Sun Kil Moon - I Watched The Film The Song Remains The Same (2014 - Incusa in "Benji", Caldo Verde)
"Il punto, professore, è che se nella tua vita non ci fosse la sofferenza, come faresti a capire quando invece sei felice? Felice rispetto a cosa?" (Cormac McCarthy, Sunset Limited)
Quando arrivi alla soglia dei trent’anni senti il bisogno di fare una ricognizione di quello che sei, misurare l’ampiezza del gap tra quello che volevi e quello che hai per segnare lo scarto che manca per quello che vuoi. Ripensi - col peso sull’anima – a ciò che hai già smarrito lungo il percorso, al tempo sprecato, ai germogli di vita spesso lasciati come piantine sul davanzale ad aspettare il sole sbucare dietro le nuvole. Soppesi i dolori (non molti, fortunatamente) e i rimpianti (pochi anche quelli, ma alcuni grossi come pachidermi), gli obiettivi che già annusano l’odore del fallimento e le possibilità che ti mettono comunque sulla strada: vai e cammina. Mark Kozelek, lungo la sua strada, ci cammina da anni. Da quando coi suoi Red House Painters ha preso per mano la tristezza e non ce l’ha venduta come un puerile cliché cantautorale, ma ce l’ha presentata per quella che è: la consapevolezza che ci manca per fare pace con la nostra idea di felicità. Non si spiegherebbe altrimenti come riescano canzoni così tormentate a lenire quegli stessi tormenti di cui parlano; non si spiegherebbe perché ogni ascolto di “Grace Cathedral Park”, “New Jersey” o “Medicine Bottle” è come lanciarsi da soli una richiesta d’aiuto e al contempo trovare grazie a quelle note - sempre - anche l’uscita d’emergenza, l’ancora di salvataggio. Lo chiamarono sadcore, perché era ritmicamente lento come lo slowcorema ancor più mesto nelle atmosfere e dimesso nelle melodie. In realtà era musica che toglieva la malinconia dal cuore per lasciarla impressa comunque negli occhi.
La malinconia, eccola la compagna di viaggio di Mark Kozelek. E anche se lui si schermisce dicendo che a quarantasette anni non si può scrivere dalla prospettiva di un venticinquenne perché le circostanze della vita cambiano drasticamente, la verità è che Mark ha sempre cantato di lei. E noi che lo ascoltiamo, lo amiamo proprio per questo: per la malinconia sua che è la malinconia nostra. Indipendentemente dall’età. Avvicinandosi dunque a un nuovo giro di boa del proprio itinerario umano, anche Kozelek ha avvertito l’esigenza di fare il punto della sua esistenza e - non essendo un coglione qualunque ma uno dei massimi songwriter americani degli ultimi trent’anni - ha riversato in musica la propria resa dei conti col vissuto e con il vivere, col passato e col presente, con ciò che era e con ciò che è sempre stato. Uscito all’inizio di questo 2014, “Benji” è un disco confidenziale e commovente, quasi una summa dell’universo poetico di Kozelek, oltre che un affresco del suo cosmo privato, della sua essenza intima. È un’opera densa che richiede approfondimento ma anche semplice abbandono alla timida bellezza di undici canzoni scritte da un uomo che torna nei luoghi dov'è cresciuto – l’Ohio - per fare i conti con le memorie e gli affetti perduti. E rimettere ordine tra ciò che è rimasto.
L’Ohio di “Benji” è omologo al Nebraska di Springsteen, al fiume Mystic di Clint Eastwood nel quale annegare peccati e dolori, alle pompe di benzina dipinte da Hopper che non possono fare altro che starsene lì, lungo quelle autostrade desolate dove ogni tanto arriva qualcuno a incrociare due solitudini. È l’America più profonda, le cicatrici sulla sua facciata ipocrita, le stelle che cadono dalla bandiera una a una lasciando solo due strisce. Rosse come il sangue e nere come il lutto. L’Ohio ha preteso che gli fossero restituite le vite della cugina di Mark - Carissa, morta in un incendio a trentacinque anni – e dell’amico d’infanzia Brett, mentre ha risparmiato quella di John Wise (Jim nella canzone), un amico del padre che ha tentato vanamente il suicidio dopo aver ucciso sua moglie per la disperazione di vederla soffrire in un letto d’ospedale. Ma quello stesso Ohio ha anche saputo regalare le grandi amicizie, i primi amori e le prime scopate (“Dogs”). È l’Ohio delle fidanzate finché durano e dei genitori per sempre (“I Can’t Live Without My Mother’s Love”, “I Love My Dad”); l’Ohio di “Micheline”, la ragazzina affetta da un ritardo mentale che bussava sempre a casa Kozelek chiedendo innocentemente di fare il bagno con Mark e incassando il diniego del padrone di casa con lo stesso sorriso di chi “ha appena ricevuto un autografo da Paul McCartney”.
Soprattutto, però, è l’Ohio di Mark Kozelek: il microcosmo in cui mister Sun Kil Moon si è formato, ha capito chi era e cosa sarebbe diventato. In questo senso i dieci estatici minuti di “I Watched The Film The Song Remains The Same” suonano come un resoconto - per dirla con Proust – del tempo perduto e del tempo ritrovato, dipanato lungo sospesi arpeggi acustici memori del John Fahey più trascendente, virato in un bianco e nero nostalgico che sfoca le immagini impresse nella memoria come la pittura di Gerhard Richter fa con cose, persone e paesaggi fotografati, rendendone incerta la materialità e trasformandoli in ologrammi della coscienza. La vita, del resto, è giustappunto una raffica di immagini filmiche che ci passano fugacemente davanti agli occhi. Non possiamo fissarle oltre quell’effimero momento, perché non possiamo stopparne il flusso, e se proviamo ad afferrarle stringendole in un pugno, ci resta in mano soltanto una sensazione di evanescenza, come quando allunghiamo la mano dal finestrino dell’auto in corsa tentando ingenuamente di agguantare il vento. Ecco, “I Watched The Film The Song Remains The Same” è l’istante in cui ritiriamo il braccio dentro.
Il titolo della canzone cita "The Song Remains The Same", il celeberrimo film-concerto dei Led Zeppelin uscito nel 1976, che alternava spezzoni degli show tenuti della band inglese tre anni prima al Madison Square Garden di New York. Kozelek avvia il suo flusso di coscienza circostanziando il momento esatto in cui, da ragazzino, lo guardò per la prima volta in tv. Era la notte di un caldo weekend estivo a casa di amici nella cittadina di Canton, nord-est dell’Ohio. Le parole magmatiche, cantate con tono spiritato, descrivono l’incontro virtuale coi membri degli Zeppelin in un’estasi visionaria. Le sequenze oniriche di John Paul Jones in “No Quarter” e il primo piano con l’icona di Jimmy Page che brandisce la sua leggendaria Gibson doppio manico lo ipnotizzarono (“Everything mesmerized me”). È l’incanto eterno e incorruttibile della vocazione musicale. Tutti ci siamo passati: chi la crea, chi la ascolta e chi cerca di raccontarla. Nella fattispecie, a fare breccia nell’animo del giovane Mark non furono tanto le cannonate ritmiche di John Bonham e i ruggiti chitarristici di Page, quanto le flebili carezze folk di “Rain Song” e “Bron-Yr-Aur”. E questo la dice lunga sulla sua sensibilità.
Kozelek – come tutti i malinconici – si conosce perfettamente, sa benissimo che quello stato d’animo di edace inquietudine non andrà mai via e allora lo analizza, diventa lo psicologo di se stesso usando la sua meravigliosa musica come strumento diagnostico. Scava, Mark, scava con le dita che pizzicano le corde della sua chitarra laddove quelle vocali, di corde, raschiano la gola fino a sterrare i bulbi di quel sentire a volte così inconsolabile. Melodicamente la canzone rimane sempre uguale a se stessa. Dal punto di vista armonico, invece, i due minuti conclusivi si protraggono in intrecci trasognati. Ma non ci sono esondazioni, le note galleggiano restando entro gli argini. Il fiume narrativo invece straripa portando gli scheletri a galla. Il primo, quello di un suo amichetto che venne sbalzato dal motorino e investito da un autocarro; il secondo, quello di una sua compagna di classe che morì in un incidente stradale; il terzo, quello di sua nonna, la cui dipartita lo paralizzò dal dolore (“Then I went to my bedroom and I lay down/ And in my tears and in the heaviness of everything I drowned”). Ma c’è dell’altro; il senso di colpa che lo logorava per aver messo ko con un pugno un bambino incolpevole al parco giochi. Lo spettro dei suoi occhiali rotti e del suo volto arrossato lo tormenta ancora, tanto da indurlo a improbabili quanto sentite scuse postume ("I was never the young schoolyard bully/ And wherever you are, that poor kid, I'm so sorry").
La biografia esistenziale di Kozelek raggiunge l’epilogo nell’ultima parte del brano, che parla di un amico che vive nel New Mexico: “Sono passati quindici anni dall’ultima volta che l’ho visto”. Il riferimento è a Ivo Watts-Russell, il fondatore della 4AD che nel 1999 decise di abdicare all’industria musicale e ritirarsi nelle zone desertiche vicino Santa Fé. “È l’uomo che mi mise sotto contratto nel ’92/ Andrò laggiù a ringraziarlo viso a viso/ Per aver scoperto precocemente il mio talento/ Per avermi sostenuto a lungo in questo bellissimo mondo musicale a cui ero destinato”. Quel mondo musicale che agli occhi di Mark conserva ancora intatta tutta la magia, nonostante il suo sguardo non sia più quello di un bambino. La differenza, semmai, risiede nella lucida coscienza di una forza ineluttabile e insensata - detta sorte - a cui nessuno può sfuggire: “Quando lo riguardo adesso, The Song Remains The Same/ Mi comunica le stesse cose che mi comunicava allora/ A eccezione delle scene con Peter Grant e John Bonham/ Che ora mi sembrano diverse quando penso alla morte che incombe su di loro”.
Le morti di Peter Grant (il manager degli Zep stroncato da infarto, nel novembre del 1995, mentre era al volante della sua auto) e John Bonham (morto nel sonno a 32 anni, soffocato dal suo stesso vomito) sono qui l’allegoria di un demone impossibile da scacciare. Si può solo accettarne l'esistenza e cercare di esorcizzarlo. Kozelek è una vita che ci prova assumendo uno psicofarmaco universale chiamato musica, ma ha scoperto che la sua mestizia congenita lo attanaglierà per sempre: “Andrò nella tomba con la mia malinconia/ E il mio fantasma riecheggerà questi sentimenti per l’eternità”. Eppure continua a cantare, a scrivere musica incantevole ben sapendo che non gli servirà a un dannato cazzo. Lui ormai è spacciato. Non può più guarire. Ma forse noi sì. Se non ha ancora deposto la chitarra sparandosi un colpo alla testa, è perché evidentemente spera che la tristezza delle sue canzoni possa essere - per noi che le ascoltiamo - sempre e ancora la consapevolezza che ci manca per fare pace con la nostra idea di felicità. Ha rinunciato alla sua gioia per dare una possibilità alla nostra. E dire che alcuni lo considerano un sociopatico scontroso, un misantropo sarcastico. La verità è che forse, Mark Kozelek, non lo meritiamo.