Autore: Massimo Salari
Titolo: Post prog moderno: l'alba di una nuova era
Editore: Arcana
Pagine: 272
Prezzo: 22,00 Euro
L’Italia è la seconda patria del progressive rock. Se quest’affermazione è stata negli anni largamente esagerata, mettendo in secondo piano la ricchezza delle altre scene nazionali non anglosassoni, difficilmente è però possibile contestarla in ambito editoriale. La produzione italiana di libri e manuali sul progressive rock non ha eguali, con svariati titoli in uscita ogni anno e un pubblico sempre curioso verso le nuove trattazioni.
Gran parte delle pubblicazioni si concentra sul periodo classico del filone, a cavallo fra anni Sessanta e Settanta; “Post prog moderno” di Massimo Salari rappresenta tuttavia un’apprezzabile eccezione. Approdato sul mercato nel novembre 2022 tramite Arcana, il manuale prosegue il percorso di riscoperta della “coda lunga” del genere avviato dall’autore negli anni passati con “Neo prog”, “Metal progressive italiano” e “Rock progressivo italiano: 1980-2013” (disponibili attraverso lo stesso editore).
Il territorio esplorato dal volume è in effetti particolarmente bisognoso di mappatura: il post-progressive di artisti come Anathema, Airbag, No-Man, Nosound, Lunatic Soul, Gazpacho - nomi che, spesso partendo da radici assai lontane dal prog-rock settantiano, sono approdati a partire dalla seconda metà degli anni Novanta a stili fortemente ibridati e atmosferici, capaci di accostare in modo evocativo elettronica e Pink Floyd, Radiohead ed echi metal, alternative rock. Band eclettiche e difficilmente classificabili, ma capaci di conquistare una parte degli appassionati storici del progressive rock e, al tempo stesso, di spingere verso i classici degli anni Settanta un nuovo pubblico giovanile.
Per dir la verità, l’accezione con cui l’autore considera l’espressione “post-progressive” (a cui aggiunge sempre anche l’aggettivo “moderno”, presente anche nel titolo) è differente da quelle più attestate. Musicologi come Edward Macan (“Rocking the Classics: English Progressive Rock and the Counterculture”, 1997) e Bill Martin (“Listening to the Future: The Time of Progressive Rock”, 1998) tracciano le radici del fenomeno agli anni immediatamente successivi al 1977, ma la trattazione di Salari si concentra solo su trasformazioni più recenti. Anche in Rete, d’altra parte, l’etichetta è impiegata soprattutto per riferirsi a musica uscita dagli anni Novanta in poi; il campo considerato dall’autore, tuttavia, si sovrappone solo parzialmente all’art-rock atmosferico che è terreno di specialità della label Kscope e rappresenta oggi l’ambito a cui più di frequente è associata l’espressione.
Purtroppo, Salari non dedica particolare cura alla trattazione generale delle caratteristiche del filone, preferendo focalizzarsi sui singoli artisti con descrizioni di carattere biografico che lasciano aperto il dubbio su quali siano i tratti caratterizzanti del “post-prog moderno” e quali elementi giustifichino inclusioni ed esclusioni nel manuale. Steven Wilson è il nome a cui è dedicato il maggior numero di pagine (oltre quaranta), ma nonostante la centralità assegnata a Porcupine Tree, No-Man e carriera solistica, non vengono chiarite le ragioni per cui i Blackfield, progetto in duo con Aviv Geffen, siano da considerare “non una band di post-prog”. Similmente, nelle oltre duecentocinquanta pagine del testo trovano spazio i 3rd And The Mortal ma non i Gathering, loro discepoli e più progressivi; i Katatonia ricevono giusto una citazione en passant (dalla quale sembra evincersi tuttavia una discreta importanza per il filone!); degli Archive non si fa menzione; i Marillion di Steve Hogarth sono spesso indicati come riferimento chiave ma non hanno una sezione dedicata.
Gli stili “post-progressive” sono tendenzialmente distinti, anche nel testo, dalle impostazioni revivalistiche del neo-progressive (molto improntato ai modelli di Genesis e Camel) e dal campo prog-metal in cui svettano Dream Theater e accoliti. L’inclusione nella trattazione di band come Opeth (decisamente revivalistici nella loro fase recente), Pain Of Salvation, Tool, Soen avrebbe dunque meritato qualche contestualizzazone aggiuntiva, onde evitare l’impressione di una panoramica più che altro dispersiva. Meno chiari ancora sono gli inserimenti di band post-metal, post-rock, post-hardcore o math-rock, che sembrano individuati senza un particolare schema di priorità: Callisto, Isis e The Ocean trovano un piccolo spazio, così come Godspeed You! Black Emperor e Mars Volta; mistero tuttavia sulle ragioni che rendano questi particolari nomi più centrali di altri, altrettanto celebri e progressivi negli orizzonti e magari perfino citati qua o là senza tuttavia guadagnare qualche riga tutta per sé.
Per simili opere di carattere esplorativo, completezza e coerenza sono inevitabilmente miraggi: il fatto però che il testo non dedichi una riga ai propri criteri di selezione (foss’anche che questi coincidessero, legittimamente, con le predilezioni dell’autore) costituisce un limite non indifferente.
Struttura, documentazione e scrittura sono altri punti deboli del testo. Diviso in due - o forse tre? - parti, il manuale concentra inizialmente la sua attenzione su alcuni artisti definiti “Pionieri”, per poi spostarsi sulle “Sorprese del post-prog moderno” e una panoramica del post-progressive “Nel mondo”. Nel primo elenco, che con schede discografico/biografiche occupa più di metà del libro, figurano i progetti di Steven Wilson, i Pain Of Salvation, gli Opeth, gli Anathema e i Tool, ma anche - fatto piuttosto sorprendente, visto l’evidente debito verso Tool e Porcupine Tree - Pineapple Thief e Soen. Aprono invece la sezione successiva due band catalogate come “derivazioni”: i pinkfloydiani Airbag e i Riverside, il cui stile in effetti è chiaramente riconducibile ai Porcupine Tree (almeno nelle opere più recenti).
Successivamente, l’articolazione si fa meno limpida, con le sezioni “In Italia” e “Nel mondo”, che forse arricchiscono la lista (altrimenti piuttosto scarna) delle “derivazioni” e forse invece vanno interpretate come prospettive a sé stanti.
Queste ultime sono essenzialmente raccolte di nomi, in cui il poco spazio dedicato a ciascun artista è speso prevalentemente a dettagliare titoli, date e label delle uscite discografiche. La caratterizzazione della musica è così relegata a poche parole di circostanza, che raramente invogliano all’ascolto. Un peccato, poiché proprio in queste pagine si concentra la maggior parte delle proposte “fuori dal coro” raccomandate dall’autore: una diversa attenzione agli aspetti musicali avrebbe senz’altro contribuito a incuriosire verso le decine di nomi suggeriti, talvolta legati a etichette di un certo peso, ma spesso anche autoprodotti e dunque poco distribuiti.
Anche la scrittura amatoriale di Salari rappresenta uno scoglio. Spesso claudicante sul piano sintattico, è zeppa di ripetizioni, cliché e utilizzi idiosincratici (ad esempio, quello di “ruffiano”, che ricorre con accezione apparentemente non dispregiativa). La frequente affermazione che il tal brano “potrebbe essere contenuto nella discografia di” questo o quell’altro nome noto risulta particolarmente infelice, minando l’intento base di mostrare la personalità degli artisti presentati. La scelta di scandire su base geografica i consigli della seconda parte è apprezzabile; purtroppo, però, questa suddivisione è accompagnata da rassegne di luoghi comuni dal nullo valore analitico (la musica del Nord Europa è malinconica come “le fredde oscure lande scandinave”, i tedeschi sono “quadrati e rigidi”; di contro italiani e brasiliani sono “caldi e solari”). Un’occasione persa per approfondire dinamiche e influenze artistiche alla base delle peculiarità delle scene locali.
Sorprende, infine, la presenza di alcuni errori materiali particolarmente evidenti. Poco importa, forse, se si fa confusione riguardo alla nazionalità di un artista il cui nome può facilmente trarre in inganno (Marco Minneman, tedesco naturalizzato statunitense, ma indicato nel testo come italiano), ma l’attribuzione dell’orecchio assoluto all’artista-chiave del libro, quando Steven Wilson stesso a negare di possedere questa virtù, getta dubbi significativi sull’affidabilità delle informazioni riportate.
Buona parte di questi limiti avrebbe potuto essere limata se l’editore avesse svolto un più accurato lavoro di revisione. Pare tuttavia che, anche nella “seconda patria” del prog, non tutte le iniziative dedicate al genere in ambito librario siano, in prospettiva, abbastanza redditizie da meritare una rilettura critica prima di andare in stampa.
“Post prog moderno” ha il merito di esaminare in forma estesa un ambito musicale dotato di un seguito importante, ma a livello critico ancora poco considerato. Oltre a band di vasta notorietà, Salari menziona centinaia di artisti dalla minore circolazione, rappresentando una guida all’ascolto parca sul piano dell’analisi stilistica ma certamente utile ai lettori avidi di consigli. L’inclusione di ampi stralci di testi tradotti è una scelta caratterizzante, che offre uno sguardo in profondità su un elemento spesso trascurato della produzione progressive. Merita un plauso anche l’intento di non confinare le impressioni musicali alla sola prospettiva dell’autore, ricorrendo per valutare i riscontri degli artisti anche a dati di vendita e reazioni di appassionati e critica di settore. Il più delle volte, tuttavia, i riferimenti alla stampa specializzata e alle fanbase online rimangono generici: si è dunque costretti a prendere in parola quanto riportato da Salari, senza poter distinguere i ricordi personali (distorti dal tempo e dalle comunità frequentate) dalle ricostruzioni circostanziate e documentabili.
L’attenzione alla scena italiana è un ulteriore elemento degno di nota, e sfocia in una prefazione di Fabio Zuffanti e nelle interviste a Raven Sad e Karmamoi. In quanto libro scritto “dall’interno” della fanbase progressiva (Salari cura da più di dieci anni il blog Nonsoloprogrock), “Post prog moderno” offre anche a chi abbia voglia di leggere fra le righe un interessante spaccato della comunità. Impressioni a prima vista surreali, sostenute o confutate dall’autore a più riprese, possono essere interpretate come testimonianze di percezioni diffuse nella sottocultura progressiva italiana. Fra queste sono di particolare interesse l’identificazione implicita fra progressive e musica di ricerca e la visione del metal come creatura che abbia poco o niente a che spartire con il progressive, ma anche la qualifica del progressive rock come genere “colto” per eccellenza e dei suoi ascoltatori come dotati di abilità attentive superiori a quelli degli altri filoni.
Il manuale, in fin dei conti, pare essere una lunga e sentita risposta alle diatribe tra fan sulle demarcazioni del progressive contemporaneo. Gli artisti oggetto del libro appartengono o meno al grande fiume del prog? Sono in continuità evolutiva con lo spirito dei classici, o sono musica da “giovincelli”, legata agli antichi fasti al più da qualche blando scimmiottamento? Gli echi polemici del dibattito emergono con costanza attraverso i capitoli, e, anche senza sbilanciarsi su quale sia l’interpretazione del termine “progressivo” più appropriata per i giorni nostri, va riconosciuto a Salari di porsi, riguardo al tema, stabilmente nella posizione più progressista.