Al centro del palco un signore inglese di 76 anni, color argento lucente i capelli, sbarbato il volto scalzi i piedi, come un vecchio
hippy (o forse solo come uno che a Roma ha caldo). Sì, fa caldo, in questa notte romana come si deve, negli ampli giardini della Casa del Jazz, e ci sei arrivato quasi sottogamba, senza aspettarti granché. Errore. Sorpresa.
Mai sottovalutare (un
Crosby, uno
Stills, o) un
Nash. Perché questo anziano signore inglese, cortese ma ancora estremamente battagliero sulle cose che per lui contano, ha una voce ancora purissima, un canzoniere stra-conosciuto, vero, ma anche pieno di chicche e di inni generazionali, e ha con sé due musicisti straordinari. Soprattutto Shane Fontayne, in passato chitarrista con i
Lone Justice e due anni con il
Bruce-senza-E-Street-Band, ha un timbro magnifico, sia quando distorce e punge, sia quando sottolinea garbatamente ma in modo estremamente creativo (un grandissimo, credetemi) le parole di Graham. Che ha visto mille palchi e mille pubblici, per non contare i litigi e le rotture, gli amori, i cavalier e le armi. Che ha stampata in faccia, quella faccia tranquilla che ha sempre fatto da paciere in qualsiasi situazione si sia mai trovato, la consapevolezza della fortuna di aver avuto una vita, e di fare un mestiere, straordinari. “Questa è una vecchia canzone, ma è rilevante oggi come allora…” e parte "Immigration Man", loro hanno il muro in costruzione, ma noi abbiamo un cimitero intorno alle nostre coste, ed è decisamente peggio.
E’ il segreto delle canzoni che hanno un significato profondo, che va al di là del tempo. Molte delle canzoni che Nash introduce, stanotte, sono così: canzoni semplici, lo sa e ci ha addirittura scritto una canzone, ma mica è sempre vero. Una cover di "
A Day In The Life" non lo è, ovviamente: e lui la canta benissimo, alla Nash-e-basta, e Fontayne sotto fa quello che
George Martin chiamò un’Orchestra a fare. Non è semplice "Winchester Cathedral", il suo
trip/sogno sulla reincarnazione all’interno della grande cattedrale, preceduta da una "Orleans" a tre voci che se chiudevi gli occhi… beh, erano come "quelli". E anche quelle semplici di accordi, hanno tutte una tessitura artigianale che non esiste più, purtroppo.
Forse anche le circostanze non esistono più: la "Our House" con
Joni è un ricordo lontano, e lui gliela dedica, affettuosamente, confermando che sta ricuperando dal suo incidente: “Si alza, cammina, ed è
funny, spiritosa come sempre”. C’è "Wind On The Water", quel canto d’amore verso le balene a cui poi Crosby aggiunse una parte sinfonica che rimane una delle cose più affascinanti della
West Coast. C’è uno dei primi singoli, "Bus Stop" degli Hollies, e un'altra canzoni anti-militarista, "Military Madness". C’è quella fatta per scommessa, partendo dalla casa del suo amico verso l’aeroporto alle Hawaii, sfidato a scrivere una canzone all’istante ("Just a Song Before I Go" - 500 dollari vinti), e infine "Chicago", il suo inno più deciso, più forte, di quelli senza paura, paura di cantare bello forte, in coro, in direzione ostinata e contraria “we can change the world”. Possiamo cambiare il mondo. Possiamo? Quante volte ce lo siamo chiesto? Quanto è stato difficile dare una risposta?
C’è poco vento per farla soffiare, stanotte, la risposta. E poi, immagino che ognuno sappia dentro di sé cosa può fare, per cambiare se stesso e una molecola di mondo. Nash arriva, a sorpresa per quanto è bravo e il suono sia perfetto, a ricordartelo. E, se posso dire, meglio sentire tre super-musicisti a
free betting tips pochi metri, rilassato che ogni tanto chiudi gli occhi e hai uno stereo HQ di 30 metri davanti, o stare a 150 metri in un prato o uno stadio e non riuscire neanche a distinguere gli strumenti? Questa non ho bisogno che si alzi il vento, per conoscerla, tanto più quando chiudono a cappella, in tre intorno a un microfono, con una deliziosa "Everyday" di Buddy Holly.
Magic moments...