Autore: Fernando Rennis
Titolo: Politics: la musica angloamericana nell’era di Trump e della Brexit
Editore: Arcana
Pagine: 272
Prezzo: Euro 19,50
L’affermazione elettorale di Donald Trump negli Stati Uniti e la vittoria del “Leave” nel referendum britannico sulla Brexit sono due eventi che hanno profondamente scosso le coscienze popolari, divenendo centrali nei testi di tutti quei musicisti - non solo angloamericani - che hanno deciso di assumere una posizione ben precisa su questi argomenti. Fernando Rennis nel suo secondo libro, “Politics”, analizza le conseguenze del voto su entrambi i lati dell’Atlantico e descrive il rapporto attualmente in essere fra musica e protesta. Fenomeno una volta legato prevalentemente alla musica folk, oggi le protest songs emergono in particolare dal mondo dell’hip-hop, dove grime e trap stanno ridimensionando il ruolo del rock nella rappresentazione del dissenso contro il sistema.
Negli anni Dieci la musica continua a difendere il proprio ruolo attivo nella società, molti artisti scrivono interi album per porre l’attenzione generale su temi sociali o per criticare politici e governi. Trump e Brexit, in tal senso, hanno rappresentato una benvenuta boccata d’ossigeno per tanti autori contemporanei. “Politics”, oltre a fornire un quadro esaustivo sulla situazione contingente, spiega le posizioni di Farage, May, Cameron, Corbyn, Trump e Sanders, gli esponenti politici più importanti, ci parla di isolazionismo digitalizzato, post-lessia, accelerazionismo, health goth, vaporwave e dissolvimento dell’idea di futuro. Inoltre riporta una serie di informazioni interessanti, come l’esistenza di una compilation online anti-Putin realizzata da ben 230 artisti russi, o la rilevazione della media dei Bpm delle popular songs, scesa negli ultimi anni da 113,5 a 90,5.
I musicisti inglesi sono giustamente preoccupati: nel 2015 un disco su quattro fra quelli venduti nel Vecchio Continente è stato realizzato in territorio britannico, dal 2014 Bruxelles ha stanziato 121 milioni di euro per festival e sale concerti, quindi uno scenario senza Gran Bretagna in Europa colpirebbe duramente le etichette indipendenti anglosassoni, minandone la sopravvivenza, anche per via dei controlli più severi alle frontiere nei confronti di persone, strumentazione e merchandise. Il dissenso oltre Manica è espresso soprattutto dal grime, attraverso le rime di Skepta, Stormzy e altri appartenenti a un filone musicale dai profondi connotati sociopolitici. Anche negli Usa chi fa musica risponde ad affermazioni e gesti omofobi, misogini, razzisti e irrispettosi attraverso canzoni e dichiarazioni. Tra il 1989 e il 2014 il 60% dei testi che si riferivano a Trump lo facevano con un’accezione positiva. Divenuto presidente, la tendenza si è invertita: i pochi artisti (Kanye West, Gene Simmons, Ted Nugent) che continuano ad appoggiare il Presidente scatenano oggi critiche feroci.
L’attenzione verso questi temi da parte dell’opinione pubblica è in continua crescita, basti pensare che a Kendrick Lamar nel 2017 è stato assegnato il Premio Pulitzer nella categoria "Musica" grazie a un album decisamente anti Trump: “Damn”. Se Beyoncé è stata la prima donna di colore a essere headliner del Coachella, le esponenti di sesso femminile sono ancora lontane dal godere di una situazione paritaria sui principali palchi internazionali. Proprio al Coachella nel 2016 si contavano 168 artisti maschili e soltanto 60 femminili. E’ recente la notizia che il Primavera Sound di Barcellona avrà nel 2019 una line-up nella quale la presenza femminile rappresenterà il 50% del cartellone, ma è probabile possa trattarsi di una situazione del tutto eccezionale. Accanto al cosiddetto “gender gap”, Rennis approfondisce i temi legati alla difesa dei diritti Lgbt+, alle discriminazioni verso neri e latini, alle minacce terroristiche che pendono nei confronti degli eventi musicali, dal Bataclan in poi. Ma la musica non si ferma: la musica è viva e continua orgogliosamente a combattere.