La cosa che mi sorprende sempre, e che mi fa veramente amare la musica, è quanta ce n’è ancora da scoprire. E la gioia di trovare qualcosa di mai sentito, ma che è clamoroso. Nulla al mondo mi rende più felice.
Qualche giorno fa, mi capita di sentire una versione di “Voglio vederti danzare”, con la voce originale di MastroFranco, riarrangiata da un violinista, Ara Malikian. Incuriosito, è partito il solito sistema “YouTube-Amazon-delivery”, e mi son ritrovato a casa il suo ultimo cd, “Royal Garage”, e – per non farsi mancare nulla, non sia mai - il doppio Dvd-cd live “A Las Ventas”.
Due giorni dopo, scopro che sta arrivando a Roma. In realtà, c’era già stato, incredibile dictu, anche al 1° Maggio. È proprio vero che, come per la donna della tua vita, puoi anche sbatterci contro, ma se non è il momento giusto neanche te ne accorgi. Bene, ieri sera stavo con young Marco – che un paio d’anni di violino se li è fatti - in prima fila all’Auditorium. Sapevo che sarebbe stato fico, non immaginavo quanto.
Ara è un cinquantenne con una capigliatura da Jimi Hendrix con extension, una barba da pirata, uno sguardo così tenebroso e una faccia così iconica che le sue ascendenze armene sono stampate come un passaporto. Ha un volto burbero, mefistofelico, zingaresco, che mette quasi paura. Sembra una reincarnazione del diabolico Paganini (non a caso, ha vinto il Premio intitolato al capostipite).
Poi, te lo vedi arrivare davanti a centro palco, introdursi con umiltà e gentilezza, e scopri un sorriso aperto, un uomo dolcissimo e “muy amable”, humour da cabarettista, nel suo italiano spagnoleggiante: “Quando sono venuto qui l’ultima volta parlavo un po’ di italiano, ora… lo parlo peggio. In compenso credo di suonare il violino un po’ meglio…”. Con i tempi dilatati di un Jackson Browne dei primi tempi, quando più che suonare dal palco si raccontava, fra un brano e l’altro -contestualizzando il successivo - racconta la sua storia di migrante come scelta di vita. Nato in Libano, papà violinista, “io volevo andare a giocare con gli altri bambini e lui mi chiudeva in casa, a suonare e ripassare tutto il giorno, ora posso dire quanto gliene sono grato”. Racconta della guerra che sarebbe durata 20 anni, del rifugio dalle bombe nel garage, delle balle per convincerlo a scendere giù: “Mi diceva, ci sono i Beatles, andiamo a incontrarli! John era mia nonna con una tromba scalcagnata, Paul era lo zio che usava le cose di cucina come percussioni…”.
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Poi, a 15 anni la fuga in Germania, e la storia di come si era trovato a dialogare dopo un concerto senza capire nulla: “Questa signora mi parlava, io non sapevo una parola, facevo sì con la testa e lei era felice. Parlava ancora, io sempre ‘sì’, e lei, felicissima, chiamava anche tutte le amiche. Pensavo, che bel posto la Germania, basta dire ‘sì’ e tutti sono felici”. La
fraulein era felice perché gli aveva chiesto se era ebreo, sì, e se poteva suonare alla festa di matrimonio della figlia, sì, certo. Non so se queste storie e i quattro anni passati a suonare a feste di matrimonio ebree siano vere fino in fondo (nel frattempo faceva studi classici serissimi), ma il tono è irresistibile, sentir ridere la Sala Sinopoli sold out è qualcosa di inedito. La storia continua, perché dalla Germania si va a Londra, dove conosce una band di folk norvegese “il violinista era scappato con la fidanzata del pianista, e quindi c’erano due problemi: un violinista mancante, e un pianista depresso. Ho messo subito le mani avanti: ‘Ci sono due problemi: non so nulla di musica folk norvegese e soprattutto… non sembro un norvegese… Mi son dovuto travestire per quattro anni da castoro, era complicato suonare col peluche alle mani, alla fine uno psichiatra mi ha detto: devi uccidere il castoro che è in te”. Forse esagerata, forse inventata, ma con quell’incespicare in ita-spagnolo a Zelig avrebbe spaccato.
“In Memoriam Castorus”, “il mio canto d’addio al castoro”, come le altre tappe di questo girovagare per il mondo arriva subito dopo, e la tua bocca si spalanca. Di nuovo e di nuovo ancora. Davanti a te c’è un pazzo che si piega, si contorce, danza come una trottola impazzita, fa giravolte e si intreccia con l’altro violinista – perfetto
partner in crime - si inginocchia e salta, salta sempre più in alto, di lato, all’indietro, atterrando su cosce forti di un fisico da torello, i capelli che vanno ovunque, e la musica che li segue. Perché Ara viene sì dal classico, ma ha conosciuto il mondo, ha abbracciato le diversità e ne fa tesoro. Ha tanti format predefiniti, dal duo con un pianista a solista con le migliori Orchestre del pianeta, Maestro Concertatore con la Orchestra Sinfonica di Madrid, la sua città di residenza. Da Bach a Monteverdi, da Paganini ad Astor Piazzolla, da Vivaldi al flamenchista Josè Monton, dai
Led Zeppelin alle colonne sonore di Almodovar, Ara ha suonato (e composto) veramente di tutto.
Ma stasera è in una formazione rock (in senso lato) a tre violini + viola, piano e chitarra, basso e batteria, e viaggiano tutti come un treno, compatti e all’unisono, la precisione del
prog e la violenza del punk, momenti di pianissimo che se chiudi gli occhi ti sembra di sentire appena qualcosa in lontananza e poi esplosioni di potenza e di ritmo, girotondi e fuochi d’artificio. Difficile da definire, proprio perché c’è dentro di tutto, proprio come piace a me: una “Sweet Child O’Mine” dei
Guns and Roses sofisticata e trascinante, “Rough Dog” di Serj Tankian dei
System Of A Down, stessa origine armena, mondi musicalmente lontani che trovano magica sintesi, “Bachelorette” di
Bjork (“io la amo, anche lei mi ama. Anche se lei non lo sa…”) che è una rivisitazione preziosa. Ara trova il classico nel rock e mette il moderno nel classico, come un alchimista miscela e fa fumare pozioni magiche che sono tanto accessibili quanto intricate.
La violoncellista bionda scende dalla sua pedana e si butta dentro anche lei con la faccia cattiva di una che potrebbe aggredire qualcuno, il bassista se la ride, il batterista nella sua scatola di plexiglas swinga o tambureggia ritmi arabeggianti, la terza violinista col suo costume tigrato gli si appoggia come a succhiare per osmosi un po’ di questo incontenibile talento. Si aggira per il palco teatrale e posone come un
Ian Anderson che ha poggiato il flauto e imbracciato l’archetto, c’è una energia incontenibile in sala che scuote un pubblico
agée (l’ho detto, “noi giovani” dobbiamo ancora scoprirlo) e genera applausi infiniti. Non sono un tecnico di quello strumento così difficile da maneggiare (la chitarra ha un manico cinque volte più lungo del violino, oltre a una comoda tracolla), ma mi sembra che lo suoni da dio, con una potenza, fantasia e tecnica da vero virtuoso. Lui sa che il mondo classico glielo riconosce, ma è chiaro che l’emozione e il coinvolgimento in questa versione da superband multietnica sono altrettanto importanti. Il drago tatuato sul braccio sinistro e il pentagramma sul destro sono il messaggio. Ci sono pezzi struggenti che montano, montano e poi esplodono, il più emozionante dei quali sono i 13’ di “Alien’s Office” (“alien” è la denominazione degli stranieri), “l’ufficio degli extraterrestri, ma che posto è?”, dedicato ai sei milioni di profughi (non li menziona, ma si capisce che sono i siriani) ai quali deve sentirsi vicino, anche territorialmente: “Noi veniamo da tutto il mondo, ma siamo fortunati. Il nostro passaporto è la musica, e possiamo andare dovunque. Gli altri no”.
Cercate i live su YouTube. Quando tornerà, fatevi un favore: andate a vederlo, scoprirete una musica eccellente, la vera musica del nostro presente, contaminato e senza frontiere, né di genere né di nazionalità. Insieme ad essa, scoprirete un fratello che vi racconterà col sorriso di come le mille strade della vita, se affrontate nel modo giusto, da un garage vi porteranno là dove neanche l’immaginazione avrebbe potuto.