Un'attesa di molti, tanti, troppi anni ieri sera si è conclusa. Quando non ci speravo più, a Umbria Jazz, in una serata davvero sontuosa, aperta dalla voce soul-gospel-blues della grande Ruthie Foster, è arrivato Buddy Guy. L'ultimo Grande della sua generazione, quella che aveva risalito il Mississippi, e la Highway 61, fino a Chicago, elettrificando il country blues del Delta e creando - cerchiamo di essere chiari, una volta per tutte - buona parte della musica che abbiamo ascoltato negli anni 60, 70, forse poi sempre meno (da un punto di vista di mercato, da un punto di vista musicale, chi le conosce le cose buone sa dove trovarle).
Buddy compirà ottant'anni fra pochi giorni. Ma non pensate a lui come un vecchietto che spreme le ultime gocce di talento. Pur leggermente ricurvo, col passo felpato, Buddy è ancora un Gigante. Ha una voce potente, che non deve ricorrere al tipico grugnito per elevarsi sopra gli strumenti, ancora perfettamente intonata, un miracolo quasi inspiegabile di longevità.
E ieri notte ha messo in scena quello che gli americani chiamano "very trick in the book", ogni trucco del manuale, da showman consumato, a partire dal cappellino del Legend's, il suo leggendario blues club a Chicago. È arrivato ed è partito con una cascata di note di potenza devastante e di acidità hendrixiana, poi si è fermato, e per un minuto ha inscenato una chiamata-e-risposta con la band (eccellente, manco a dirsi) appena sfiorando le corde, chetando l'entusiasmo e facendo capire cosa si intende per dinamica, il fortissimo/pianissimo.
Poi, nell'ora seguente, in ordine sparso ha: suonato alla Hendrix - i due sono, per stile e sensibilità, due fratelli separati alla nascita - dietro la schiena, sopra la testa, coi denti, con arpeggi. Percuotendola con la bacchetta, schiaffeggiandola con l'asciugamano durante uno stop-and-go su "Sunshine Of Your Love". Sempre citando e ammiccando, of course. Per ribadire la parentela, in una versione da sogno di "I Just Wanna Make Love To You" ha infilato "Purple Haze" e un altro campionario del fratellino perduto.
Con la "Hootchie Cootchie Man" del suo mentore Muddy Waters, è sembrato improvvisamente di essere finiti in un juke joint del profondo sud, il mojo nella mano, gli spiriti tutt'intorno. Ha detto "io sono cresciuto con queste cose qui", con annessa versione roboante di "Boom Boom" di John Lee Hooker (e Yardbirds, Animals, aggiungete voi). Con la chitarra appoggiata al petto, con un leggero movimento di scratch su e giù, ha puntualizzato l'atto sessuale, poi si è appoggiato agli amplificatori e ha suonato - con ironica espressione sorpresa - con una mano sola.
È uscito nella vasta platea dell'Arena Santa Giuliana, suonando e cantando in mezzo prima a dieci, poi a duecento persone impazzite, in una sorta di pigia pigia al limite del pericoloso (quantomeno per la Canon, che infatti per un attimo, prima di essere cazziata, si è rifiutata di continuare).
Poi tutti sotto il palco, dove ha fatto prima un'imitazione in falsetto di "Ain't That Peculiar" del soul brother Marvin Gaye, e poi - sensuale come un'emozione che ti sale irresistibilmente dentro - la "Fever di Little Willie John" e "Peggy Lee". Ha raccontato, con voce sussurrata, delle tentazioni e degli incantesimi dei misteri ancestrali, e di come l'Hoodoo Man è stato hooddato dalla ragazzetta di football odds diciannove anni che voleva stregare. Ha cantato la sua "Skin Deep", ricordando come la mamma quand'era piccolo gli dicesse che la bellezza, ma anche il colore, era profondo solo quanto la pelle, e di come dovesse amare tutti: "Quello che sta succedendo in America è terribile, ma se venissero da me io gli offrirei solo amore, non so come altro fare, nella vita".
Poi ha invitato sul palco Quinn Sullivan, un ragazzino-prodigio bianco, diciassette anni, maglietta Sex Pistols e brufoli a go-go, con cui ha condiviso la mezz'ora finale: magari su questo si può discutere, è sembrato un gesto di generosità sincero (fors'anche di defatigamento...), questo cambio di scenario ha dato al tutto il tono di una blues-revue, ma allo stesso tempo ha (forse involontariamente) sottolineato in matita blu la differenza fra suonare in modo tecnicamente pregevole circa 125 note al secondo, rifare Hendrix e Clapton al centesimo, o suonare una sola nota - magari sospesa nell'aria per dieci secondi - e far sembrare tutto perfetto, senza tempo.
Perché Buddy Guy, colui che è cresciuto come il ragazzo-prodigio al fianco di Muddy Waters per tanti dischi, tutti veri absolute beginners, colui che ha creato un duo indimenticabile con l'armonica di Junior Wells, il bluesman che ha pubblicato come solista un venticinquina di dischi (ma ha collaborato in almeno il doppio) ha quel dono lì: la nota perfetta, pulita, infinita, potente, quella che ti ricorda ancora una volta cos'è quella chimerica blue note che tutti rincorrono, ma che pochi - i più fortunati, i più talentuosi - sanno comandare e offrire agli altri.
Ce n'erano tanti, di "altri", ieri sera: incluso il primogenito con anima gemella, venuti da lontano come mamma e papà a vedere qualcosa che forse non vedremo più, qualcosa che almeno una volta nella vita DEVI vedere, per capire perché il blues, questa musica meravigliosa nata nel fango del grande fiume, e cresciuta come la più robusta delle piante selvatiche in mezzo alle piantagioni, non morirà mai. MAI.