Massimiliano Raffa

Poptimism - Media algoritmici e crisi della popular music

coverlineeraffapoptimism_2Autore: Massimiliano Raffa
Titolo: Poptimism - Media algoritmici e crisi della popular music
Editore: Meltemi
Pagine: 351
Prezzo: 24,00 euro

Qualcuno lo avrà incontrato sul palco, in una delle esibizioni del suo camaleontico progetto Johann Sebastian Punk; qualcun altro lo avrà conosciuto discutendoci in rete, magari sulle pagine del forum di OndaRock dove scriveva abitualmente ormai più di un decennio fa. Molti altri ancora, però, avranno avuto occasione di ascoltarlo nelle aule universitarie, in occasione di uno dei suoi corsi dedicati alla popular music presso lo IULM, il Conservatorio di Lecce, il SAE Institute di Milano, l'Università del Salento. Massimiliano Raffa è un personaggio poliedrico come poliedrico è il suo percorso: da Messina a Milano passando per Bergen e Bologna, dalle scienze internazionali alla musicologia potendo anche vantare una nomination per le Targhe Tenco nel 2014.
Il suo saggio "Poptimism - Media algoritmici e crisi della popular music" è uscito da poco per Meltemi e rappresenta una delle letture a tema musicale più illuminanti in cui è possibile imbattersi di questi tempi. Ostica - conviene avvisare - ma illuminante. Attento lettore dei processi che, soprattutto in relazione al consolidarsi delle piattaforme di streaming, stanno mutando la fruizione, l'industria e la creatività musicale, Raffa non si accontenta (come, nostro malgrado, noialtri ascoltatori e scribacchini siamo usi fare) di formulare domande e ragionevoli ipotesi sulle trasformazioni in atto: tessendo le fila di un articolato impianto teorico, e soprattutto interrogando in maniera rigorosa attori direttamente coinvolti nei meccanismi indagati, allestisce un'analisi meticolosa e sfaccettata della situazione attuale nonché delle sue principali direzioni di mutamento. Il quadro che ne emerge - fatto di strapotere delle playlist e dinamiche creative che somigliano più alla produzione in serie che all'artigianato culturale - è impietoso ma anche disvelante.

Poter leggere dalle parole dei produttori, discografici, songrwiter, agenti interpellati (sotto garanzia di anonimato) che "Ieri avevo un artista in studio, [...] eravamo indecisi tra due beat di batteria. [...] poi mi ha fatto una domanda spiazzante: 'quale ci vedi meglio nel post di TikTok medio?'" o che "Artisti e manager ti chiamano e ti dicono che devo suonare come suona la roba in determinate playlist" è per chi è curioso verso i "dietro le quinte" dei fenomeni musicali come poter accedere a un WikiLeaks tutto dedicato alla popular music. Può sembrare la rivelazione del segreto di Pulcinella, ma il livello di dettaglio offerto da Raffa e dai suoi interlocutori va molto oltre le approssimative capacità di immaginazione di cui un ordinario appassionato musicale può disporre.
Il saggio nasce come adattamento di una tesi di dottorato in ambito sociologico, e riflette il suo ascendente accademico tanto nella scrupolosità dei metodi di indagine (tratto estremamente positivo) quanto nella struttura e nel taglio argomentativo. La prima parte del testo, in particolare, con la sua rete di riferimenti eruditi, può risultare decisamente faticosa per chi non avesse dimestichezza con scritti di questa categoria; superato il primo terzo di trattazione, tuttavia, le coltri teoriche si diradano notevolmente e la lettura diventa agile per qualsiasi interessato.
La ricerca ha, ovviamente, alcuni limiti: gli intervistati sono tutti italiani, e dunque l'esportabilità ad altri panorami - nazionali e internazionali - è solo supponibile; in secondo luogo, l'oggetto dell'analisi è essenzialmente costituito dal mainstream e da quella parte dell'ambito indipendente che in maniera più anelante guarda a quest'ultimo. È realistico aspettarsi che altri paesi che presentano un mercato musicale similmente appiattito abbiano dinamiche simili, ma dove - per dimensioni del potenziale pubblico e struttura dei circuiti musicali - le scene sono più stratificate, può essere che il quadro sia differente e consenta maggiori spazi a forme di creatività meno standardizzate (o anche solo orientate a una maggiore varietà di standard possibili), che lo studio di Raffa non descrive.

Anche l'espressione scelta per il titolo, poptimism, richiede qualche precisazione. Il termine è stato coniato all'inizio degli anni Ottanta nel contesto della critica musicale, per indicare - in contrasto ad esempio con rockism - un atteggiamento possibilista, quando non positivo, verso le logiche artistiche dei mercati mainstream. Da qualche anno, è tornato in auge per riferirsi all'approccio critico di testate come Pitchfork (post-acquisizione da parte dell'impero editoriale Condé Nast), che avrebbero spostato la propria attenzione dalle nicchie ai fenomeni musicali commercialmente più in vista, affiancando a questo cambio di prospettiva una sempre maggior enfasi sui temi della diversity & inclusion. L'uso che Raffa ne fa sottointende tuttavia un'estensione e in qualche modo una radicalizzazione del termine: dal suo punto di vista, la chiave di lettura del poptimism è applicabile anche agli aspetti sociali, economici, ideologici, tecnologici della fase corrente del percorso della popular music. Il concetto di poptimism tradurebbe infatti la sostanziale rinuncia alla formulazione di alternative al capitalismo delle piattaforme, che è l'attuale orizzonte primario dell'industria musicale a ogni suo livello, e il completo abbandono delle istanze controculturali che, almeno dagli anni Sessanta, avevano innervato con alterni sviluppi il tessuto della popular music. Più che una semplice etichetta legata alla critica musicale, insomma, una versione musicale del there is no alternative di fisheriana (e thatcheriana) memoria. Un tema che, d'altra parte, era uscito anche in una precedente intervista di questo sito relativa al progetto musicale dell'autore, Johann Sebastian Punk.

Un po' con l'ambizione di incuriosire qualche lettore e avvicinarlo al libro, e un po' con lo scopo di fornire a chiunque un agile "bigino" degli aspetti chiave di "Poptimism", Massimiliano Raffa si è reso disponibile per una nuovo e ricco scambio di domande e risposte, il cui sviluppo ha seguito di pochi giorni la presentazione del testo, tenutasi a fine giugno all'Enosteria Sociale con Terrazza, in Via Calvi a Milano.

Qual è il ruolo delle playlist di piattaforme come Spotify e in che modo condiziona le scelte di artisti, produttori, discografici?
Le playlist sono oggi degli intermediari essenziali. Sono utilizzate da tre quarti degli utenti e un terzo del traffico di Spotify pare sia generato proprio da esse. Il loro scopo apparente è filtrare l’offerta di musica, oggi ingovernabile, attenuando la complessità dell’esperienza di fruizione degli utenti; quello più latente è la necessità delle piattaforme di mediare tra le tensioni emergenti nei mercati nei quali operano, mantenendo un controllo logistico e alimentando algoritmicamente il traffico che fa tanto gola a inserzionisti e finanziatori. Quando parliamo di algoritmi, tuttavia, compiamo spesso l’errore di ritenere che il sistema sia del tutto automatizzato e che esseri umani portatori di specifici interessi non giochino alcun ruolo; non è, evidentemente, così. E questo vale sia per le playlist algoritmiche sia per quelle editoriali. Riguarda le prime perché gli algoritmi non sono entità neutrali, ma hanno inscritte nel loro codice delle volontà umane, delle visioni del mondo, delle ideologie; e il loro effetto principale è premiare quei contenuti che godono già di un potenziale di circolazione in base al principio di salienza dei dati, creando una sorta di “effetto San Matteo”. E riguarda sicuramente le playlist editoriali, che sono quelle che godono del maggior numero di ascoltatori e influiscono di conseguenza anche sulla composizione delle playlist algoritmiche e di quelle user-generated. Le playlist editoriali sono compilate dai dipartimenti curatoriali della piattaforma da esseri umani. Esseri umani che non possiamo escludere intrattengano relazioni dirette con altri addetti ai lavori, come i discografici. Queste dinamiche, ovviamente, retroagiscono anche su come la musica viene creata e prodotta, accompagnando un’ossessione nei confronti della playlist e una corsa alla produzione di brani percepiti come “playlistabili” e concepiti nel terrore di essere esclusi dalla realtà commerciale.

La semplificazione e la standardizzazione delle produzioni appare nelle testimonianze che hai raccolto come una scelta deliberata, un modo per restare a galla e reggere ritmi e condizioni sempre più vincolanti. Quali sono gli aspetti musicali maggiormente coinvolti?
Gli aspetti musicali coinvolti sono tra i più vari: dal ricorso sempre più esteso alle library alla diminuzione della durata delle introduzioni strumentali, dalla comprovata semplificazione armonica a quella strutturale, dai ritornelli che arrivano prima a quelli che devono durare quanto una storia di Instagram o funzionare in base a vari criteri su TikTok, dalla contrazione della varietà timbrica al restringimento dello gamma dinamica dei brani. E tutto questo è chiaro a chiunque abbia ascoltato musica nella propria vita, non solo a noi ricercatori che andiamo a farci del male mostrando che non sono solo chiacchiere da bar. Quello che io trovo sociologicamente più urgente da indagare, tuttavia, è il contesto sociale che a questa standardizzazione dà il suo significato. Proprio da questa urgenza nasce l’idea di questo libro. L’idea di rispondere in maniera teoricamente ed empiricamente informata a una serie di domande che tutti noi ci poniamo: qual è l’apparato ideologico che soggiace a queste dinamiche di standardizzazione? L’ottimizzazione culturale, ovvero il sistematico adattamento dei materiali culturali al sistema di aspettative generato dai media digitali in ossequio ai principi di efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo, ha portato a una crisi del “principio di invenzione”? Possiamo ancora sperare di vedere, nel mercato mainstream, produzioni musicali tese alla ricerca, alla creazione di nuovi spazi estetici, all’espansione di forme convenzionali, all’elaborazione di nuovi costrutti culturali?

Mi ha sorpreso, leggendo il tuo libro, scoprire che fra i molti software e plugin nati per semplificare il lavoro ai producer ci sono anche chord generator capaci di supportare nella costruzione dell'armonia di un brano anche chi non abbia nozione alcuna di settime maggiori e cadenze piccarde. Dopo decenni di semplificazioni, siamo alle soglie di una fase di rinnovata complessità armonica? O si avrà soprattutto un ulteriore declino?
Vedremo. La mia impressione è che questi plugin non solo non vengano poi usati così tanto, ma che quando vengono usati anziché espandere le possibilità di sviluppo armonico delle composizioni, servano essenzialmente a quei produttori privi di competenze musicali per ovviare ai propri limiti. Il loro impiego comune è prevalentemente limitato a brani rap ai quali si vuole conferire un vago sentore jazzistico, a scopo più coloristico che armonico. Per comprendere questi nuovi usi è necessario considerare che negli ultimi anni la funzione autoriale è passata quasi del tutto nelle mani dei produttori, o meglio, dei producer. La media degli autori dei brani mainstream è oggi di sette, dieci anni fa era della metà, fino agli anni Novanta è stata di due. Le opere musicali, nella loro caratterizzazione giuridica, assomigliano oggi a dei brevetti industriali, e i processi di produzione tendono sempre più a un tipo di ottimizzazione da catena di montaggio. Non credo affatto si sia alle soglie di una fase di rinnovata complessità armonica, cosa che peraltro non reputerei necessariamente indicativa di un salto di qualità; queste tecnologie mi paiono più mirate all’efficienza produttiva.

Un cardine della tua analisi è la novità rappresentata dallo "scouting a posteriori": i reparti A&R (Artists & Repertoire) delle etichette sono sempre più poveri, di budget e di personale, e anziché battere l'underground in cerca di talenti si chiede ai musicisti di avere già una propria fanbase. Quali sono le conseguenze?
Le conseguenze di questa dinamica, in relazione alla quale è complicato ipotizzare un’alternativa, date la sterminatezza dell’offerta musicale e le economie sofferenti del settore, sono sotto gli occhi di tutti. A mio modo di vedere, ingaggiare artisti debuttanti in base alla loro già acquisita visibilità sulle piattaforme o alla loro presenza televisiva o alla loro frequentazione di certi ambienti sociali è penalizzante per coloro che hanno competenze digitali, capacità comunicative e abilità di autopromozione più limitate. “Ognuno deve saper essere manager di sé stesso”, spesso si sente dire. Ed è qualcosa che trovo raccapricciante, perché se fai il musicista, il musicista devi fare. In tempi in cui finalmente quello dell’inclusività è diventato un tema ricorrente, viene da chiedersi se l’affermazione di questo nuovo archetipo di artista non configuri una condizione tale da danneggiare, se non proprio da escludere meccanicamente, coloro che anche solo per attitudine non sono in grado di conformarsi ai canoni comunicativi e artistici dominanti.

“Ognuno deve saper essere manager di sé stesso”, spesso si sente dire. Ed è qualcosa che trovo raccapricciante, perché se fai il musicista, il musicista devi fare. [...] viene da chiedersi se l’affermazione di questo nuovo archetipo di artista non escluda meccanicamente coloro che anche solo per attitudine non sono in grado di conformarsi ai canoni comunicativi e artistici dominanti

Nelle tue interviste, è emersa una simbiosi forse non banale fra chi lavora nel mondo mainstream e chi opera all'interno di etichette indipendenti. In qualche modo, è come se le seconde fossero "al servizio" del primo. È una semplificazione eccessiva?

È in parte così, molte indipendenti svolgono in outsourcing un lavoro di monitoraggio di specifiche scene o nicchie geografiche “per conto” delle major. Generalmente, con le major, queste indipendenti firmano contratti di licenza o di distribuzione sulle nuove acquisizioni in catalogo, mantenendo la proprietà del master delle registrazioni o i diritti di management dell’artista e spesso ricevendo un budget annuale. Ma la questione varia da caso a caso, in base al quadro negoziale. Quello che più mi sorprende, relativamente ai cambiamenti in atto, è piuttosto il mutato ruolo culturale delle etichette indipendenti. Come mi riferiva uno dei manager intervistati, un tempo lo scollamento tra il mondo indipendente e quello major era quasi ideologico, mentre oggi il mondo indipendente appare sostanzialmente disinteressato a interpretare una posizione di resistenza critica e “contronarrativa”. Questo punto ben identifica l’essenza del poptimism per come lo intendo io, perché lo sdoganamento della “cultura del selling-out”, dello svendersi e dell’arrendersi a una condotta funzionale all’establishment culturale, senza più timori di ambire a sincronizzazioni pubblicitarie o di andare al festival di Sanremo, non ha di fatto condotto a una liberazione da vecchi fanatismi conservatori, come in molti sostengono. Al contrario, ha affossato quei circuiti all’interno dei quali si dispiegano quelle pratiche di creatività sociale e di negoziazione culturale necessarie all’innovazione dei linguaggi musicali.

Di "artista come brand" si sente parlare da decenni, praticamente mezzo secolo. Eppure, negli anni recenti, questa connotazione ha preso una dimensione nuova: confinata in passato soprattutto al panorama delle boy band, ora è un paradigma con cui nessun progetto di primo piano può evitare di confrontarsi per essere sostenibile. Come funziona il meccanismo?
Se tu togli la musica da un artista musicale, non hai più l’artista musicale. Tuttavia, la musica non è più la merce primariamente offerta dall’industria musicale. È solo uno dei prodotti associabili al marchio-artista, e neppure quello più redditizio. E questo non solo perché i dischi fisici sono diventati fondamentalmente dei gadget. Le piattaforme permettono di avere un’idea sommaria immediata del potenziale economico degli artisti, che si esprime in numeri di stream, oltre a fornire informazioni sui profili socio-demografici degli ascoltatori mai state in possesso di nessuna industria culturale classica. Questo valore viene poi fatto fruttare sul versante business-to-business da chi amministra gli artisti attraverso licenze, sincronizzazioni, iniziative di branding, esclusive sui live e via discorrendo. Si tratta, insieme a vari tentativi familistici di rafforzamento del proprio ruolo messi in atto secondo pratiche informali, del modo in cui l’industria discografica prova a riaffermare la propria centralità in questo mercato. Però, di fatto, il sistema della musica non è più controllato da delle industrie culturali quali erano un tempo le case discografiche, ma da dei giganti del settore IT che operano simultaneamente in più mercati, incluso quello inserzionistico e quello finanziario. Le case discografiche, che ancora amministrano i repertori degli artisti e che attraverso i cosiddetti 360 deals possono accrescere la propria redditività aggregando diversi flussi di entrate un tempo fuori dal loro controllo, potremmo affermare che si sono trasformate in dei content provider. Questo perché la musica si è essenzialmente ridotta a essere un content, non qualcosa di dotato di un significativo valore sociale come è stato in gran parte delle società che hanno abitato questo pianeta. Questo content – scusate, ma mi rifiuto di chiamarlo “contenuto” poiché spesso, per dirla con Agamben, è “senza contenuto” – viene distribuito su delle piattaforme che non vendono musica, ma abbonamenti a servizi che fungono da spazi promozionali e che fanno del proprio asset principale la mole di dati forniti dagli utenti poi algoritmicamente elaborati. Questa svalutazione dell’elemento artistico ha rafforzato sia la dipendenza dai mercati inserzionistici, sia il consolidamento dei paradigmi della cultura commerciale tipici del capitalismo neoliberista post-fordista. Se quindi è vero che di artista-brand si parla da decenni, anzi, io direi anche da quando i concetti di “artista” e di “marchio” hanno iniziato a coesistere nel linguaggio comune, è anche vero che questa preminenza della cultura promozionale sui contenuti artistici incoraggiata da piattaforme e social media non trova precedenti storici paragonabili.

Proviamo a uscire dall'asfittico panorama nazionale - e, di conseguenza, anche un po' dal perimetro della tua ricerca: secondo te, questi processi riguardano il panorama mainstream e le sue propaggini o si manifestano anche nel campo alternativo, impattando pure filoni "da appassionati" come il post-post-punk, lo djent, l'hyperpop?
Ad oggi, qualsiasi attività creativa, produttiva o promozionale, per quanto affrancata da alcuni vincoli tradizionali di tipo economico-logistico, istituzionale o normativo, non sembra poter prescindere dalla necessità di dipanarsi entro l’ecosistema dei media algoritmici. Non sottovaluto il fatto che esistano movimenti di resistenza alle regole del gioco negoziate dai media mainstream e che ci siano artisti ed etichette discografiche che rifiutano di distribuire le proprie produzioni sulle piattaforme o di utilizzare i social media, ma si tratta di casi isolati, marginali, di limitata influenza. Quanto djent, post-post-punk e hyperpop riflettono lo Zeitgeist? Parliamo peraltro di generi che suonano alle mie orecchie un po’ consumate tutti tremendamente vecchi, pur nella loro pretesa di novità. Quello che più sembrano dirci sulla cultura occidentale contemporanea è che il futuro è una categoria estranea al nostro tempo. E l’ascesa dell’impiego di sistemi di intelligenza artificiale a fini creativi, che si basano sul rimescolamento di dati già esistenti, potrà ulteriormente normalizzare l’idea che l’inventiva sia qualcosa di combinatorio anziché di trasformativo. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che la storia delle arti è una storia fatta di lunghe ere glaciali intervallate da brevi momenti di esuberanza creativa diffusa. La popular music – intesa come galassia di musiche ibride tecnologicamente mediate emerse globalmente all’indomani della seconda rivoluzione industriale e tendenzialmente distinte da quelle a trasmissione orale o di matrice cólta – ha vissuto un secolo abbondante di splendore. Ci sarà sempre qualcosa in qualche modo nuova e alle nostre orecchie esaltante, specialmente al riparo dalle luci della ribalta, ma i processi macro-storici, politici ed economici possono accompagnare cambiamenti epocali degli scenari culturali. E questo dobbiamo provare ad accettarlo, liberandoci da una mentalità meta-storica che induce prevalentemente a fallacie interpretative.

La storia delle arti è fatta di lunghe ere glaciali intervallate da brevi momenti di esuberanza creativa diffusa

I processi che descrivi contrastano con, o forse proseguono, le dinamiche che si erano instaurate nell'era precedente - quella del peer-to-peer. Che cos'è rimasto di quell'epoca, in positivo e in negativo?
Di positivo è rimasto solo il fatto che oggi soggetti in condizioni di svantaggio economico, sociale o geografico possano fruire di materiali culturali altrimenti inaccessibili. Per il resto, i peer-to-peer hanno dato l’abbrivio a molti dei processi degeneri di cui abbiamo parlato. Quei servizi nascevano però in un’ottica anti-commerciale. Non utilizzavano algoritmi, non colonizzavano la vita privata degli utenti estraendo dati relativi alla loro attività, erano principalmente mossi da un sentimento tecno-utopistico volto a sfidare l’egemonia dei giganti dell’industria dell’intrattenimento che poi, come solo il capitalismo sa fare, li ha assorbiti e istituzionalizzati. Quei servizi assomigliavano, per certi versi, più a Sci-Hub, risorsa sì illegale ma imprescindibile per molti ricercatori scientifici, che ai servizi di streaming. Con la differenza che lì a pagare, chi nel breve e chi nel lungo termine, sono stati gli anelli deboli della catena: i negozi di dischi, i piccoli produttori, gli artisti dal seguito più limitato. Per cui faccio fatica a ricordare i peer-to-peer con particolare nostalgia.

Un tema che non mi pare tratti nel libro, e che però hai toccato nella tua presentazione milanese, è quello della ridefinizione dei circuiti live. Gli ultimi anni ci hanno abituati a onnipresenti sold-out, anche per nomi non popolarissimi. Eppure - come osservavi - parallelamente si assiste a una contrazione dei locali "intermedi" e dei loro calendari. Molti artisti che passano dall'Europa non hanno date italiane e anche chi le ha spesso non va sotto Milano. Ti sei fatto qualche idea sulle trasformazioni in atto?
Non è un tema del quale mi sono occupato, ma mi sono comunque fatto una mia idea da persona che frequenta i luoghi della musica. Credo che gli onnipresenti sold-out cui fai riferimento tu non costituiscano solo una risposta al bisogno di disintermediazione da parte dei fruitori della musica come spesso si dice, ma che vadano compresi entro una dinamica propria della cultura digitale, una dinamica che vuole che la presenza fisica a un dato evento transiti necessariamente da una narcisistica dimostrazione che a quell’evento ci sia stati per davvero. Se a questi spettacoli venisse negata al pubblico la possibilità di documentare la propria esperienza sui social media, tante persone, forse, rimarrebbero a casa. La condivisione dell’esperienza del concerto non è più confinata allo spazio-tempo del concerto in sé, dimensione in cui i corpi si uniscono in un rituale collettivo, ma deve disciogliersi negli ambienti digitali all’interno dei quali costruiamo le nostre identità individuali simulate. E una parziale conferma di ciò me la dà lo stato di salute dei piccoli locali e dei circuiti underground. Nella città in cui vivo, Milano, che si autodefinisce “metropoli culturale internazionale”, non esistono praticamente più locali da centocinquanta o duecento persone frequentati da persone che vanno lì a prescindere da chi suona. Ce ne saranno forse due o tre, e senza artisti con un minimo di richiamo si fa pure fatica a staccare qualche biglietto. Esiste una tirannia del numero alimentata dai media digitali che condiziona non solo economie grandi e piccole, ma anche la vivacità culturale dei contesti. Questa vivacità la definiscono i corpi in carne e ossa, non quelli che vediamo sullo schermo dello smartphone.

In tutto questo, vedi qualche possibile spazio di riscossa? Ci sono elementi di speranza fra le novità sorte in questi anni?
Nel libro ho provato con tutte le mie forze a evitare due cose: a lanciarmi in predizioni avventate e a tradire delle mie personali sensazioni non giustificate dai dati ottenuti o dall’impianto teorico del lavoro. Chiaramente la soggettività del ricercatore è sempre almeno in parte ineliminabile, ma questa intervista mi permette di dire più apertamente alcune cose. Innanzitutto è per me necessario chiarire che non ritengo affatto che un ambiente tecnologico sia deterministicamente in grado di sagomare un ambiente culturale; tutt'al più certe trasformazioni degli ecosistemi mediatici possono accompagnare o accelerare processi politici, culturali, sociali ed economici più ampi. Al tempo stesso, sono convinto che l’innovazione culturale debba necessariamente transitare dalla capacità dei soggetti di violare le strutture di questi ambienti comunicativi, di agire al di fuori da quel loro perimetro. Provo a essere più chiaro riportandoti un esempio che faccio anche nel libro e che sarà certamente familiare ai lettori di questo sito. Intorno alla metà degli anni Sessanta, il numero di canali comunicativi istituzionali era limitatissimo. Poche emittenti radiofoniche, ancor meno televisive, processi di filtraggio culturale che oggi riterremmo ai limiti del censorio. Eppure una rete di giovanissimi di diversa estrazione sociale, spesso figli della classe lavoratrice delle più disparate aree metropolitane del mondo occidentale, riuscì a rendersi protagonista di una stagione di innovazioni in numerosissimi campi che vanno dalle arti performative alla letteratura, dalla moda al pensiero politico. Come lo facevano, in tempi in cui una comunicazione tra Londra e San Francisco non era proprio agevolissima? Attraverso canali alternativi: radio pirata, riviste controculturali, reti informali, centri aggregativi. Violando gli steccati delle strutture ufficiali. Guarda alla musica prodotta in quegli anni, guarda le classifiche di vendita degli album britanniche: lo stato dell’arte si aggiornava di settimana in settimana con nuove musiche fino a pochi giorni prima inimmaginabili. Oggi esistono ancora le possibilità di profanare le architetture degli ecosistemi comunicativi, in una rete iper-intermediata che si presenta come un sistema di nodi centrali chiamati a filtrare quantità mostruose di contenuti, il cui controllo è concentrato nelle mani di pochi soggetti economici del tutto disinteressati al profilo culturale dell’offerta? Io non ne sono affatto certo, e per questo non riesco a salutarti con un messaggio di speranza. Il mio mestiere, dopotutto, riguarda l’osservazione dell’esistente e non le visioni profetiche. Quello che posso dire è che non mi sorprenderebbe se le cose si evolvessero, coerentemente a quanto successo fino a oggi, in maniera tale da estendere ulteriormente l’illusione di controllo e personalizzazione dell’utente, riducendo sempre di più le competenze e il tempo da investire a esso richiesti. E sulle conseguenze di tutto ciò sulla musica che ascolteremo, Mr. Tamburino, non credo si possa aver voglia di scherzare.