Le classifiche degli artisti

Italia 2018: la lista di Stefano Santoni (Sycamore Age, Ant Lion)

Anche quest'anno inauguriamo la rubrica dedicata ai dischi che sono piaciuti di più ai nostri artisti preferiti. Per la Sezione Italia ospitiamo le scelte di Stefano Santoni dei Sycamore Age, gruppo aretino che ha riportato la scena progressive italiana ai fasti creativi degli anni 70.

Ecco i dieci dischi del 2018 scelti e commentati da Stefano Santoni in esclusiva per OndaRock.

Field Music - Open Here
Sicuramente il disco più simpatico e originale dell’anno. Viviamo un’epoca in cui sembra così difficile rinnovarsi totalmente e liberarsi definitivamente del passato; intrappolati come siamo in un loop fatto di rivisitazioni infinite delle ultime decadi del secolo scorso. I Field Music, con il loro “Open Here”, non sembrano affatto voler fare eccezione ma, se non altro, lo fanno cercando tra le pieghe più inesplorate del tempo: Xtc, Donald Fagen e, non di meno, tutti i prodotti del colpo di coda operato dai pionieri del progressive, approdati e riciclatisi nel pop più colto e candidamente impegnato dei primi 80, Peter Gabriel in testa (etc.).
 
L’onda lunga dello slowcore deborda ben oltre i suoi confini spazio-temporali per giungere fino ai nostri giorni e lambirci con questo album stupendo. Fatta definitivamente propria l’elettronica, già timidamente approcciata in album precedenti, in “Double Negative” i Low la magnificano con armonie e melodie decisamente genuine e assolutamente ispirate.
 
“Your Queen Is A Reptile” equivale a immaginarsi uno zingaro serbo che imbraccia un basso tuba, John Coltrane, un cantante raggamuffin, e Martin Luther King, tutti assieme, attorno al tavolino di in un bar di Caracas. Globalizzato e globalizzante, metropolitano e tribale, frenetico e delicato al tempo stesso: un minestrone zeitgeist?
 
Ormai consacrato come figura di spicco del panorama elettronico mondiale, Jon Hopkins, anche con questo concept-album sulla relazione tra mente umana e universo, mantiene la sua produzione a un livello altissimo: “Singularity” è, infatti, una parafrasi riuscitissima di atmosfere e reazioni cosmiche. Un disco che segue perfettamente le dinamiche pulsanti del celeste. Un sound elegantissimo, che a tratti tende a contrarsi nella propria massa, alternando momenti di espansione infinita, pur rischiando di incorrere nello spegnimento della stessa materia che lo compone.
 
Nulla di particolarmente innovativo, se non un disco decisamente sopra le righe rispetto ad altri precedenti nella ricca produzione di Ty Segall (già tre album prodotti solo nel corso del 2018). Un album decisamente ben scritto, ma che fa dell’autoironia il suo vero punto di forza. Nei mitici anni 70 i più noti rocker si presentavano a petto nudo, facendo ondeggiare cascate di capelli ricci in un atteggiamento deificante nel quale si prendevano assolutamente sul serio. Ty Segall, soprattutto in questo disco, ribalta i fattori e mira oculatamente a strappare risate, sfoderando riff classic-rock fin troppo mastodontici per non essere consapevoli di sfiorare il ridicolo, assoli di chitarra old school che arrivano persino a moltiplicarsi sovrapponendosi in un delirio egoico che spiazza proprio perché palesemente fuori contesto temporale. I testi, non di meno, sono lì a magnificare il tutto. Non capita spesso di ascoltare un album rock e sbellicarsi dalle risate.
Tra le attuali correnti musicali, se da un fronte sta avanzando la ricerca sulla produzione, con suoni sempre più ricercati, elaborati e raffinati, su altri frangenti sembra stia timidamente dilagando la necessità di un ritorno a sonorità più scarnificate e pure. Come se si stesse risvegliando la consapevolezza che certe impalcature sonore, soprattutto nel nostro tempo, non giovino necessariamente alla resa della scrittura di base del brano, anzi, più spesso sembrano essere usate come espediente per nascondere il nulla o quantomeno il poco che c’è dietro. “Minus” di Daniel Blumberg è un esempio lampante di questa seconda frangia: qui tutto è giocato su un’emozione nuda e funambolesca, sospesa in perfetto equilibrio sulla semplificazione.
 
Con un atteggiamento diametralmente opposto a quello di Daniel Blumberg, questa figura nebulosa appartiene alla nuova specie degli electronic producers performativi: nel live non sta dietro a una console ad agitare la testa come la maggior parte dei suoi colleghi ma, al contrario, offre uno show più vicino ad Arca o, volendo esagerare un po’, a Genesis P-Orridge dei Throbbing Gristle. Discontinuo, variegato, disomogeneo; “Safe In The Hands Of Love” sembra in cerca di un punto di riferimento, uno studio per un disco futuro e del futuro. In definitiva, una porta d’accesso per altri mondi? O forse solo un tentativo di generarla? Comunque la si voglia vedere, questo rimane indubbiamente un disco tra i più propositivi del 2018.
 
Onore al merito per questa opera monumentale che, considerate le dinamiche discografiche attuali, potrebbe apparire provocatoria: otto cd (o dodici vinili), per un risultato di circa 8 ore di musica, composte per lo più da delicate rarefazioni ambient. Un’opera che, seppur indiscutibilmente avvincente in ogni suo istante, sfida all’estremo lo span attentivo, ormai ridotto ai minimi termini, che caratterizza la nostra epoca. Quale modo migliore per festeggiare gli appena conclusi trent’anni di carriera, se non quello di stupire ancora? Gli Autechre riescono con successo nel loro intento.
 
Una difficilissima ma riuscitissima operazione di sintesi ad opera di Julia Holter, una torre di Babele di suoni e di approcci musicali tra i più, almeno apparentemente, inaccostabili e improbabili. Suoni provenienti da ogni tempo e da ogni dove: art rock, art pop, classica contemporanea, musica etnica, pop-wave, world music, jazz… e potremmo continuare per altre 20 righe. Nel sound mesmerico di “Aviary” è possibile percepire una tale varietà di influenze, tanto spiazzante a un primo ascolto, da rendere difficoltosa una valutazione complessiva dell’album, a meno che uno non si lasci andare a questo vento intriso dei più disparati profumi, ispirato dalla miriade di uccelli multicolore che affollano questa voliera.
 
Ancora rarefazioni, che in questo frangente evocano landscape post-umani, nei quali echeggiano ancora (tra gli altri) strumenti etnici, ormai resi irriconoscibili, sfigurati da troppa tecnologia e dal troppo tempo passato. Atmosfere desolanti che pur, in una certa misura, sembrano volerci confortare e cullare, messe in opera da un'altra figura interessantissima come Tim Hecker, proveniente dal Canada, anch’esso ormai definibile veterano del linguaggio elettronico del nuovo millennio.