rifiutato di revisionare il testo di “Good Vibrations” scritto da Mike Love, ma alla fine fu ben lieto di collaborare con il leader dei Beach Boys nella stesura dei testi di quello che, all’epoca, si chiamava ancora “Dumb Angel”, a indicare quel conflitto tra spiritualità e mondanità che sarebbe stato uno dei temi centrali del nuovo progetto. I due iniziarono a incontrarsi praticamente tutti i giorni a casa di Brian, dove quest’ultimo aveva fatto installare una tenda per fumare marijuana in compagnia e un pianoforte all’interno di una vasca piena di sabbia, così da potervi immergere i piedi per stuzzicare l’ispirazione. I geni, si sa, sono anche persone eccentriche…

Il primo frutto della collaborazione con Parks fu “Heroes And Villains”. Man mano che il progetto andava concretandosi attraverso la stesura di altri brani (“Surf’s Up”, “Wonderful”, “Cabin Essence” e “Wind Chimes”), i due ne chiarirono anche l’idea tematica di fondo: produrre un disco che rappresentasse una sorta di viaggio lirico-musicale attraverso la cultura e la società degli Stati Uniti, dalla costa Est fino alle isole Hawaii. Nel frattempo, era stato anche deciso il titolo definitivo del disco: “SMiLE”, esattamente con questa grafia, a simboleggiare l’annichilimento dell’Io. Il richiamo al "sorriso" era la spia più evidente di una musica in cui la spiritualità e la voglia di diffondere felicità e buonumore andavano di pari passo.

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Nell’agosto del 1966, iniziarono le registrazioni. Col passare dei giorni, mentre sperimentava accostamenti sonori inusuali o approntava particolari sequenze armoniche, Brian fu colto da un’eccitazione divorante. Come già accaduto per “Good Vibrations”, fu adottato un procedimento collagistico (o “modulare”) per cui, invece di pensare ai brani come se fossero strutture già compiute, li si divise in sezioni che, poi, venivano registrate a velocità o con arrangiamenti diversi e, per di più, in studi differenti, in modo da poter sfruttare gli effetti e le acustiche che li caratterizzavano. Successivamente, le varie sezioni dei brani venivano selezionate e legate tra di loro attraverso un procedimento che poteva ricordare il montaggio cinematografico, andando così a formare un vero e proprio brano.
Gli altri membri, ma anche gli amici e i più stretti collaboratori, avevano intanto sviluppato nei confronti di “SMiLE” una vera e propria venerazione. Tra di loro, ne parlavano in modo entusiastico, riferendosi ad esso con il termine “monumento”. Un giorno, ai giornalisti e ai fan che cercavano di sapere come stessero andando le cose, Dennis Wilson disse: “Per quanto mi riguarda, [“SMiLE”] rende ‘Pet Sounds’ muffa… Ecco quanto è grande. Dovete aspettare solo che esca e ve ne renderete conto voi stessi”.

Sì, ma intanto la data di pubblicazione continuava a essere posticipata e ai piani alti della Capitol a molti prese a ribollire il sangue nelle vene. Iniziarono, così, le pressioni affinché il disco uscisse quanto prima (il dicembre del 1966 sarebbe stato perfetto!), cosa che mal s’addiceva alla psiche di Brian, sempre più fragile anche per colpa dell’assunzione di droghe, psichedeliche e non. La sua ansia ebbe una seria impennata quando, nel dicembre di quello stesso anno, i Beatles entrarono negli Abbey Road Studios per registrare il seguito di “Revolver”. Insomma, la gara a chi avrebbe fatto uscire prima la sua nuova creazione era aperta. Poi, nel febbraio del 1967, i Baronetti di Liverpool pubblicarono il singolo “Strawberry Fields Forever” e tutto andò in malora. Brian lo ascoltò per la prima volta mentre si trovava in macchina e restò sbalordito. Si rese conto, insomma, che, nella corsa verso il Sacro Graal del Pop, i Beatles avevano piantato un allungo pressoché decisivo e questo mal si sposava con l’ansia da prestazione e l’incertezza che egli si portava appresso ogni volta che sentiva di dover dare il meglio di sé. Di lì a poco, le tensioni interne alla band si acuirono, non solo perché l'assunzione di droghe aveva reso Brian praticamente ingestibile, ma anche perché Mike Love e gli altri mal digerivano i testi poetici e in qualche caso nonsense di Van Dyke Parks. Quest'ultimo, stanco di sentirsi attaccato, a un certo punto abbandonò le sessioni di registrazione, che nel frattempo si erano fatte sempre più frammentate, tanto che nel maggio di quello stesso anno l'avventura di "SMiLE" si esaurì del tutto. Quasi fosse un segno del destino, all'inizio di giugno i Beatles pubblicarono “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, album nato, avrebbe ricordato George Martin, come “tentativo di eguagliare ‘Pet Sounds’”...

beach_boys_smiley_smile_ondarock_nunziataBrian non ce l'aveva fatta a scalare la montagna della sua enorme ambizione. Tuttavia, c’era un contratto da rispettare e lui sapeva che non poteva lasciare la sua band nelle grinfie della Capitol. Dopo tutto, l’aveva già obbligata a cancellare la partecipazione al Monterey Pop Festival (16, 17 e 18 giugno). Così, a mo’ di compromesso, nel settembre del 1967 uscì “Smiley Smile”, disco sui cui comparivano brani scritti ex-novo e in fretta e furia (per rispettare le scadenze), più versioni molto semplificate dei brani destinati a "SMiLE", fatta eccezione per la ripresa pari-pari di “Heroes And Villains” e di “Wind Chimes”.
L’eco dei Four Freshmen torna prepotentemente a farsi sentire nella minimalista “With Me Tonight”, ma anche in “Vegetables”, surreale escursione in un mondo sonoro in cui le voci gigioneggiano o si abbandonano all’estasi, mentre il basso disegna l’asse ritmico e qualcuno (Paul McCartney, stando a quando dicono i ben informati) sgranocchia con gusto sedano e carote…
Lo strumentale “Fall Breaks And Back To Winter (W. Woodpecker Symphony)” riprende, rallenta e deforma l’originale “The Elements: Fire” (uno dei brani più avventurosi delle session di "SMiLE"), annodandosi intorno al risuonare mugugnante delle voci (ho l’impressione che i Residents abbiano ascoltato fino alla nausea questo brano) ed evocando anche il tema del cartone animato "Woody Woodpecker". Tra i momenti più bizzarri, ci sono, invece, “She’s Goin’ Bald” (con voci comicamente stiracchiate) e una “Little Pad” che shakera mugolii, echi hawaiani e risatine. Dopo il ripescaggio della superba “Good Vibrations”, completano la scaletta il ritornello spiraleggiante, accerchiato da devianze blues e incubi paranoici, di “Getting Hungry”, il doo-wop che striscia dentro una stanza degli specchi di “Wonderful” e, infine, “Whistle”, un minuto e poco più di marcetta melodica. A conti fatti e nonostante le premesse, "Smiley Smile" s’impone come uno dei lavori migliori dei Beach Boys.

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Durante gli anni, l’abortito "SMiLE" sarebbe diventato uno dei lost album più famosi della storia del rock (per molti, il "lost album per eccellenza"). Tanti fan, sulla scorta delle varie registrazioni delle session risalenti a un periodo compreso tra l’aprile del 1966 e il maggio del 1967, si costruiranno addirittura versioni personalizzate di quell’opera leggendaria.
Nel 2004, Brian Wilson cercò di portare a compimento il progetto ri-registrando quel materiale con nuovi musicisti e pubblicando il tutto con il titolo di “Brian Wilson Presents Smile”. Poi, nel 2011, a cinquant’anni dalla nascita dei Beach Boys, “The Smile Sessions” ripescò intatte le registrazioni dell’epoca, in pratica mettendo un punto fermo nella lunga disputa intorno al lost album e confermando che, sì, quella di “SMiLE” era un’altra affascinante avventura (ancora più affascinante di quella di “Pet Sounds”, mi permetto di suggerire) dentro i labirinti di un pop psichedelico, sperimentale e intelligentemente “progressivo”. Lo avessero pubblicato all’epoca, Brian Wilson e i Beach Boys avrebbero dimostrato di essere senza rivali in ambito di pop evoluto e, chissà, forse avrebbero relegato “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” in secondo piano (toglierei il “forse”, mi permetto ancora di suggerire). Le cose andarono diversamente, ma “The Smile Sessions” mostra quanto, durante gli anni, quelle tracce così mitizzate e condivise tra gli appassionati a suon di bootleg e registrazioni pirata avessero profondamente influenzato i percorsi più obliqui della musica pop.

La tracklist "standard" delle "Smile Sessions", approvata dallo stesso Brian Wilson, è costituita da 19 tracce, sebbene in un suo appunto del dicembre 1966, lo stesso Brian avesse indicato una tracklist, invero provvisoria, di sole 12 tracce*, cui comunque ne andrebbero aggiunte altre (tra cui "Our Prayer"), sulla scorta dell'analisi delle diverse sedute di registrazione dell'epoca. Questo, a voler esser pignoli.
Quanto alla musica di queste leggendarie registrazioni, dopo l’ouverture a cappella di “Our Prayer” (ispirata alla musica sacra) e la breve cover di “Gee” (un brano dei Crows), siamo alle prese con “Heroes And Villains”, il brano cardine di tutta l’operazione "SMiLE", col suo affascinante mix di cantilenanti bagordi, sequenze di doo-wop in modalità vaudeville e celestiali interludi. Ciò che segue, da “Do You Like Worms (Roll Plymouth Rock)” fino a “Cabin Essence” – che chiude il primo movimento della suite (ricordate l’idea originaria del disco?) con un “valzer rock and roll" – è una schizofrenica e avvincente successione di stratificazioni ritmiche, oblique incursioni cameristiche, sprazzi di vaudeville, ipotesi di psych-pop e di surf-rock decostruito, nebbie di lisergica malinconia, minimalismi estatici e allucinazioni di “good vibrations”.
Inaugurato dalle trame barocche di “Wonderful”, il secondo movimento prosegue, dunque, con una “Look (Song For Children)” che delizia con il suo bandismo fanciullesco, prima di incrociare “Child Is Father Of The Man”, in cui le armonie vocali sembrano volteggiare nel vento come foglie ingiallite. "‘Child Is Father To The Man’ era basata su uno scritto di Karl Menninger, uno psichiatra che aveva teorie interessanti sulla salute mentale e la malattia mentale, su come le persone si sviluppano, e su quando i medici dovrebbero cercare di aiutare e quando dovrebbero mantenere le distanze. Era uno dei fondatori della Clinica Menninger in Kansas. Qualcuno, forse Van Dyke, mi disse anche che c'era un'idea simile in una poesia di Wordsworth”.
Nella successiva “Surf’s Up” questo pop nato all’incrocio tra i Four Freshmen, il wall of sound e l’abbandono del corpo e della mente dinanzi al simulacro della endless summer raggiunge un picco assoluto, anche grazie a uno dei testi più poetici (e arcani) vergati dalla mano di Van Dyke Parks:

Il velluto appeso mi ha sopraffatto
Un lampadario fioco mi ha risvegliato
A una canzone dissolta nell'alba
(…)
Il vetro fu sollevato, la rosa essiccata
La pienezza del vino, l’ultimo, rassegnato brindisi
Mentre sei nel porto o muori
Un soffio di dolore s’indurì, io
Oltre la fede, un uomo distrutto troppo difficile da piangere

Brian spiegò che il brano rispecchiava la visione di un uomo che, svanita la realtà dinanzi ai suoi occhi, cercava di ricostruirla come in un sogno. “'Surf’s Up' è davvero una rapsodia, con tutti i cambi di tonalità e le variazioni di tempo. A volte sembra solo divagare, ma divaga in modo straordinario”. Quanto al significato dei versi scritti da Asher: “La gente dice che sono troppo complicati o che non significano nulla, ma è proprio questo il bello della poesia. Sono idee, e ti fanno venire delle idee quando le ascolti. Non ho mai chiesto a Van Dyke cosa significassero. Ho cantato il loro significato così come lo sentivo”.

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“I Wanna Be Around / Workshop” inaugura il terzo e ultimo movimento con libera disseminazione di strumenti e voci. “Vega-Tables” è, invece, la “Vegetables” di “Smiley Smile” riportata alla fonte. Alla marcetta vaudeville di “Holidays” segue, dunque, “Wind Chimes”, un corale free-form con coda per improvvisazioni vocali.
L’inizio di “The Elements: Fire (Mrs. O’Leary’s Cow)” è segnato da quella che sembra la versione comica di un allarme antincendio, preludio a un tambureggiare ossessivo oltre cui le voci vengono risucchiate in un vortice che, sul finire del brano, lascia filtrare ancora sinistre prefigurazioni dei Residents. Il brano è uno di quelli che fecero capire allo stesso Brian che si stava spingendo davvero troppo oltre: “Stavamo provando così tante cose. Col senno di poi, si può dire che fossero troppe, ma non era questa la mia preoccupazione all'epoca. Volevo solo raggiungere le vette più alte, e a volte era troppo al di sopra della portata di tutti, compresa la mia”. E ancora: “Per la sessione di registrazione (di ‘The Elements: Fire’, ndr), chiesi alle persone di entrare in studio indossando cappelli da pompiere. Avevo un secchio con della legna accesa in modo che lo studio emanasse odore di fumo. Quello che volevo davvero era registrare gli scoppiettii e gli scricchiolii della legna mentre bruciava. Ma, a quanto pare, quella canzone non è mai stata registrata. Pochi giorni dopo la sessione di registrazione, un edificio vicino allo studio è bruciato. Due giorni dopo, un altro edificio è bruciato. Non so se ci siano stati altri incendi o se li ho notati all'improvviso, ma la cosa mi ha messo a disagio. Ho messo via i master. Si racconta che abbia persino provato a bruciare i nastri, ma o non è vero o non me lo ricordo. Non credo che l'avrei fatto. A volte avevo delle superstizioni. Qualche anno dopo (…) iniziai a preoccuparmi che l'inquinamento di Los Angeles mi stesse rovinando i polmoni, così feci portare una bombola di ossigeno in studio. Ma bruciare le cose sarebbe stato troppo. Il modo in cui ‘The Elements: Fire’ si è sgretolata… è così che si è sgretolato tutto. In un verso alla fine di ‘Cabinessence’, Van Dyke scrisse: ‘Ancora e ancora/ Il corvo grida, svela il campo di grano/ Ancora e ancora/ La trebbiatrice e il piviere, il campo di grano’. Mike (Love, ndr) lo cantava ripetutamente, ma non aveva idea di cosa significasse, e pensava che nemmeno Van Dyke potesse spiegarlo. Io non sapevo cosa significasse, ma sapevo che significava qualcosa. Forse ero solo io, ma trovavo difficile spiegare qualcosa a Mike e, in ogni caso, non ero sicuro di chi dovesse spiegare qualcosa a chi”.
Le sonorità dilatate di “Love Say Dada” richiamano l’ampliamento della coscienza generato dall’assunzione dell’Lsd che, non a caso, potrebbe essere un acronimo del titolo e preludono al capolavoro “Good Vibrations”, di cui si è già detto.

Messisi alle spalle la sbornia sperimentale del biennio 1966-1967, Brian Wilson, e quindi i Beach Boys, vireranno su posizioni relativamente più “terrene”, tornando raramente sui livelli di grandezza toccati da “Pet Sounds” e da quello che avrebbe dovuto essere “SMiLe” se solo Brian, già dilaniato dalla lotta contro i propri demoni, non fosse crollato sotto il peso di un'ambizione smodata e delle proprie inquietudini. La sua è stata una battaglia lunga e difficile, che ha trovato voce innanzitutto nella musica della endless summer, luogo dell’anima in cui la purezza e la magia della giovinezza sono conservate e riscaldate da una luce che resiste a ogni tenebra, come l’“estate invincibile” cantata in versi da Albert Camus. In quella “estate infinita”, dove amava rifugiarsi, Brian a un certo punto incrociò i propri demoni, dapprima rabbrividendone, dunque scorgendovi il negativo di quella luce abbagliante e colma di tepore che inonda il corpo e l’anima quando una madeleine qualsiasi innesca la scintilla della memoria, annunciando il regno del tempo ritrovato, in cui passato e presente si riecheggiano con una e una sola voce, in perfetta, eterna armonia con sé stessa.

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Note

* Questa la tracklist: 
Do You Like Worms?
Wind Chimes
Heroes & Villains
Surf’s Up
Good Vibrations
Cabinessence
Wonderful
I’m In Great Shape
Child is the Father of the Man
The Elements
Vega-Tables
The Old Master Painter/ Sunshine

15/06/2025