Bjork - Hyperballad (inclusa nell'album "Post", 1995)
Bjork compiva trent’anni nel 1995, e festeggiava dando alle stampe “Post”, per l’etichetta britannica One Little Indipendent. Se si escludono l’album omonimo del 1977 (un vero caso discografico, pubblicato quando l’artista aveva appena 11 anni e andato subito sold-out, ma disco tutto sommato dimenticabile) e la miriade di produzioni con altri progetti (su tutti gli Sugarcubes, di cui fu voce e leader dal 1986 al 1992), si tratta del suo secondo disco solista. Un lavoro per certi versi interlocutorio, che si colloca tra l’esuberanza di “Debut” (1993) che le dà il successo mondiale e la piena maturità di un capolavoro come “Homogenic” (1997). Con questi tre album, la musicista islandese attraversa e segna gli anni Novanta, per molti versi il decennio nel quale la pop music trovava i suoi toni più esuberanti e insieme più melanconici.
Quando esce “Post”, il Seattle sound è nella fase più cupa della sua parabola: è l’anno di un’opera fantastica, “Above” dei Mad Season, che suona anche come epitaffio di quella stagione. Esplode il rock made in London, con una pietra miliare come “(What’s The Story) Morning Glory” degli Oasis. Intanto Aphex Twin ha imposto al mondo il suo universo folle, tra glitch e ambient; l’euforia della globalizzazione, e della sua contestazione, regala mille esperimenti di contaminazioni, dai Rage Against The Machine a Manu Chao. È anche il decennio della retromania, dal trip-hop alle sperimentazioni eclettiche di artisti come Jim O’Rourke e i Tortoise.
Bjork assorbe tutto questo e altro ancora, e il titolo stesso del suo disco di metà decennio denuncia la consapevolezza di venire dopo questa congerie, di doverla in qualche modo trattare. E tuttavia lei procede nel suo percorso artistico con grande concentrazione e coerenza. Si fa sporcare, ma non turbare, approfondisce il suo mash-up di elettronica e pop, tradizione folk e sperimentazione à-la Stockhausen, melodramma e videoarte.
“Hyperballad”, quarto singolo estratto dall’album, è da molti riconosciuta come una delle canzoni più belle dei Novanta, e non solo. In effetti, è uno di quei brani capaci di cogliere lo spirito del tempo, ovvero, non solo di registrare il presente, ma anche di coglierne i movimenti più profondi, tutto quello che sincronicamente resta oscuro e attende il futuro per apparire con chiarezza.
Colpisce anzitutto la perfezione formale della canzone, che molto deve alla produzione di Nellee Hooper: il suo zampino era già in molte cose di Bjork, e soprattutto nella “Violently Happy” del disco precedente, il cui caratteristico incedere techno riecheggia anche qui. Sebbene “Hyperballad” sia un pezzo molto “sensuale”, che cioè esplora da vicino sensazioni fisiche molto precise, il beat che accompagna i tre accordi discendenti della prima parte non è ancora profondo, ctonio, vulcanico come sarà quello caratteristico di tutti i lavori successivi, immersi in una dimensione panica e terrestre. Anticipato da un tappeto di archi, a sua volta straniato da un basso molto macchinico, è piuttosto un battito ovattato, fatto di un rullante massaggiato da spazzole morbidissime, e un accento di cassa a inizio battuta. Con la stessa delicatezza, quasi furtivamente, entrano altri suoni, glockenspiel e scratch appena accennati. Anche quando nel ritornello il brano inizia ad aprirsi, l’atmosfera non smette di essere ombelicale, come sarà in tante altre perle di Bjork (penso soprattutto all’intimismo di “Cocoon”).
È al secondo giro che tutta l’energia fin qui accumulata esplode. Al ripartire del ritornello, il brano ha come una metamorfosi, una specie di salto qualitativo, e la dolcezza e la malinconia della ballata si rivelano come euforica danza techno. Non è propriamente un cambio, ma una crescita: è l’amore più intenso che si scatena sul dancefloor. Da qui in avanti il techno beatsi arricchisce progressivamente di altri contrappunti ritmici, per poi prosciugarsi pian piano; e il brano sfuma in un quieto tappeto di archi.
Ma a questa perfezione formale corrispondono contenuti altrettanto importanti. Com’è noto, anche solo dallo splendido videoclip realizzato da Michel Gondry, si intuisce che la canzone racconta, in soggettiva, di una persona che vive “su una montagna, proprio in cima”, e ogni mattina di buon’ora si reca al ciglio dello strapiombo e lascia precipitare “piccole cose, come pezzi di auto, bottiglie, posate”. Se ne sta lì a osservarle annientarsi, ascolta il suono dei loro tonfi; persino immagina di stare al posto di quelle cose che si sfracellano, fino a chiedersi se, quando il suo corpo sarà finalmente atterrato e fermo, i suoi occhi saranno chiusi o aperti. Così, dopo questa immersione immaginifica nella distruzione, può tornare a casa, tra le braccia della persona amata e sentirsi, adesso sì, davvero al sicuro.
Warning: questa cosa non si fa, non si butta spazzatura dalle montagne.
E però c’è qualcosa che ci interessa molto in questa composizione. Bjork ci offriva, già anni fa, qualcosa che nella musica come nella vita quotidiana è pressoché scomparso: l’esperienza dell’iperbolico. L’unico iper- che si manifesta nelle culture pop degli ultimi decenni è quello dell’iperrealismo. Al di là di tutte le distorsioni e di tutti i fake possibili, infatti, la musica e l’esperienza quotidiana non sono, oggi, altro da quello che sono: tutto è presente, la presenza è tutto, e manca ogni layer ulteriore. Da una musica sempre più perfezionista, al voyeurismo dell’infotainment, la nostra esperienza oggi pattina sulla superficie dell’ovvio, dell’ostentato, un piano in cui l’emozione, l’estasi, la fuoriuscita da sé non trova spazio.
Forma e contenuto di “Hyperballad”, invece, provano a rompere questa superficie, questo continuo “flusso”, come sarebbe stato chiamato più di vent’anni dopo. Quella del flusso, infatti, è l’estetica che sperimentiamo quando scorriamo gli schermi dei nostri device, una dinamica che virtualmente può continuare all’infinito, nessun punto d’arrivo, nessun finale, iterazione cieca. Bjork, che intuiva questa tendenza, recupera il valore della catarsi, dell’annientamento immaginifico di sé e del mondo, per poter far ritorno, a sé e al mondo, più forti e consapevoli. Finalmente al sicuro, come ripete la canzone. La catarsi qui fa tutt’uno con la danza, è il contatto, almeno cercato, con un punto di immediatezza: il corpo che precipita e si ferma, opposto dello scroll senza fine.
La grandezza di quest’artista, e in particolare la bellezza di questa canzone, sta nel fatto che il salto verso l’ebbrezza catartica non ha nulla di arcaico. Anche in tutte le sue successive sperimentazioni dionisiache, quando scaverà la terra alla ricerca di un battito più profondo, non lo farà mai per tornare a un universo primitivo, ma per cercare un varco verso un’esperienza altra, non umana.
Allora capiamo il titolo del brano nella curva ascensiva e poi catartica prima descritta. Quell’accelerazione techno e il quieto sfumare successivo sono l’iperbole sulla quale viaggiamo per 5 minuti e 21 secondi, prima di tornare a casa, adesso sì, davvero al sicuro.
We live on a mountain, right at the top
This beautiful view from the top of the mountain
Every morning, I walk towards the edge
And throw little things off
Like car parts, bottles, and cutlery
Or whatever I find lying aroundIt's become a habit, a way to start the day
I go through all this
Before you wake up
So I can feel happier
To be safe up here with youI go through all this
Before you wake up
So I can feel happier
To be safe up here with youIt's early morning, no one is awake
I'm back at my cliff, still throwing things off
I listen to the sounds they make on their way down
I follow with my eyes 'til they crash
I Imagine what my body would sound like slamming against those rocksAnd when it lands
Will my eyes be closed or open?I go through all this
Before you wake up
So I can feel happier
To be safe up here with youI go through all this
Before you wake up
So I can feel happier
To be safe up here with youI go through all this
Before you wake up
So I can feel happier
To be safe up here with youSafe up here with you
Safe up here with you
Safe up here with you
Safe up here with you
Safe up here with you
Safe up here with you
Safe up here with you
Safe up here with you