Le dieci migliori canzoni del 2015

Leggi e ascolta le playlist

Senza pretese di completismo, ma neanche quella di rappresentare in toto le classifiche della redazione, abbiamo pensato di farvi ascoltare, con una Top10 a testa, le playlist che meglio rappresentano l'"anno musicale" di ciascuno. Le canzoni che hanno spiccato all'interno di un certo genere, le canzoni-simbolo degli artisti-rivelazione o delle grandi conferme - o, più semplicemente, le canzoni che hanno significato qualcosa per noi che le abbiamo ascoltate.

Stefano Bartolotta

Nel 2015, probabilmente, non è uscito alcun album di cui ci ricorderemo tra tanti anni. Però va detto che, per quanto mi riguarda, le uscite buone sono state tante, soprattutto a livello di canzoni singole, ce ne sono state davvero tante che, periodicamente, ho ascoltato tante volte, spesso lasciando perdere il resto del disco. Anzi, paradossalmente i dischi più belli dell'anno nel loro complesso sono poco rappresentati in questa playlist, e si è assistito al fenomeno di ottime canzoni incluse in dischi non sullo stesso livello. Non necessariamente questo è un male, e riunire tutti questi brani in un'unica playlist di fine anno è stato un piacere.

Gabriele Benzing

2015: End Credits

Personaggi e interpreti di un anno, ovvero i titoli di coda del 2015.

Wartime Blues as The (Re)Builder in “Build A Sun”. Perché il sole rinasce sempre, anche sul fondo del precipizio.
The Weather Machine as The Angel in “Lilium”. La chiamavano Miss Lilium, e tutti restavano senza fiato quando svaniva dalla scena.
KINSEY as The Lover in “Eat Your Heart Out”. Serenate per divoratori di cuori.
The Mountain Goats as The Wrestler in “Foreign Object”. “If you can’t beat ’em make ’em bleed like pigs”.
The Tallest Man On Earth as The Sailor in “Slow Dance”. Ci vuole più coraggio per partire o per restare?
Josh Ritter as The Preacher in “Henrietta, Indiana”. Beati i poveri di Henrietta, Indiana. Ma anche quelli che riescono a uscirne vivi.
Lord Huron as The Revenant in “The World Ender”. Quella volta che Nick Cave entrò nel cast di “The Walking Dead”.
The Decemberists as The River Child in “The Wrong Year”. La pioggia cade sempre al momento sbagliato.
Hezekiah Jones as Dr. Frankenstein’s Creature in “Borrowed Heart”. Una colonna sonora immaginaria per le pene d'amore di Boris Karloff.
Sufjan Stevens as The Apostle in “John My Beloved”. “I am a man with a heart that offends with its lonely and greedy demands”.

Marco Bercella

1. Tame Impala – The Moment
Il momento inaspettato, quello in cui una band chitarristica psichedelica imbraccia i synth, senza perdere una briciolo della sua identità. Anzi.
2. Roman à Clef - PSBTV
Ci sono modi e modi per misurarsi con la sofisticatezza del pop, i Roman à Clef scelgono la strada più complessa, quella del confronto con maestri (ad esempio, Prefab Sprout?). Non ne possono uscire vincitori, ma ci fanno comunque un figurone.
3. Here We Go Magic – Falling
La stessa libertà espressiva di Brian Eno quando, negli anni 70, ci proponeva le sue pop song un po' naif.
4. Public Service Broadcasting – Go!
Un concept sulla conquista dello spazio nell'anno del ritorno di Star Wars. Cosa chiedere di meglio?
5. Wire – Burning Bridges
Vecchi leoni che tornano con una brezza di psichedelia che ne rinfresca il sound. E che sound, noi lo sappiamo.
6. FFS – Police Encounters
Franz Ferdinand più Sparks : la dimostrazione tangibile che una formazione da sogno non è praticabile solo al fantacalcio.
7. Garbo e Luca Urbani – Novecento
Quando le collaborazioni diventano alchimie, ecco che il risultato può rivelarsi superiore alla somma degli addendi.
8. Patrick Watson – Hearts
E' il brano dall'atmosfera più natalizia che mi sia venuto in mente d'inserire in questa playlist, per quanto Watson, coi i suoi robot innamorati, mi abbia allietato per buona parte dell'anno.
9. Jean Michel Jarre & Air – Close Your Eyes
Vale un po' il discorso fatto per FFS. Anche la nazionale francese ha la sua formazione dei sogni: qui, Platini e Zidane per una volta insieme.
10. Marsheaux – The Sun & The Rainfall
Se a due ragazze greche viene mente di coverizzare il tuo album preferito dei Depeche Mode, e se questa operazione esce non bene, ma di più, significa che la fine del mondo è prossima. O forse è prossima solo la fine dell'anno?

Guia Cortassa

Il 2015, per me, è l’anno della California e di Los Angeles, dal baccanale della rivincita sentimentale di Grimes in “Flesh Without Blood”, celebrato a San Luis Obispo, o lo Chateau Marmont in cui è nata “Chateau Lobby #4 (In C for two Virgins)”, cronaca in musica del matrimonio di Josh Tillman/Father John Misty, all’indolenza dei pomeriggi a Malibù di “Music to Watch Boys To” di Lana Del Rey; da Hollywood, ispirazione per il cuore infranto di Tobias Jesso Jr., fino alle strade di Compton raccontate da Kendrick Lamar. Un anno di storie forti e complicate, come quelle di Sandra Bland e Trayvon Martin, a cui Blood Orange dedica “Sandra’s Smile”; brani che raccontano la difficoltà e le contraddizioni del mondo odierno in flash-nonfiction affilate come quelle di Courtney Barnett, che mira al cuore con “Depreston”; o l’ossessione nichilista degli Ought di “Beautiful Blue Sky”, ma anche il mondo allargato, che ritorna a Hollywood, delle “New World Tower” dei Blur. La fine dell’anno, in sospeso, è di nuovo firmata da Tobias Jesso Jr. che, questa volta insieme ad Adele, riesce a catturare la rabbia e la nostalgia di un incontro, tanto inaspettato quanto molto più probabile di ciò che si possa credere.

Giuliano Delli Paoli

E’ stato un anno bizzarro, a suo modo sfuggente e imprevedibile, con diverse canzoni memorabili da tramandare ai posteri (l’incantevole “Condolence” di Benjamin Clementine), improbabili duetti hyper-funky (Mark Ronson feat. Kevin Parker), inaspettate bordate hard-rock (“What Went Down” dei celebrati Foals), ammiccanti piroette elettro-pop (il giovanissimo Shamir in “Youth”), archi in festa a richiamare i migliori Travis (la bellissima “O You” dei Peace), sentiti omaggi interiori (la bravissima cantante siriana Bisan Toron nel suo validissimo progetto artistico e umanitario), bassi schizzati e inafferrabili (l’ipnotica follia di “Occasion” del geniale Sam Eastgate, in veste solista a nome La Priest), caldissime ballad dal richiamo notturno (“Loud Places” di uno straripante Jamie XX) e abbronzatissime tastiere avvolte in un battito terribilmente suadente (“Take Shelter” dei magnifici Years & Years). Ma è stato soprattutto l’anno dei divini Everything Everything.

Claudio Fabretti

Un 2015 ricco, tra consacrazioni (Julia Holter, John Grant, Susanne Sundfør, Chelsea Wolfe, Soft Moon), rivelazioni (Algiers, Aisha Devi, Takadum Orchestra) e ritorni gloriosi di vecchi leoni (John Fay, Joe Jackson, China Crisis, questi ultimi esclusi qui per cause di forza maggiore, vista la loro assenza da Spotify). Pochi dischi realmente rivoluzionari, ma tanti lavori in grado di regalare ascolti curiosi ed emozionanti.
Ho cercato di sintetizzarlo con i miei pezzi preferiti dell’anno, tra i quali non poteva mancare qualche ruggito pop di classe (Duran Duran, Blur) ad accompagnare il mio consueto mischione onnivoro di musica (più o meno rock) contemporanea. Con quote rosa in grande spolvero, grazie alle meraviglie della triade Holter-Sundfør-Wolfe e all’immancabile Lana (ancor più) languida in versione Luna di miele.


Fabio Guastalla

1. Maccabees – Spit It Out
La canzone più bella da uno degli album più sottovalutati dell'anno. Un crescendo orchestrale che esplode in tutta la sua potenza e nel frattempo fa venire la pelle d'oca.

2. Belle and Sebastian - Allie
L'ennesima perla incastonata nel canzoniere di Murdoch e soci. Questa volta, però, declinata come un piccolo baccanale che si schiude nel solito, calibratissimo ritornello. Sontuosa.
3. Blur – There Are Too Many Of Us
Damon Albarn a Sydney, barricato nella stanza d'albergo mentre a poche centinaia di metri è in corso un attentato. L'angoscia globalizzata tradotta, quasi esorcizzata in un crescendo di straordinario impatto. Un brano degno dei migliori Blur.
4. Stornoway – Between The Saltmarsh And The Sea
L'aria salmastra, una nave che salpa, le scogliere in lontananza, la rassicurante malinconia del distacco. Lassù, da qualche parte, in un Nord vivido e selvaggio,.
5. SOAK – Sea Creatures
Per quanto provi ancora a giocare con quell'aria un poco naif, SOAK è diventata grande. Qui ne abbiamo la riprova: raffinate atmosfere retrò, accenni chamber-pop, un sottile retrogusto psichedelico. Una canzone da portare nel cuore.
6. Sarah Cracknell – Nothing Left To Talk About
Né più né meno, una lezione di eleganza e spensieratezza. La canzone che mi ha accompagnato nelle lunghe giornate estive.
7. Speedy Ortiz – Raising the Skate
Del gigantesco revival nineties che ha attraversato il 2015 eleggo a portacolori questa hit mancata degli Speedy Ortiz, una canzone sghemba, quasi balbettante, cialtrona e genuina quanto basta, ma anche melodica e appiccicosa. Perfetta.
8. Gaz Coombes20/20 
Ormai lontano dalle smargiassate britpop, Gaz si riscopre autore maturo e raffinato. “20/20” è come una marea che si alza e si abbassa, mossa da dinamiche nascoste e irregolari. Un brano nel quale l'unica regola è perdersi, senza necessità di ritrovarsi.
9. Ducktails – Surreal Exposure
Ci sono cose nella vita sulle quali sai di poter sempre contare: una di queste è la penna di Matt Mondanile, con le sue atmosfere agrodolci iniettate in un indie-rock ovattato e, per qualche strana ragione, a suo modo rassicurante. Già che ci siete, recuperate anche “Northerh Highway” del sodale Martin Courtney.
10. Digitonal – Anaemathics
A mezza strada tra modern classical e ambient, un brano di crepuscolare bellezza da un album ingiustamente passato sotto traccia. Riscopritelo.

Vassilios Karagiannis

Se dovessi descrivere con un solo aggettivo il mio 2015 in musica, “sorprendente” sarebbe forse la scelta più adatta. Se da un lato sono stati ben pochi i nomi che hanno saputo confermarsi quest'anno con i loro nuovi album, dall'altro invece sono state moltissime le scoperte inaspettate, sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista strettamente musicale. Le frontiere della nuova musica sacra (Timbre, Spires That In The Sunset Rise, Kara-Lis Coverdale, Tigran Hamasyan), inedite forme di r&b mutante e avveniristico (Bilderbuch, Kelela, Dawn Richard, Miguel), elettronica pensante e accelerazionista, ma anche dotata di molteplici sfumature antropologiche (Holly Herndon, Elysia Crampton, Aïsha Devi, Lakker); non mancano anche le consuete (ma non per questo risapute) puntate nel campo del pop da classifica, del cantautorato e della folk-music, ma quest'anno è stato senz'altro dominato dall'eterogeneità stilistica e da uno sguardo più ampio a realtà che meriterebbero maggiore considerazione. Questa playlist di 50 brani non vuole essere esaustiva di tutti gli ascolti più significativi del 2015, ma si tratta comunque di un buon punto di partenza per inquadrare un'annata straordinariamente ricca e avvincente. Nessun ordine di merito.

Claudio Lancia

Mentre sceglievo dieci brani pubblicati durante il 2015 fra quelli che ho ascoltato di più negli ultimi dodici mesi, mi son reso conto di quanto (inconsapevolmente?) retromani siano state le mie preferenze. Come al solito molte influenze stilistiche degli anni 90 (Metz, il ritorno delle Sleater-Kinney, la bella novità Courtney Barnett), ma anche parecchia wave del decennio precedente (in rappresentanza del filone ho scelto Girls Names ed Editors), un po’ di pop ben fatto (sì, ho apprezzato il vistoso cambio di direzione dei Mumford & Sons), qualche opportuna deriva ibizenca (Chemical Brothers e Jamie XX son due dischi che ho amato moltissimo), e i sogni ad occhi aperti dei Beach House, che ci hanno colti di sorpresa con due bei lavori licenziati nell'arco di poche settimane. Poi, quando la selezione sta per volgere al termine, ecco il darkissimo lavoro firmato Chelsea Wolfe, una meravigliosa discesa agli inferi intitolata “Simple Death”. Moltissimi altri avrebbero meritato spazio, ma già così esce fuori una cassettina niente male. Buon anno a tutti! 


Stefano Macchi

Se Benjamin Clementine ci ha regalato una tela di assoluto valore dai tratti gotici ("Cornerstone"), gruppi come Beach House ("10.37") e Tame Impala ("The Less I Know The Better") mi hanno lasciato inizialmente l'amaro in bocca; poi, il frutto maturo, mi ha colpito e rapito istantaneamente in un vortice sognante e godereccio, come un Ah-Ha gestaltico di una figura pop magica e bizzarra. IOSONOUNCANE ("Stormi) s'infila di diritto nelle scoperte (forse un po' di chiunque) ma era già una certezza da top ranking sin dal principio di quest'anno, così come Malika Ayane ("Lentissimo"), un'assoluta rivelazione per il pop italiano. In tutto il filone pop-elettronico (abbastanza deludente quest'anno) vedo sugli scudi l'inglesino Jamie XX ("Obvs") sorretto dai connazionali Hot Chip ("Huarache Lights"), da un ibrido interessante - ma in attesa di conferma - di nome All We Are ("Ebb/Flow") e dai redivivi Charlatans ("So Oh") che pubblicano il nuovo disco a distanza di 5 anni.
C'è invece una scena folk internazionale che ha impreziosito la mia collezione in questo 2015: Eaves ("As Old As The Grave"), un giovanissimo chitarrista folk di Leeds che ha scritto e suonato un disco ruvido e intenso; Villagers ("Dawning On Me") aka Conor O'Brien che ogni volta che lo ascolto e lo suono penso di voler essere come lui, almeno un po'; Ryley Walker ("Same Minds") che ci ha consegnato un ritorno di Nick Drake, crudo e ben suonato.
Infine ci sono i cosiddetti matti, i non classificabili, quelli che scrivono dischi che appartengono a un genere ma ne stravolgono le modalità, oppure semplicemente se ne fregano di tutto e tutti: è il caso del perfezionista gallese H. Hawkline ("Moons In My Mirror"), dei velocissimi Fidlar ("40oz. On Repeat") americani della West Coast che piano piano stanno reinventando lo skate-punk, di Panda Bear ("Mr. Noah") che definire il suo disco psichedelico è eufemistico e degli Zun Zun Egui, multirazziale prog-band che ha scritto un disco potentissimo (era dai tempi dei Mars Volta che non si ascoltava qualcosa del genere) e poi ha deciso di sciogliersi.

Angelo Molaro

Almeno per le playlist il polpettone analitico ce lo risparmiamo, perché se c'è uno scopo primario nella musica è quello del piacere che deve trasmetterci al di là di tecnicismi, voti, classificoni e critiche. Infatti la playlist è stilata totalmente in base al gusto, non c'è una prima posizione, una seconda o un'ultima. Potete trovare di tutto: dalla miglior scena losangeliana di hip-hop e jazz con Flying Lotus e soci (Kamasi Washington, Kendrick Lamar) al ritorno di gran classe dei New Order e dei Ratatat con il singolo dell'estate, la paladina dell'indie-pop Lana del Rey, la bomba dei Battles che preludeva a un disco clamoroso si è risolta con una delusione cocente. C'è ovviamente un sacco di elettronica che rimane comunque un punto di riferimento nei miei ascolti: dalle piroette di Jamie XX, Baio e Panda Bear, all'inquietitudine di Oneohtrix Point Never per passare al mondo onirico di Floating Points e finire con la cassa oscura e dritta di Polar Inertia e Black Dog.
Purtroppo mancano all'appello alcuni pezzi di notevole interesse che la piattaforma Spotify non supporta come lo spettacolare Pomegranates di Jaar e il seminale Levon Vincent. Pazienza, ci hanno pensato le scoperte allegrissime al fotofinish di Bomba Estèreo e Voilaaa a farci viver con meno rimorsi. Buon ascolto.

Michele Palozzo

The Apartments - Black Ribbons
Ancora una volta, come inguaribili romantici, innamorarsi di un'atmosfera, poi di uno stato d'animo, infine di una voce femminile cristallina e disarmante, as your song floats down over the town.
Emidio Clementi - I camerieri
Urla in alto fino alla casa del tuo Dio, urla giù per le scale dietro ai camerieri che corrono, urla contro il cibo e il vino. Urla il tuo terrore, la tua ostinata malinconia. Sono tristi questi pazzi, e su due o tre facce questa tristezza affiora. Il piacere, una rosa avvizzita sul petto della vita.
Benjamin Clementine - Cornerstone
Tra gli esordi cantautorali più celebrati dell'anno, per me solo un assaggio di quel che Clementine sa trasmettere davvero soltanto dal vivo, a voce nuda e pianoforte. "Cornerstone" rimane, per l'appunto, la pietra angolare di quel rapporto così intenso tra voce e strumento.
Rafael Anton Irisarri - Empire Systems
L'ambiente musicale nel quale perdersi quest'anno. Sprofondare in una nebbia che oscura la vista ma sembra spalancare le più recondite soglie della mente. Una geografia fragile ed evanescente, somma e inafferrabile.
Low - Lies
Per molti i Low sono sempre stati una guida, per me una conferma che si rinnova con forza sempre maggiore in maniere inaspettate. È del tutto paradossale, ma non li ho mai sentiti così vicini come adesso. Ancora una volta vincono i cuori semplici.
Mew - Satellites
In tema di grandi ritorni, probabilmente i Mew riusciranno sempre a piazzare almeno una canzone degna di una playlist annuale, per quanto ridotta. Volendo ce ne sarebbero anche tre o quattro, ma attualmente "Satellites" è l'ultima asticella di riferimento per la perfezione indie-pop.
Joanna Newsom - Anecdotes
Farsi attendere a lungo per tornare in scena con tutta l'eleganza e la consapevolezza di un'artista già leggendaria. Tra "Anecdotes" e "Sapokanikan" sembra che la Newsom abbia già lasciato un altro testamento artistico, un connubio di perfezione formale e anima al quale non riesco ad abituarmi.
Sufjan Stevens - The Only Thing
Un atto d'amore privato diventa immagine composita nella quale tutti possono ritrovare parole adatte a descrivere il proprio stato d'animo. Ogni periodo della vita è segnato da un addio, qualcuno ha perlomeno la fortuna di saperlo esorcizzare attraverso la musica. Should I tear my eyes out now? Everything I see returns to you somehow.
Susanne Sundfør - Memorial
Se ancora non mi sono deciso a restringere il campo in materia di generi musicali è per il timore di lasciare per strada album come quello di Susanne Sundfør: dieci brani pop di grande spessore emotivo, tra danze erotiche irrefrenabili e dolenti gothic ballad. Quasi impossibile scegliere una sola traccia, ma per il livello di enfasi e sontuosità la suite di "Memorial" non può davvero mancare.
Steven Wilson - Routine
La vocazione di Steven Wilson, ora più che mai, è divenuta quella del cantastorie: assieme ai suoi primi amori musicali rivivono figure dimenticate la cui anima, però, continua a emanare luce. "Routine" suona come un requiem sommesso ma da ultimo pacificato, dolcissimo, specchio di un'umanità devastata ma che non cede alle angherie del destino. Don't ever let go, try to let go

Lorenzo Righetto

Quest'anno un po' tutti si sono sentiti bambini abbandonati dalla madre alcolizzata e schizofrenica dopo pochi anni di vita, impegnati a ripescarne il ricordo di poche estati dopo averla rivista, più di trent'anni dopo, sul letto di morte: "Did you get enough love, my little dove/ Why do you cry?/ And I’m sorry I left, but it was for the best/ Though it never felt right". E' difficile non iniziare una playlist se non con "Fourth Of July" di Sufjan Stevens, insomma. Però ci sono anche altre canzoni che fanno piangere, a volte basta la voce, quella di Karen Peris ("Washington Field Trip"), a volte un'altra storia che spacca la vita in un prima e in un dopo, quella del figlio che Peter Walsh ha perso ("Black Ribbons"). Ma ci sono state anche canzoni per tornare giovani, quando bastava una canzone per passare il pomeriggio ("Kathleen Sat...", "Yung Girls", "To The Kino, Again"). Canzoni e suoni che creano mondi emotivi ed estetici che risuonano a lungo dentro di te ("If It Does", "En Gang Om Aret"), o ti fanno vivere altre vite, eroiche e sfrontate ("Scar") o romantiche e solitarie ("Porch").

Roberto Rizzo

Un anno, per chi scrive, segnato marcatamente dalle nuove frontiere dei suoni e dei ritmi dall'altra parte del Mediterraneo, tendenze che hanno un ruolo sempre più centrale anche nel gioco di influenze ed egemonie dell'elettronica globale. Dal liberatorio chaabi degli EEK, nuovo eccitante stile del Cairo che vanta localmente già una qualche dozzina di emuli, alle più dolci ma non meno vibranti nenie digitali di Nozinja, il guru della shangaan electro, di cui di recente si è accorta finanche la Warp. Nel mezzo, l'indefinibile lavoro del collettivo di Kinshasa, Mbongwana Star, le entusiasmanti proposte upbeat dell'etichetta "post-coloniale" Principe Discos, ma anche il (relativamente) più chiacchierato esordio di JLin, l'intenso lavoro queer-synth di Elysia Crampton, i nuovi sviluppi della comunità americana Future Brown, cui è legato anche il debutto di Kelela, nuova leva electro-r&b di spessore, ma anche il più recente singolo di M.I.A., rilevante, ovviamente, in più di un senso.

Gioele Sforza

Nel 2015 musica e vita personale sono andate di pari passo, rendendo un anno di per sé già brillante sul piano musicale una vera e propria colonna sonora di momenti e emozioni indimenticabili. Questa playlist prova a riassumere ciò che il 2015 è stato per me.
1. The Weeknd – Can’t Feel My Face
Abel Testfaye è ancora discontinuo su lunga durata, ma quando azzecca il pezzo si rivela probabilmente la più importante voce black nel panorama mainstream. Questa hit clamorosa, graziata da una produzione stellare e una performance vocale irresistibile, è stata LA canzone dell’estate con varie lunghezze di distacco.
2. Years & Years – Shine
L’angelico dance-pop degli Years & Years raggiunge qui la sua vetta emozionale più pura e candida: confessione sentimentale di rara intensità, in barba all’omofobia, e melodia da lacrime agli occhi, tripudio di innocenza e fervore adolescenziale.
3. Swim Deep – One Great Song And I Could Change The World
Tra mille variazioni e contorsioni strumentali, gli Swim Deep si svelano quasi-prog e confezionano il pezzo pop più spericolato dell’anno.
4. Duke Dumont – Ocean Drive
L’UK house riscopre gli anni 80 e ne tira fuori una gemma malinconica e nostalgica.
5. Tame Impala – Let It Happen
Da gruppo odiato dal sottoscritto a rivelazione dell’anno: “Let It Happen” è il manifesto della svolta synth-pop dei Tame Impala, 7 minuti di melodia celestiale e progressioni sintetiche retro-futuristiche.
6. Deerhunter – Ad Astra
Maestoso brano perso in qualche galassia remota. I Deerhunter a uno dei loro apici più evocativi.
7. Laura Marling – Gurdjeff’s Daughter
Leggerezza e complessità: binomio indissolubile nella musica della Marling, che non smette di regalare perle compositive uniche nel panorama folk.
8. Jamie XX – Loud Places
I tramonti estivi, di ritorno dal mare, quest’anno hanno avuto una colonna sonora fissa, ovvero questo magnifico gioiello balearico.
9. Kendrick Lamar – These Walls
Non ho amato “To Pimp A Butterfly”, che giudico troppo pretenzioso, ma in questo brano tornano gli echi del Lamar intimista che riesce a commuovere con le sue riflessioni interiori, prive del carico "universale" che ha impoverito la sua poetica urbana.
10. Lao Che – Wojenka
Tradizione polacca e futurismo funk: pezzo semplicemente inclassificabile in schemi pre-costituiti.

Marco Sgrignoli

Django Django: Pause Repeat

La canzone dell'anno. Del mio anno, quantomeno. Pigra, raggiante, giocosa, stranita, dinamica. Col suo ritmo spezzato, il suo crescendo inesorabile e quel ritornello larger than life, in cui gli accenti euro dei Friendly Fires vanno in controtempo e si avvicinano a... Canterbury, possibile?
Years & Years: Shine
Strofa, pre-chorus, ritornello, bridge: tutte melodie indimenticabili. Pop perfetto, col giusto di enfasi elettronica a ammantare il tutto di sognante grandeur.
Clarence Clarity: Will To Believe
Plastica dimenticata vicino al fornello. Nella musica di Clarence Clarity, i generi si sciolgono, si fanno molli, informi, perdono la loro funzione. Eppure l'arte è tale che da mostri rnb/glitch/electro/hypna come "Will to Believe" emerga un'efficacia pop davvero sorprendente.
Cosmo Sheldrake - In Pelicans We
Giocoso, moderno, antico: Cosmo Sheldrake è un nome da tener d'occhio, arrivato quest'anno al primo Ep. La sua musica si muove nei territori ormai un po' demodé della folktronica portando con sé due elementi rivitalizzanti: il forte ancoraggio alla tradizione britannica delle costruzioni melodiche, e l'eccellente penna pop.
The Weather Station - Way It Is, Way It Could Be
Delicato, dilatato, trasognato, il folk dei canadesi Weather Station culla col serpeggiare di arpeggi di chitarra cristallini e la voce ammaliante di Tamara Lindeman, e sembra riuscire ad attingere a quella stessa fonte che rendeva i migliori pezzi di Nick Drake assieme luminosi e rassegnati.
Firefly Burning - We Are a Bomb
Al confine tra indie-folk e chamber-pop si muovono in questi anni molte formazioni dai connotati musicali pressoché progressivi, e i Firefly Burning sono - se non la più interessante - certamente quella che nel 2015 ha messo a segno il colpo più grosso come riuscita dei brani e capacità melodiche.
Stornoway - Get Low
Grande ritorno da parte degli alfieri del folk-pop in salsa British. La leggerezza e la caleidoscopicità di un brano come "Get Low" dovrebbe essere sufficiente a levare di torno definitivamente Mumford & affini; invece per qualche misterioso motivo gli Stornoway continuano a essere un segreto per pochi.
San Fermin - Jackrabbit
Ancora indie-folk, dai tratti corali e dall'intensissimo gusto prog. La particolarità sta non nell'ambizione, ma nel metodo della band americana, che unisce all'eccellente classe pop già esibita nel precedente album anche schemi provenienti dall'rnb da alta classifica, superbamente reinventati in questa "Jackrabbit".
The Dear Hunter - Waves
La magniloquenza di Muse e Queen sposata a schemi folk corali o prog-pop in stile Electric Light Orchestra. A questo è approdata la band capitanata da Casey Crescenzo, partita dal post-hardcore e diretta verso mete sempre nuove e sorprendenti.
Macklemore & Ryan Lewis - Downtown
Posso dire di avere finalmente un'opinione sulla polemica Macklemore-Kendrick Lamar nata in occasione dei Grammy 2014: non c'è paragone. Uno sa rappare, fa hip-hop innovativo e pressoché prog nonostante gli evidenti richiami alla black music del passato... L'altro è Kendrick Lamar.

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