Se è difficile estrarre un “best of” all’interno di una discografia sterminata e ricca di capolavori come quella di David Bowie, non è più semplice nemmeno allestire un “anti best of”, immergendosi in quella “Velvet Goldmine” piena di pepite preziose che è l’altro lato del successo del Duca Bianco, quello più nascosto, tra esperimenti, B-side, outtake, chicche e canzoni rimaste più in ombra nelle tracklist dei suoi album oppure incluse in pubblicazioni e progetti collaterali. In questa playlist, costruita anche come una sequenza cronologica che ripercorre la vita di Bowie, cercheremo di riportarne alla luce una trentina, spulciando a fondo nella sua produzione e operando un’inevitabile, spietata selezione in questa enorme mole di materiale.
Karma Man
Partiamo dalle origini, da uno dei primi pezzi composti da un giovane David Bowie alla ricerca del successo. Viene eseguito nelle sessioni Bbc registrate il 13 maggio 1968 e sarà incluso nella “Deram Anthology” e, in seguito, anche nel bonus disc dell'edizione deluxe dell’esordio omonimo su Lp, “David Bowie”. Un brano che testimonia l’interesse del dandy inglese per il Buddhismo tibetano, già manifestato in una canzone del debutto su Lp, “Silly Boy Blue”, in un periodo in cui artisti come Pete Townshend, Beach Boys, Donovan e i Beatles elaboravano il proprio percorso personale verso l'"illuminazione". “Karma Man” sfoggia un testo complicato che comprende anche meditazioni sulla Ruota dell'esistenza e sulla reincarnazione. Nello stesso periodo sia David che Tony Visconti, suo storico braccio destro già presente in questo brano, si unirono alla Tibet Society, proprio per studiare il buddhismo tibetano, argomento sul quale torneremo più avanti in questa scaletta alternativa del Duca Bianco.
Letter To Hermione
Proseguiamo all’insegna di questo stralunato folk cantautorale del primo Bowie, quello dell’esordio omonimo, e, in buona parte, anche quello del successivo album “Space Oddity” del 1969, che gli regalerà il primo successo grazie alla hit omonima e che però comprendeva anche brani curiosi e intimisti, come questa missiva indirizzata alla sua compagna dell’epoca Hermione Farthingale, con la quale – sempre a proposito di buddhismo – trascorrerà tre mesi di isolamento monastico con quattro lama tibetani in Scozia… Saggio di un folk atipico, condito da uno stile interpretativo già piuttosto surreale e straniante, “Letter To Hermione” resterà uno dei pochi testi esplicitamente d'amore della sua carriera.
Saviour Machine
Ma non sarà la candida Hermione a impalmare il giovane David, bensì l'americana Angela Barnett, con la quale convolerà a nozze il 20 marzo 1970, matrimonio che durerà lo spazio di un decennio, regalando a Bowie il figlio Zowie (poi ribattezzato Joe). Sul piano musicale, invece, è un altro incontro a far svoltare la sua carriera: quello con il chitarrista Mick Ronson, in azione sul terzo album “The Man Who Sold The World” (1970), con il fido Tony Visconti in cabina di regia. E grazie anche al loro contributo, nasce un sound duro e saturo, una sorta di "hard-soul-rock", dominato dai rimbombi del basso, dalle sciabolate della chitarra, dal Moog (a cura di Ralph Mace). Con Bowie che appare per la prima volta in abiti femminili nella copertina (censurata negli Usa) e scrive testi grotteschi, all’insegna di un futurismo orrorifico, come nel caso di questa “Saviour Machine”.
Quicksand
L’ex-folksinger nel frattempo è cresciuto anche come cantante e performer. Cruciale l'incontro, avvenuto il 14 luglio 1967, con il mimo-ballerino Lindsay Kemp, primo atto di una lunga collaborazione che si protrarrà negli anni. E così, cambiano anche le sonorità: per Bowie è il tempo di gettare alle ortiche gli esperimenti folk-psichedelici e di abbracciare il nascente glam-rock, ibrido musicale romantico e sfrontato che Marc Bolan aveva forgiato un anno prima con i T. Rex e che John Lennon avrebbe ironicamente ribattezzato "rock'n'roll col rossetto". E il suo primo capitolo dell’era glam è già un capolavoro, di nome “Hunky Dory”, in cui Visconti è rimpiazzato dietro la consolle dall'esperto Ken Scott e Bowie suona chitarra, sax e piano, "finché l'abilità glielo consente" (come ironizza nelle note di copertina); poi, per le parti più elaborate, c'è un ospite d'eccezione: il tastierista Rick Wakeman degli Yes. Ma la parte del leone la fanno gli arrangiamenti orchestrali di Ronson, che suggellano il trionfo di un Bowie crooner, sulle orme del suo maestro Scott Walker. È il disco di hit immortali come “Life On Mars?” e “Changes”, ma al suo interno c’è spazio anche per questa meravigliosa ballata che Bowie avrebbe in futuro recuperato spesso nei suoi set live (anche in un celebre duetto con Robert Smith dei Cure).
Moonage Daydream
Mentre il rock si autocelebra nelle grandi adunate pacifiste, Bowie segue le orme della Pop Art di Warhol e si specchia nel suo camerino alla ricerca della giusta maschera per incantare il pubblico. La risposta verrà dalla combinazione impossibile tra un essere interstellare e un attore del teatro giapponese Kabuki. Il primo, grande personaggio della sua galleria, Ziggy Stardust, protagonista dell’omonimo album del 1972, che frutterà tante hit memorabili, dalla title track a “Starman”. Ma il cuore del disco è condensato nel sogno a occhi aperti di "Moonage Daydream". L'Era lunare è arrivata e con essa il suo messia: "I'm an alligator, I'm a mama-papa coming for you/ I'm the space invader, I'll be a rock 'n' rolling bitch for you". Ziggy è un redentore, ma anche "una puttana", il simbolo del meretricio del music-business. Esaltata dallo stridulo falsetto di Bowie, dalle distorsioni da capogiro della Gibson Les Paul di Ronson e da un assolo di sax al fulmicotone, è una cavalcata elettrica folgorante e l'apoteosi definitiva del glam-rock. Rimasta per troppo tempo nascosta sotto la polvere di stelle di Ziggy, "Moonage Daydream troverà definitiva consacrazione solo molti anni dopo, quando darà il titolo al biopic di Brett Morgen del 2022 sulla vita di David Bowie.
Velvet Goldmine
Nella tracklist di “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars”, invece, non troverà posto, se non in successive ristampe, questa piccola gemma registrata proprio durante quelle storiche sessioni. “Velvet Goldmine” è un accattivante midtempo rock con il tipico marchio del lick di chitarra della Les Paul di Mick Ronson, che lo stesso David definirà “lovely” e “very Bowie”. Sarà il lato B della riedizione del 45 giri di “Space Oddity” del 1975, insieme a “Changes”, singolo che finirà in vetta alle chart britanniche regalando il primo n.1 al dandy londinese. Farà discutere il suo suo testo ambiguo, che dovrebbe raccontare di effusioni omosessuali, anche se proprio il titolo Velvet Goldmine sarebbe una forma gergale per definire l’organo genitale femminile. Bowie racconterà che si tratta di un racconto attraverso il punto di vista dei groupie di Ziggy Stardust, con versi come "You got crazy legs, you got amazing head/ You got rings on your fingers and your hair's hot red" (“Hai delle gambe da pazzi, una testa incredibile/ Hai delle ali sulle dita e dei capelli rosso fuoco”) E ancora: "You're my taste, my trip, I'll be your master zip/ I'll suck your hair for kicks, you make me jump to my feet”. (“Sei il mio viaggio di prova, sarò la tua energia principale/ Ti succhierò i capelli per divertimento, mi fai scattare in piedi”). Nata sottotraccia, “Velvet Goldmine” diverrà nel tempo un inno della stagione glam al punto che darà il titolo al film del 1998, di Todd Haynes, che racconta la storia di quel periodo.
John, I’m Only Dancing
Subito dopo l’uscita di “Ziggy Stardust”, Bowie pubblicherà anche quest’altra canzone dal testo probabilmente omosex, in cui il narratore dice al suo compagno di non preoccuparsi della ragazza che è con lui perché ci sta solo ballando. È una di quelle canzoni che, pur essendo rimaste fuori dalle scalette ufficiali degli Lp, nel tempo sono diventate dei classici. Merito, in questo caso, di un sound accattivante, dalle venature quasi funky, nonché di un suggestivo videoclip, diretto da Mick Rock, con ballerini androgini della compagnia di mimo di Lindsay Kemp.
Lady Grinning Soul
È la grande stagione di Ziggy Stardust e dei vari personaggi che ruotano attorno alla sua galassia. È lui "l'uomo che cadde sulla terra", il messia di una rivoluzione rock che dura una stagione sola, il tempo che passa tra la sua ascesa e la sua caduta. E in questa parabola c'è tutta la rappresentazione dell'arte di Bowie: la messa in scena del warholiano "quarto d'ora di celebrità", l'edonismo morboso di Dorian Gray, la parodia del divismo e dei miti effimeri della società dei consumi e, non ultimi, i presagi di un cupo futuro orwelliano. Ma Bowie ha già in serbo una nuova icona, quella di Aladdin Sane (gioco di parole da "A Lad Insane", un tipo pazzo) l’Lp del 1973 in cui si fa fotografare con una saetta multicolore in pieno viso, con un lieve cambio di make-up e una nuova raccolta di splendide canzoni che si mantengono sui livelli eccellenti del predecessore. Se con “Ziggy” celebrava l’apoteosi dell’era glam, con “Aladdin Sane” Bowie ne officia il sarcastico requiem, vestendo i panni di un aristocratico decaduto che si guarda allo specchio e osserva il tempo che "si piega e cambia come una puttana" bruciando in fretta fama e gloria. Se a spopolare sono il pianismo sfrenato della title track e il rock’n’roll di “The Jean Genie”, resta sullo sfondo questa ballata oscura e decadente – tenuta colpevolmente fuori da tutte le successive antologie - che chiude la tracklist nel modo più melodrammatico, con tanto di accompagnamento straniante da cabaret brechtiano ad assecondare il misterioso universo della "Lady Grinning Soul".
See Emily Play
Ma anche per un geniale compositore come Bowie viene sempre il momento delle cover. Tra le più originali della sua (non breve) serie, quelle contenute in “Pin Ups”, album del 1973 composto interamente da nuove versioni di classici rock del periodo 1964-1967. Spiccano, in particolare, le sfumature psichedeliche di “See Emily Play”, che conferma anche la straordinaria attitudine melodica di Bowie. La cover del brano del 1967 dei Pink Floyd è stata definita dal suo biografo Nicholas Pegg come uno dei momenti salienti del disco, dal tic-toc iniziale della chitarra alla dissolvenza finale degli archi, con una produzione in stile “Sgt. Pepper’s”, tutta giocata su linee di pianoforte e sintetizzatore e l'accompagnamento vocale un'ottava sotto alla voce solista, che ricorda alcune atmosfere di “Hunky Dory”. Un gioiellino, andato quasi dimenticato a beneficio di altre (e spesso meno efficaci) cover bowiane.
Sweet Thing
Ma Bowie ha intuito che la scena glam-rock è ormai asfittica e deve sbarazzarsi al più presto del suo alter ego Ziggy Stardust facendolo "morire" sul palco e sciogliendo gli Spiders From Mars. La nuova frontiera è un nuovo concept-album, sui "Diamond Dogs", ovvero i sopravvissuti a una catastrofe atomica che ha ridotto l'uomo nella condizione di cane demente, mentre il mondo è ormai soggiogato dal Grande Fratello. Un concept-album futurista ispirato a “1984” di Orwell, che non avrà grandi fortune commerciali, ma getterà le basi di nuove imminenti metamorfosi bowiane. La sconcertante copertina in cui Bowie si trasforma in un essere mostruoso, metà uomo, metà cane, illustra questo kolossal non troppo compreso, dal quale abbiamo estratto l’inquietante “Sweet Thing”, sceneggiata in una sorta di minaccioso crooning post Brel-iano a comporre una suite in tre parti insieme a “The Candidate”-“Sweet Thing (Reprise)”.
All The Young Dudes
A mettere in scena il delirio distopico di “Diamond Dogs” è uno stupefacente tour, disegnato da Jules Fisher: in uno scenario apocalittico, tra grattacieli in rovina e navicelle spaziali, si affannano zoppicanti cani-uomo e altri rottami sparsi dell'umanità. Bowie troneggia dall'alto di una gru, recita, mima e cambia spesso look. Dalla serata del Tower Theatre di Philadelphia, sarà registrato il doppio “David Live”, dal quale siamo andati a ripescare un’altra chicca, ovvero la versione cantata da Bowie di “All The Young Dudes”, il trascinante brano che aveva regalato qualche tempo prima ai suoi amici Mott The Hoople. È l'inno generazionale glam, istantanea folgorante dell’era dei dudes, i neo-fricchettoni dell’era glam intenti a trasformare i barbosi raduni eco-pacifisti dei loro cugini hippie in uno sfrenato festival del kitsch. Che sia "peace and love", insomma, ma senza più vincoli ideologici o politici di sorta. Trionfano così il disimpegno, il travestitismo e l'ambiguità sessuale, in un profluvio di lustrini e paillettes, piume e rimmel, stivali e tutine spaziali. È il tempo del "glam" e di una nuova ubriacante Swingin' London.
Who Can I Be Now?
Ma se Ziggy Stardust è morto da un pezzo, anche il glam è ormai agonizzante. Così Bowie studia una nuova palingenesi. E quello che rinasce, novella araba fenice, è un dandy che ha smarrito per strada zatteroni, paillettes e un bel po' di mascara, ma ha conservato un look ambiguo e inquietante. La nuova frontiera musicale, già lambita in alcuni arrangiamenti del Diamond Dogs Tour, è l'America, per l’esattezza quella del funky, del rhythm'n'blues e della nascente disco-music del Philadelphia Sound. Un'America che ha perso i connotati sinistri descritti in “Aladdin Sane” e “Hunky Dory”, tornando a essere "la terra delle mille danze". “Young Americans” disorienta un po’ i fan, ma viene celebrato dalla stampa come “il primo disco di soul nero inciso da un musicista bianco”. Nella sua tracklist finale verrà sacrificata questa “Who Can I Be Now?” per far posto ai due brani incisi nella session con John Lennon: “Fame” e la cover di “Across The Universe”. Un peccato, perché questo sinuoso numero di soul bianco rappresentava appieno l’immagine mutevole del Bowie dei 70’s e forniva uno spaccato illuminante della sua incursione nel Philly Sound: “If it’s all a vast creation/ Putting on a face that’s new/ Someone has to see/ A role for him and me/ Someone might as well be you”. Reinserita nella ristampa della Rykodisc del 1991 sarà poi anche inclusa nel box-set del 2016 a cui darà il titolo.
Wild Is The Wind
Bowie intanto debutta nel cinema con una parte nel film di Nicolas Roeg "The Man Who Fell To Earth" (1976) e si stabilisce a Los Angeles, dove inizierà uno dei periodi più cupi e drammatici della sua esistenza, sprofondando in pieno caos narcotico, preda di pusher e strozzini, oltre che dei suoi stessi demoni. Il suo matrimonio è in dissoluzione, i rapporti con i manager sono burrascosi e la sua esistenza sembra sul punto di implodere. Scheletrico ed emaciato come un vampiro metropolitano, si ritira nel suo appartamento, prigioniero delle sue fobie. Ma proprio durante quei giorni californiani, in deliranti session al lume di candele nere bruciate per allontanare gli spiriti, nasce un disco rivoluzionario come “Station To Station” (1976) che darà il La a un'altra, ubriacante stagione musicale, con la sua fusione fredda di rock chitarristico ed elettronica, battiti caldi della black music e gelidi synth alla Kraftwerk. Al suo interno – oltre a classici come “Golden Years”, “Tvc15” e la sontuosa title track - compare anche questa chicca: una struggente e teatralissima cover di “Wild Is The Wind”, tema scritto da Dimitri Tiomkin nel 1956 per un film western, qui arrangiato con chitarre acustiche e tastiere soft che assecondano acrobazie vocali da brividi. Bowie appare qui maturato anche come cantante, mettendo in luce per la prima volta quella voce bassa e potente destinata a divenire uno dei suoi tratti caratteristici.
Always Crashing In The Same Car
“Station To Station” è anche l’incubatrice di un nuovo personaggio, il celeberrimo Duca Bianco: pantaloni neri a pieghe, panciotto e camicia bianca, capelli rosso-biondi impomatati e tirati all'indietro. Un essere algido e aristocratico, alienato dalla paranoia urbana e isolato nel suo mondo di musica robotica. Su di lui Bowie riversa tutti gli incubi e i deliri della sua terribile esperienza californiana, dalla quale esce assecondando il richiamo dell'Europa, di quella cultura "madre" per tanti versi contrapposta a quella americana che ormai lo stava distruggendo. Durante il tour di "Station To Station", insieme all'amico Iggy Pop, si ritrova ad attraversare in treno l'Europa dell'est. Così, finiti i concerti, si trasferisce con Iggy a Berlino, città piena di contrasti e fermenti culturali, che gli ispirerà la celebre trilogia, in collaborazione con Brian Eno. Il primo capitolo è il fondamentale “Low” (1977). Se “Sound And Vision” e “Be My Wife” ne furono i singoli, non fu dato il giusto risalto a questa ultima traccia registrata per l'album, completata nel novembre '76 dopo molti ripensamenti da parte di Bowie, che cambiò diverse volte l'arrangiamento. Il testo di “Always Crashing In The Same Car” fa riferimento a incidente realmente accaduto a Bowie, quando, un po' alticcio alla guida, non riuscì a parcheggiare l'auto in un garage sotterraneo di Berlino continuando a girare in tondo e rigando vistosamente le fiancate dell'auto sbattendo contro le altre macchine in sosta. Una metafora del vicolo cieco in cui era finito il Duca Bianco dopo il devastante periodo californiano.
Some Are
Nella sua alternanza tra canzoni ed episodi più dilatati, vicini all’ambient music, “Low” corona l’esperimento più temerario di Bowie: fondere in maniera originale cultura europea (kraut-rock, esistenzialismo), cultura afro-americana (rhythm'n'blues) arrivando all'abbattimento definitivo delle barriere e realizzando al contempo uno dei suoi dischi più veri e profondi. Nella sua scaletta iniziale, però, non finirà questa suggestiva “Some Are”. Un brano accreditato al duo Bowie-Eno, ma nato in realtà per mano del solo Bowie durante il 1975 come parte dell'abortito progetto per la colonna sonora del film “L'uomo che cadde sulla Terra”, dove avrebbe dovuto accompagnare la scena nella quale il personaggio di Mary-Lou vede passare in strada una slitta di Natale. La traccia sarà poi inserita come bonus track nella ristampa in cd di “Low” e del suo valore si accorgerà anche Philip Glass che la includerà nel secondo movimento della sua “Low Symphony” del 1993. E lo stesso Bowie la riabiliterà usandola, in quella versione, come introduzione musicale alle date del suo Outside Tour.
V2 Schneider
Assistito dal fido Tony Visconti, nella sua “clinica berlinese”, Bowie riesce a fondere cultura europea (kraut-rock, ambient music, esistenzialismo) e afro-americana (rhythm'n'blues) abbattendo ogni residua barriera. Il secondo capitolo della trilogia è registrato negli studi Hansa by the Wall da un team stellare: oltre a Bowie (alle prese con voce, tastiere, chitarre, sassofono e koto) ed Eno, ci sono Robert Fripp (chitarrista e leader dei King Crimson), Carlos Alomar (chitarra), Dennis Davis (percussioni) e George Murray (basso). Ed è una nuova allucinazione tra rock ed elettronica, tra atmosfere d'avanguardia - tese, claustrofobiche, glaciali - e la bipartizione della scaletta che pone quasi tutti i brani cantati sul primo lato e gli strumentali sul secondo. Decisiva ancora una volta la lezione dei Kraftwerk, con i quali vi sarà un continuo scambio di rimandi e citazioni che irromperà in modo decisivo nell'immaginario delle nuove generazioni di musicisti wave, a partire da Ultravox e Joy Division. Anche Bowie finirà a sua volta con il sedurre il quartetto teutonico che in "Trans-Europe Express" reciterà: "...from station to station, back to Dusseldorf city, meet Iggy Pop and David Bowie..." . E il gioco di citazioni incrociate proseguirà con un brano strumentale di “Heroes”, il successivo capitolo della trilogia berlinese del Duca Bianco, dedicato a uno dei fondatori della band di Düsseldorf, Florian Schneider, che è venuto a mancare nel 2020. L’abbiamo voluto ricordare anche noi, in questa playlist, con questa illuminante “V2 Schneider”.
Red Sails
Il terzo capitolo della trilogia, “Lodger” è sicuramente il più sottovalutato, pur essendo non meno lungimirante degli altri due. È il logico coronamento di quella ricerca sull'ethno-music solo abbozzata nei lavori precedenti: Bowie accentua le sonorità funk avvicinandosi così al sentiero tracciato da David Byrne, anche insieme allo stesso Eno, e mette a punto tecniche di registrazione avanzate, ricercando la casualità nella composizione e anticipando l'uso dei loop. Meno celebre di altri brani del disco – come “Look Back In Anger” o “Boys Keep Swinging” - questa traccia, in particolare, mette in mostra un incessante battito motorik alla Neu! (altro riferimento fondamentale per il Duca Bianco), che si sposa ad atmosfere medi orientaleggianti, per un numero ethno-rock d’alta scuola. Un autentico trip a vele (rosse) spiegate.
It's No Game (No. 1)
Dopo i due anni di esilio tedesco, Bowie decide di tornare negli Stati Uniti: il definitivo addio a Berlino viene sancito un anno dopo, con un nuovo disco e una nuova svolta. “Scary Monsters (And Super Creeps)” è l'anello di congiunzione tra la fase "avanguardistica" di Bowie e la sua successiva svolta pop-dance. È il disco di hit sempiterne come “Fashion” e “Ashes To Ashes”. Ma contiene anche altri piccoli gioielli meno noti come questa straniante “It's No Game (N.1)”, frutto del sodalizio con Robert Fripp, che si rinnova dopo i fasti di “Heroes”. La chitarra spettacolare di Sua Maestà Cremisi torna a graffiare, accompagnata dai vocalizzi (in giapponese) della cantante Michi Hirota, con Bowie che la asseconda cantando la traduzione in inglese in modo quasi straziante. Il Duca Bianco racconterà di aver voluto una stridula voce femminile nel pezzo per "infrangere un particolare tipo di attitudine sessista sulle ragazze giapponesi e sulle donne in generale”. Sul disco, la canzone è divisa in due parti, poste all'inizio e alla fine dell'album.
Criminal World
“Scary Monsters”, come dicevamo, segna un passaggio progressivo dalla fase più avanguardista di Bowie (che comunque rappresenta appieno) a quella pop, che arriva nel 1983, con la svolta clamorosa di “Let’s Dance”, tra ritmi da dancefloor e sonorità molto patinate, magistralmente curate dal produttore Nile Rodgers, uno dei guru della disco-music alla testa degli Chic. L’album fa inevitabilmente storcere la bocca ai soliti integralisti della critica. Ma che si trattasse di musica da ballo di gran classe ci sono pochi dubbi. E oltre alle hit che garantiranno a Bowie un clamoroso successo mondiale – la title track, “China Girl”, “Modern Love”, “Cat People” – trova posto in scaletta anche una riuscita cover, in versione molto soffice e levigata, di “Criminal World”, lo splendido brano che apriva l’omonimo album del 1976 dei Metro di Duncan Browne, una delle band-feticcio di Bowie, che qui, con voce vellutata, torna a evocare gli scenari inquietanti di quel “mondo criminale dove le ragazze sembrano bambini” (“A criminal world, where the girls are like baby-faced boys”).
Don’t Look Down
Ma dopo il nuovo bagno di popolarità di “Let’s Dance” e di un tour colossale (e memorabile) come il Serious Moonlight, Bowie deve affrontare il progressivo declino del decennio 80. Infatti il successivo “Tonight” delude un po' tutti, nonostante il successo del bel singolo “Loving The Alien”. Ma almeno Bowie lascia intuire il suo eclettismo estremo arrivando perfino a far pulsare di vibrazioni reggae questo brano scritto da Iggy Pop e dal suo ex-compare di Stooges James Williamson, per l’album solista dell’Iguana datato 1979, “New Values”. Quasi un divertissement vacanziero, questa “Don’t Look Down”, da cui traspare tutto il gusto della stramba alchimia. “Avevo voglia di tornare a lavorare con Iggy e lui con me”, spiegherà il dandy inglese mettendo le mani davanti ai fan, rimasti spiazzati da tanta temerarietà. Eppure, trattandosi di Bowie, dovevano essere abituati…
Zeroes
Non si esaurisce, però, la sua attitudine da showman globale che lo porta a imbastire show faraonici come il Glass Spider Tour, con tanto di trono allestito su un gigantesco ragno, in grado di radunare tre milioni di persone negli stadi in tutto il mondo, incluso storico passaggio allo stadio Flaminio al quale il sottoscritto ha avuto la fortuna di partecipare. A dominare quella scaletta live, però, erano sfortunatamente i brani di un altro disco deludente di quel periodo come “Never Let Me Down” (1987), in cui però salviamo questo incalzante numero rock dall’epica apertura melodica che sembra fare il verso a “Heroes”. E chissà a chi si riferiva il Duca Bianco cantando “Tonight, the Zeroes will be singing for you!”.
This Is Not America
Tanti anche i duetti storici di Bowie. E, anche se non è così sconosciuto, non poteva mancare in questa playlist quello preferito dal sottoscritto, che non è la celeberrima “Under Pressure” con Freddie Mercury e neanche l’altrettanto celebre “Dancing In The Streets” con Mick Jagger, bensì questo brano firmato assieme al compositore d’impronta jazz-fusion Pat Metheny per la colonna sonora del film “Il gioco del falco” (“The Falcon and the Snowman”) di John Schlesinger del 1985. “This Is Not America” è una splendida ballata in midtempo impreziosita dai ricami della chitarra elettrica di Metheny. La versione solo strumentale del pezzo, scritta dallo stesso Metheny e da Lyle Mays, intitolata “Chris” sarà inclusa anch'essa nella colonna sonora del film. “This Is Not America” aggiunge alla traccia base una drum machine e la voce di Bowie al canto. Metheny farà anche notare in seguito come il testo scritto da Bowie fosse “profondo e pregno di significati, assolutamente perfetto per il film”.
When The Wind Blows
Con le colonne sonore, del resto, Bowie ha sempre avuto un buon feeling, anche in un periodo non ispiratissimo della sua carriera come gli anni 80. Ci piace così ricordare anche questo brano inciso per la soundtrack del film di animazione “Quando soffia il vento” (“When the Wind Blows”), del 1986, diretto da Jimmy Murakami e tratto dall'omonima graphic novel del 1982 disegnata dal britannico Raymond Briggs (l’autore dell’epico “The Snowman” al quale Bowie aveva già regalato un’introduzione filmata). Interessante tutta la colonna sonora, con brani arrangiati da Roger Waters, Genesis, Squeeze e Paul Hardcastle, mentre la canzone dei titoli di testa, che porta il titolo del film, è proprio affidata al Duca Bianco e ricorda un po’ i suoni contemporanei dell’Iggy Pop di “Blah Blah Blah”, non a caso prodotto dallo stesso Bowie. Un pezzo nato da una collaborazione di Bowie col polistrumentista Erdal Kızılçay, per un’altra stentorea performance vocale del dandy londinese.
Pallas Athena
Con il tramonto del decennio 80, Bowie inizia anche a ritrovare la miglior ispirazione. Accantonata l’esperienza heavy con i Tin Machine, si getta infatti nel nuovo decennio con piglio diverso, ripresentandosi nel 1993 con un album innovativo che andrebbe rivalutato in toto come “Black Tie White Noise”, prodotto da Nile Rodgers e realizzato insieme all'omonimo trombettista Lester Bowie. Ispirato nel titolo dai disordini di Los Angeles del '92, che sollevarono la questione del razzismo nel sistema legale americano, è un disco che risente dell’euforia seguita al matrimonio di David con la splendida modella somala Iman (il 6 giugno 1992 a Firenze) e sfodera un sound ibrido, in cui house, jazz, rock e soul diventano le coordinate di un nuovo tentativo di definizione della danza moderna, come emerge in questa trascinante novelty da dancefloor d’ispirazione mitologica, della quale nel 1993 verranno messi in commercio anche alcuni remix anonimi nelle sale da ballo americane, ottenendo un notevole successo.
Buddha Of Suburbia
A metà degli anni Novanta il Duca Bianco si sente svincolato dall'ansia di sbancare le classifiche e si dedica alle più svariate attività, tra musica, cinema e arte. E che per Bowie sia una fase di risveglio creativo lo conferma anche “The Buddha Of Suburbia”, colonna sonora dell'omonimo film-tv, tratto dal romanzo dello scrittore anglo-pachistano Hanif Kureishi. Un’opera che non avrà alcuna fortuna commerciale anche per un conflitto con la casa discografica ma che lo stesso artista inglese considererà sempre tra i suoi lavori migliori, arrivando addirittura una volta a proclamarlo il suo album preferito. E polemicamente dirà “è stato considerato una colonna sonora e inadatto a procurare guadagni, un'autentica vergogna”. Nel disco Bowie offre anche una grande prova di sé come musicista, aiutato solo da Erdal Kizilcay (anch'egli polistrumentista), dal pianista Mike Garson (in due brani) e da Lenny Kravitz (nella versione alternativa della title track). “The Buddha Of Suburbia” sarà anche per Bowie l’occasione per tornare in qualche modo ad approfondire il suo interesse per il buddhismo, coltivato fin dagli anni 60, come testimoniato proprio da quella “Karma Man” con cui abbiamo aperto questa playlist.
No Control
Stavolta della ritrovata forma musicale del Duca Bianco si accorgono tutti. Nel 1995, infatti, esce quello che è forse il suo disco più ispirato dai tempi di “Scary Monsters”, per il quale torna anche a collaborare con Brian Eno. Il sontuoso “Outside” suona come una sintesi delle sperimentazioni elettroniche di Bowie, aggiornate ai suoni del nuovo decennio (soprattutto l'industrial dei Nine Inch Nails) e all'estetica cyber-punk. Lo spunto narrativo sono le indagini del detective Nathan Adler, della sezione Crimini Artistici, ambientati in un'ipotetica società di fine millennio. Al suo interno brillano hit come la title track, “Heart Filthy Lesson” o “Hallo Spaceboy” in compagnia dei Pet Shop Boys. Noi però siamo andati a ripescare una traccia meno nota ma tra le più suggestive del lotto, con i synth sfregiati dalla chitarra distorta di Reeves Gabrels e un cantato molto teatrale di Bowie. A proposito di questa “No Control”, Eno rivelerà nel suo diario: “Gran parte della traccia è stata eseguita in un'ora, inclusa la parte vocale di Bowie che mi ha impressionato, vederlo sintonizzarsi sul giusto equilibrio tra sincerità e parodia è stata una delle cose più affascinanti che abbia mai visto in uno studio”. Non male, se a dirlo è uno dei massimi produttori di sempre.
Telling Lies
Ma il motto di Bowie è – da sempre – “se una cosa funziona, buttala via”. Così, invece di cavalcare la nostalgia del passato, si tuffa in un nuovo universo sonoro, quello dei club underground, scandito dai ritmi frenetici della jungle e del drum'n'bass. La scommessa è azzardata, ma l'ex Duca Bianco la sfanga ancora, con il nuovo, preveggente album “Earthling”, anticipato – altra novità per l’epoca – da questo brano lanciato su Internet. L’elettrizzante “Telling Lies” vede le chitarre affilate (ancora di Gabrels) ingaggiare un furibondo corpo a corpo con una sezione ritmica basso/batteria che corre all'impazzata, su uno sfondo sintetico dove pullulano i campionamenti più disparati E il risultato è una centrifuga sonora che ubriaca e affascina.
Slow Burn
Raggiunta una nuova vetta espressiva con “Earthling”, Bowie attraverso un altro periodo meno ispirato: delude le attese “Hours” (1999), in cui torna a guardare al passato, tra ballate classiche e un po' nostalgiche. E non convince fino in fondo nemmeno “Heathen” in cui, tre anni dopo, cerca di recuperare un sound più robusto ed elettronico. Ma non è possibile restare insensibili al fascino 100% bowiano di questo singolo per il quale siamo disposti anche a fare una eccezione alla ratio di questa playlist – in fondo, trattasi pur sempre del singolo e del pezzo di maggior successo del disco – in nome del fatto che, nonostante ciò, resterà certamente tra i brani più sottovalutati del Duca Bianco, penalizzato anche da un complessivo calo d’interesse attorno alle gesta del musicista inglese all’inizio del nuovo millennio (ma durerà poco). “Slow Burn” è rock epico che “brucia lento” (nomen omen!), infiammato dalla chitarra di Pete Townshend (scusate se è poco!) e dalla ficcante linea di basso. E Bowie lo porta a casa da par suo, con un’altra magistrale interpretazione a tinte melodrammatiche.
Valentine’s Day
Il declino, però, sembra accentuato da un disco piatto come “Reality” (2003). Con l'età, arriva anche qualche acciacco: nel 2004 Bowie è costretto a un intervento chirurgico per un problema cardiocircolatorio che lo aveva colpito in tour. Da allora la sua carriera sembra bloccarsi: nessun concerto o disco, poche apparizioni in pubblico, finché, nel 2013, arriva la sorpresa. Per celebrare i suoi 66 anni, l’artista inglese, assieme al fido Visconti in cabina di regia, pubblica un nuovo disco, “The Next Day”, che conquista gli onori delle cronache soprattutto per la struggente rivisitazione dell’era berlinese di “Where Are We Now?”. Noi però abbiamo scelto questa delicata elegia del “Valentine’s Day”, in cui il Duca Bianco torna a essere pop recuperando in modo convinto il suo pathos più soavemente malinconico, all’interno di un disco che assomiglia a un compendio delle tante stagioni passate, scomposte e ricomposte e rimodellate a nuovo.
I Can't Give Everything Away
E tre anni dopo arriva “Blackstar”, il suo grande disco-epitaffio. Un testamento musicale che raggela, perché proprio poco dopo l’uscita del disco, il 10 gennaio 2016, giunge la notizia della morte di David Bowie, dopo 18 mesi di lotta contro il cancro. Lo ricorderà nel modo migliore l’amico Visconti: “La sua morte non è stata diversa dalla sua vita, un'opera d'arte. Ha fatto Blackstar per noi, come un regalo. È stato un uomo straordinario, pieno di amore e di vita. Sarà sempre con noi”. Ma se è vero, come scrivono Fred Frith e Howard Howe nel saggio "Art Into Pop", che “Bowie è una tela nera sulla quale la gente scrive i propri sogni”, non resterà che chiudere gli occhi per continuare a vivere sospesi per sempre nella sua polvere di stelle. E noi abbiamo voluto chiudere questa scaletta dedicata alla sua produzione meno conosciuta da riscoprire con questa elettronica e vellutata “I Can't Give Everything Away” che resterà l’ultima traccia dell’ultimo disco di David Bowie.
May God's love be with you.
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