OndaTop

Le 30 migliori canzoni dei R.E.M.

Un comunicato di poche righe. “Ai nostri fan e ai nostri amici: come Rem, come amici di una vita e co-cospiratori, abbiamo deciso di smettere di essere una band”. Il 21 settembre 2011 l’annuncio sul sito ufficiale del gruppo di Athens chiudeva il “cerchio perfetto” di una storia lunga 31 anni. Un’uscita di scena quasi in punta di piedi, per una delle band più importanti e amate del mondo. Cerchiamo allora di riannodare il filo della loro storia in questa playlist, che ripercorre tutte le fasi della loro carriera. Una progressione irrefrenabile. Proprio come quel Rapid Eye Movement foriero di sogni che ha regalato l’acronimo perfetto. Dall’era gloriosa delle college radio, che amplificarono il mito sotterraneo, al “diploma di laurea” di “Document”, che li avrebbe traghettati nel porto multimilionario delle major già dal successivo “Green”, fino all’epoca dei bestseller (“Out Of Time” e “Automatic For The People”) e di una maturità sorprendentemente vitale, culminata nell’epico e coraggioso “New Adventures In Hi-Fi”. Una corsa che sembrava essere giunta al capolinea con l’addio del batterista Bill Berry e che invece è proseguita anche “a tre zampe”, tra alti e bassi, fino alla tappa conclusiva di “Collapse Into Now”.
Qui sotto, dunque, le nostre 30 canzoni preferite – con commento per ognuna – e la relativa playlist. Sul nostro sito è presente anche un "anti-best dei Rem", con le chicche e le tracce meno note da riscoprire.

30. Supernatural Superserious
L’ultima accelerazione prima della tappa finale. Reduci dal flop di “Around The Sun” (appena 240.000 copie vendute negli Usa) i Rem non si danno per vinti: spingono sull’acceleratore, alzano il volume e rimettono a lucido le loro chitarre, come ai tempi di “Monster”, sfoderando il loro album più “tirato” dell’ultimo decennio. Un disco di sano rock senza fronzoli, secco e conciso (35 minuti in tutto), con le canzoni più fresche e briose composte da Stipe nell’era del “cane a tre zampe” (quella senza il buon Berry). Sintesi, è la nuova parola d’ordine. E il singolo di traino dell'album ritrova la freschezza perduta proprio con il minimo sindacale: i riff incandescenti di Buck, il ritmo trascinante e i puntuali cori di Mills. Registrato all'Olympia Theatre di Dublino e nato col nome di “Disguised”, il pezzo cambia titolo su suggerimento dell’amico Chris Martin dei Coldplay. Ne nasce un inno all’adolescenza più sgraziata e imbarazzante, con tutte le sue dolorose esperienze da affrontare ed esorcizzare.

29. Leaving New York
Dallo sfortunato “Around The Sun” salviamo però questa ballata tipicamente remmiana, che prende l’abbrivio tra i consueti carillon chitarristici e le cantilene modulate di Stipe, finché non giunge quel guizzo melodico del ritornello a restituirci, per un attimo, la magia perduta. Il testo è un atto d’amore per la città ancora ferita dai tragici fatti dell’11 Settembre, colorato da nuove riflessioni sulla solitudine e sul distacco. Una ballata confezionata con tutti i crismi, che si collocola nel filone nobile dei suoi innumerevoli predecessori (da “Everybody Hurts” a “Daysleeper”).

28. Oh My Heart
L’ultimo tuffo al cuore. “Collapse Into Now” chiude nel 2011 l’epopea dei georgiani. Un atto finale che si pone più che altro come una summa del repertorio remmiano, ma faticando a trovare una sua identità. Fa eccezione questa struggente ballata, una di quelle che i nostri non sbagliano mai. Con tanto di mandolino, fisarmonica e suggestiva intro di fiati. Aleggiano nostalgici aromi southern, reminiscenze di folk celtico e accenti gospel nell’epicità solenne del refrain, intonato in coro. “Una canzone molto tranquilla e meditativa, dedicata a New Orleans”, l’ha definita Stipe. E funziona, pur riportando alla mente la vecchia “Houston”. Un calco probabilmente consapevole (“Hear the song, rearranged”). Cambia, invece, il contesto politico attorno alla martoriata New Orleans: rispetto a quell’invettiva virulenta, i toni si sono ammorbiditi, ripiegando sulla malinconia di quegli alberi spettrali che cantano nella città fantasma, straziata dall’uragano. Sempre, però, con la speranza di una ricostruzione morale. Più che un inno politico, dunque, una commossa elegia a una città amata e sofferente, che cerca di rimettere insieme i suoi pezzi, il suo tessuto sociale e umano, prima ancora di quello economico.

27. Daysleeper
Incompreso all’epoca, rivalutato nel corso degli anni, “Up” (1998) è il primo disco dei Rem senza il batterista Bill Berry, spaventato dal malore subito sul palco di Losanna e stanco di recitare un ruolo da star che non gli si addiceva. Smarriti, Michael, Peter e Mike decidono di ricominciare da tre, perché “un cane a tre zampe è pur sempre un cane, deve solo imparare a camminare di nuovo”, come chioserà Stipe. Così drum machine, strati d’elettronica e artifici assortiti tentano di soppiantare ciò che è venuto meno. Anche tra i fan che faticheranno a ritrovare i “loro” Rem, aggrappandosi al solo instant classic, questa ballata in sei ottavi, con gli immancabili arpeggi fatati, l’interpretazione accorata di Stipe, il refrain che si apre radioso. Protagonista, un broker di Borsa alle prese con una vita fuori sincrono rispetto al resto dell’umanità: lavora di notte, mentre gli altri dormono, e riposa di giorno, coprendo il brusio del mondo con una “ocean machine”, una macchina che mima il rumore dell’oceano favorendo il riposo. Ma vivere controtempo è un’esperienza logorante, così il daysleeper, narcotizzato dalle luci e dalla caffeina, sfoga tutto il suo malessere (“I cried the other night/ I can’t even say why/ Fluorescent flat caffeine lights/ Its furious balancing”).Uno scampolo di vita appartata, isolata, in controtendenza. Un po’ come quella che da sempre conduce Michael Stipe.

26. Can't Get There From Here
A metà anni 80, i Rem sbarcano in Inghilterra ai Livingstone Studios, alla corte di Joe Boyd, deus ex machina dei primi Pink Floyd e di numi tutelari del folk britannico come Fairport Convention, Incredible String Band, Richard Thompson e Nick Drake. Ne scaturirà il loro Lp più bucolicamente integralista: “Fables Of The Reconstruction” (1985). Un ritorno alle radici. Quelle di un folk grezzo e rurale, che non ha confini. Che siano le lussureggianti praterie della Georgia o le brumose campagne d’Albione, il segreto è in quell’humus pastorale e misterioso, intriso di tradizione, nostalgia e onestà. Paradossalmente, è proprio lontano da casa che Stipe e compagni riscoprono la loro identità sudista, sfogliando un album di vecchie istantanee ingiallite e di campfire tales. Sono le favole della ricostruzione di un Sud lacerato dalla Guerra civile, che tenta di rialzarsi. In questo pastiche di stravaganze e visioni di southerness, Stipe trova posto anche per chi, alla sua terra, ha dedicato un celebre brano (“Georgia On My Mind”). “Can’t Get There From Here”, infatti, non è solo un divertissement ispirato a un modo di dire del Sud (“non puoi arrivarci da qui”), ma anche un omaggio a Ray Charles (citato due volte nel testo) e alla musica soul. Trombe e sassofoni, allora, entrano in scena, le chitarre si fanno quasi funk, in un audacissimo flirt con il jingle-jangle, mentre un basso saltellante e un drumming secco menano le danze. Un brano tutto giocato sul contrasto tra il controcanto (“Sono stato qui, conosco la strada”) e la replica di Stipe (“Da qui non ci puoi arrivare”). Uno Stipe mai così spavaldo, che tira fuori tutta la sua voce, spaziando dalla cupezza della strofa al falsetto dello strillo-ritornello.

25. Bang And Blame
Com’è noto, “Monster” è il disco che rialza i giri al sound dei Rem nel 1994, dopo le dolenti ballate di “Automatic For The People”. Un ritorno prepotente al rock, mai così rumoroso e distorto, in cui non c’è più traccia di quella serena e matura consapevolezza acquisita nei due album precedenti, ma solo l’istantanea di una nuova crisi di nervi, del crollo delle certezze di una generazione X allo sbando. È così una caracollante andatura reggae rock alla Police a sorreggere questa “Band And Blame”, con il basso di Mills a dettar legge e Buck a ricamare tremolanti accordi di chitarra sullo sfondo. Un brano esplosivo nel ritornello, ma malinconico al contempo, specie nel cantato desolato di Stipe, che narra il caso di una storia d’amore tormentata che degenera in possessività e aggressività, generando sconcerto e incomunicabilità. Lo spettro di una violenza domestica che aleggia attorno ai riff trascinanti.

24. All The Way To Reno
Non è stato un disco troppo fortunato, “Reveal” (2001). Se il suo sound torna a smussare gli angoli, facendosi più rotondo e orchestrale, non mancano gli spunti visionari e melodici, con uno sguardo rivolto agli sterminati paesaggi americani. Ma il vertice è, ancora una volta, una specialità della casa. Una classica ballata old-style, di quelle ariose e fatate che Stipe sa ancora pennellare con impareggiabile grazia. All The Way To Reno (You’re Gonna Be A Star). La strada obbligata per la celebrità passa per Reno, Nevada. Una starlet in erba che si incammina sul sentiero della fama, spazzando via lo scetticismo dei detrattori. Ma è un percorso disseminato di insidie. Specie se ci si lascia cullare troppo dai sogni. E allora può sorgere il sospetto di essersi spinti troppo in là. Un testo semplice, impreziosito però da una sontuosa cornice musicale: sognanti arpeggi di chitarre acustiche, delicate trame elettroniche intessute dalle tastiere, fiati e archi – egregiamente sintetizzati da Johnny Tate – che suggeriscono un senso di romantico abbandono.

23. Orange Crush
Green”. Il colore del movimento ecologista, cui i Rem aderiscono entusiasticamente, ma anche quello dei dollari. Un sardonico riferimento al mucchio di banconote appena piovuto su di loro? Fatto sta che, congedata la piccola Irs che li aveva visti crescere, Stipe & C. si concedono alla Warner. Con un contratto da capogiro: 10 milioni di dollari. Ma non vogliono calarsi le braghe e non rinunciano alle loro invettive politiche, come questa “Orange Crush” con la batteria di Berry - praticamente una raffica di mitra - che scaraventa dritti nell’inferno del Vietnam. Il buco nero della coscienza civile americana si tinge d’arancione, il colore dell’Agent Orange, il terribile composto chimico che disintegrava la vegetazione in modo da stanare i Vietcong. Un diserbante ancor più devastante del napalm, che lasciò danni irreparabili sulla natura di quei luoghi, finendo col contaminare gravemente anche le persone, sia tra i vietnamiti, sia tra i veterani di guerra statunitensi. Una fiera invettiva antimilitarista ed ecologista, che cela dettagli autobiografici: il padre di Michael, infatti, pilota di elicotteri, aveva forse partecipato a quelle incursioni, nel corso della famigerata operazione Ranch Hand. Rabbiosa e mortifera, dunque, con un sound veemente, scolpito dal drumming marziale e da un chitarrismo epico.

22. Leave
Le istantanee in bianco e nero di “New Adventures In Hi-Fi” (1996) segnano un’altra svolta nella carriera dei Rem. Il viaggio è l’escamotage letterario per raccontare vicende di (stra)ordinaria umanità, di nuovi perdenti e di vite al margine, sospese tra cupezze quotidiane e improvvise illuminazioni. E a conferma della natura sperimentale del disco, giunge anche la canzone più lunga dell’intero repertorio dei Rem. Negli oltre 7 minuti di “Leave” si susseguono spericolati colpi di scena: una trasognata intro acustica dopo un minuto si trasforma in un fulminante rock’n’roll, sfregiato da un’ossessiva sirena (mixata da Scott McCaughey tirando su la levetta delle ottave di un vecchio sintetizzatore Arp Odyssey) e da un nugolo di effetti elettronici, con Stipe che torna ad alzare la voce, condensando in un epico ritornello questa sorta di elegia sulla partenza e sui tormenti che l’accompagnano. Una riflessione sospesa nel dubbio, nell’incertezza di un distacco, di un nuovo percorso da intraprendere, che appare però l’unica via di scampo per inseguire i propri sogni. È il manifesto del disco, sia musicalmente, perché condensa le ricerche e le intuizioni sul sound – futurista, a dispetto della primitiva tecnologia utilizzata per le incisioni – sia concettualmente, perché ne esplora in profondità il tema dominante: il viaggio, la partenza, la ricerca di sé.

21. Find The River
Ecco il primo estratto dal monumentale “Automatic For The People” (1992), l’album più pensoso e funereo della band georgiana. Il ripiegamento verso il formato-ballata si compie definitivamente, all’insegna di un’austerità quasi da camera si sposa a solenni arrangiamenti orchestrali, firmati da John Paul Jones dei Led Zeppelin e Knox Chandler degli Psychedelic Furs. “Find The River” è quasi una serenata country alla Fred Neil. In punta di piano, con un coro solenne e il respiro della fisarmonica a donare profondità. La scomparsa di John Seawright, poeta di Athens, ispira un epitaffio acustico di palpitante intensità. Un inno alla bellezza e alla vita, dove la ricerca del fiume è l’ennesima metafora esistenziale e le suggestioni della natura si mescolano alla memoria e alle riflessioni. Un flusso di ricordi, colori, profumi (“di zenzero, limone o indaco… gambi di coriandolo e rose di fieno”). È la ricerca dell’infinito, quell’anelito eterno che spinge ogni individuo all’illuminazione spirituale. Un percorso ineluttabile, come quello del fiume verso l’Oceano.

20. Time After Time (Annelise)
Tutto il debito dei Rem verso i Velvet Underground saldato in un brano solo. Un raga esotico e orientaleggiante, denso di afrori psichedelici e di stravaganze assortite, dal suono particolarissimo delle chitarre in crescendo all’inaudito tappeto di percussioni, ottenuto dal produttore Mitch Easter battendo la gamba d’acciaio di una sedia a colpi di tubi di metallo.Tutta l’angoscia spiritata delle liturgie velvettiane è catturata nei tre minuti e mezzo di un pezzo tra i più eccentrici del repertorio dei georgiani, eppure così riconoscibile, con i vocalizzi e i grugniti inconfondibili di Stipe a dare forma a un’altra storia misteriosa. Non è dato sapere chi sia la Annelise del titolo, né quale sia il suo ruolo. Tutto quello che la band ha spiegato a proposito della storia è che prende spunto da una notte di bravate di Mike Mills a spasso per Athens in compagnia di due amiche, una delle quali sarebbe poi diventata la moglie di Buck. Ma non si tratta di Annelise... È uno di quei brani per i quali tanti fan rimpiangeranno a lungo i Rem dell’era indie. Geniale e lisergico, un puro esperimento di creatività, senza alcuna aspirazione commerciale. Per Easter, è la canzone più bella di “Reckoning”, il disco del 1984, registrato ai Reflection Sound Studios di Charlotte, North Carolina.

19. Radio Free Europe
La prima canzone pubblicata dai Rem. Un singolo, registrato in un garage di 7 metri quadrati (il “Drive in studio” di Mitch Easter) e stampato in mille copie da una minuscola indie label, la Hib-Tone. Diverrà in breve un culto sotterraneo attraverso il circuito delle college radio, gettando le basi per il debutto su Lp di “Murmur” (1983). Per Stipe e soci, i tempi sono maturi per il botto. E pazienza, allora, se il furgoncino Dodge li aveva abbandonati sul più bello. Quell’amato catorcio, ormai, non serviva più, perché ben altri viaggi li attendevano. “Radio Free Europe” apre l’album e traccia subito le coordinate di un suono che resterà inconfondibile per tutto il decennio: chitarre armoniche, un basso d’ascendenza wave, aggraziate linee melodiche e la splendida voce di Stipe a tratteggiare una storia misteriosa, resa ancor più intrigante dall’eco spettrale del coro, che le conferisce uno spiccato piglio innodico. La Radio Europa Libera è la stazione da cui gli americani diffondevano la loro propaganda nei paesi oltrecortina durante la Guerra Fredda. Persino il retro copertina del 45 giri, dove nessuno della band guarda verso l’obiettivo, eserciterà un’enorme influenza sull’immaginario delle indie-band a venire.

18. Everybody Hurts
L’abisso di dolore e desolazione del (già) funereo “Automatic For The People”. Le esili terzine del piano elettrico sorreggono una melodia robusta, intonata da Stipe con piglio da soulman e con la potenza lacerante di un lamento funebre, fino al culmine del pathos, con l’irruzione degli archi e della chitarra elettrica. Dal testo, però, trapela un messaggio di speranza, un invito a non mollare, di fronte alla sofferenza e alla disperazione che possono spingere anche a farla finita. Nato da uno spunto autobiografico (la storia di un’allieva quindicenne della sorella di Stipe che aveva tentato il suicidio), il brano riecheggia lo spirito di “Don’t Give Up”, il celebre duetto tra Peter Gabriel e Kate Bush del 1986, ma riporta alla mente – non si sa quanto consapevolmente – anche un altro celebre suicidio della storia del rock, quello inscenato da Ziggy Stardust in “Rock’n’Roll Suicide”. “Just turn on with me, and you’re not alone”, cantava Bowie. “No, no, no, you’re not alone” gli fa eco Stipe. Ma la grandeur di quell’inno glam è stemperata in un’austerità quasi cameristica. Tutto il dolore del mondo condensato in pochi, semplicissimi versi. Un testo di una semplicità disarmante, rispetto agli standard del primo Stipe, unito a una musica mai così zuccherosa, che declina tutte le convenzioni del pop melodico con l’estetica remmiana. Funzionerà, nonostante le insidie.

17. Maps And Legends
La prodezza nell’album ingiallito delle Favole della Ricostruzione. Stipe ripensa ai miti della Frontiera, alla letteratura del Sud. Il gotico sudista riaffiora mascherato da quell’assurda immagine surrealista con un orecchio di latta che il gruppo aveva scelto per la copertina. “Maps And Legends” è allora la cartografia di questo immaginario fantastico, popolato di improbabili eroi e magnifici loser. Un immaginario simile a quello rappresentato nell’iconografia folk georgiana del visionario reverendo Howard Finster, già autore della copertina di “Reckoning”, cui la band regala una dedica affettuosa (“He’s not to be reached, he’s to be reached/ Called the fool and the company”). Un’ode al genio incompreso di Finster, ma anche a tutti gli artisti vagabondi e disadattati di Athens. Musicalmente, è una classica struttura remmiana, dove, tra le consuete armonie vocali e i fraseggi chitarristici, fanno capolino gli archi, a suggerire tenui fragranze celtiche.

16. Pretty Persuasion
Una sezione ritmica tirata a lucido. Potente ed energica come non mai. È una macchina implacabile, quella che scandisce “Pretty Persuasion”. Un’altra ballata sì, ma carica d’adrenalina come una galoppata rock. Non a caso, era stata un cavallo di battaglia dei Rem nei primi concerti. Eppure, come racconterà il produttore Easter, non volevano decidersi a registrarla. Buon per noi che alla fine si siano convinti, perché trattasi di uno dei gioielli di “Reckoning”, con quelle chitarre squillanti e quel refrain conciso e irruento, a innervare liriche che tornano nel terreno dell’oscurità, puntando soprattutto su giochi di assonanza tra parole e musica. I suggestivi intrecci di voci tra Stipe e Mills richiamano invece The Mamas & The Papas, come lo stesso cantante ammetterà candidamente, precisando che però “mancava il tamburello” (!).

15. What’s The Frequency, Kenneth?
Monster” è la risposta a un periodo di lutti e profonde difficoltà dei Rem. Ne escono riattaccando la spina alle chitarre. E tirando fuori tutta la rabbia sopita in “una raccolta inquietante, che ti esplode dritta in faccia”, come la definirà Buck. Affogato in un nugolo di feedback e riverberi, con quel riff tagliente e quel ritornello ostinato che non lasciano scampo, “What’s The Frequency, Kenneth?”è il grido di battaglia di questo nuovo corso, acido e arrembante. Una storia di follia e violenza, celata, al solito, da un velo di nonsense. Lo spunto è un fatto realmente accaduto al celebre anchor-man della Cbs Dan Rather, che venne assalito a Manhattan da uno squilibrato che continuava a ripetere “Kenneth, what is the frequency?”. Fermato poco tempo dopo, l’aggressore, William Tager, spiegò di aver attaccato Rather perché convinto che i media lo stessero controllando tramite l’invio di segnali dentro la sua testa. Il brano, però, è tutt’altro che ilare. Come conferma anche la seconda strofa, che allude all’apatia della famigerata generazione X, coniata dall’omonimo romanzo di Douglas Coupland del 1991 e spesso accostata proprio al boom del grunge.

14. E-Bow The Letter
E alla fine il tanto atteso incontro si concretizzò. Michael Stipe divide finalmente il microfono con la sua musa di sempre, Patti Smith, in una ballata mesmerica e allucinata, definita sarcasticamente da Buck “una lagna folk-rock”, e che, nonostante ciò, diverrà a sorpresa il primo singolo estratto da “New Adventures in Hi-Fi”. Il titolo fa riferimento all’e-bow, quel particolare congegno che genera un campo magnetico e, messo a contatto con le corde della chitarra, permette di ottenere un sustain variabile e illimitato. Buck ne fa un uso sapiente, con avvolgenti code di chitarre che si incuneano in una nebulosa di mellotron, moog e sitar elettrificati. Un’atmosfera quasi art rock che ben si confà al magico intreccio delle due voci: dimessa e strascicata, quasi à-la Dylan, quella di Stipe, febbrile e spettrale quella della Smith. Una “lettera mai spedita”, scritta sul bus alle 4 del mattino, che si trasforma in un nuovo flusso di coscienza: Stipe si rivolge alla Smith, affidandole una sorta di controcanto. Il mantra di Michael prosegue come un torrente in piena, finché Patti giunge a unirsi a lui in un refrain da brividi.

13. Nightswimming
C’erano una volta, ad Athens, quattro ragazzi, un gruppo di amici e serate goliardiche, concluse con nuotate sotto le stelle, nelle acque placide del lago Ball Pump. Era il Perfect Circle dei tempi della giovinezza e dell’innocenza. Prima che gli spettri delle droghe e dell’Aids si allungassero su una generazione intera. A raccontarlo è questa ballata sospesa, di memorie e nostalgia: la notte quieta, illuminata solo da sparute luci di lampioni, le acque appena increspate del lago e quella vecchia foto sul cruscotto (“The photograph on the dashboard, taken years ago… The moon is low tonight”). Ma sono ricordi ingialliti, ormai, dal logorio dell’età adulta e di tutte le sue paure. Quanto costa mettersi alle spalle quei giorni di libertà e spensieratezza? Qual è il prezzo di una celebrità che ha stravolto per sempre abitudini e stili di vita? Una linea di piano ciclica, discendente, che ricorda proprio quella di “Perfect Circle”, è l’architrave di una ballata resa ancor più struggente dal distendersi soffuso e fremente degli archi e dall’interpretazione commossa di Stipe. Vogliamo ricordarli così, i quattro amici di Athens: felici ed emozionati, mentre nuotavano nel lago sotto la luna, ancora ignari del futuro luminoso che li attendeva.

12. Lotus
Se “Up” è da rivalutare (c’è chi lo definirà “Un ‘Automatic’ prodotto da Brian Eno negli anni 70”), è anche per merito di questo formidabile singolo. “Lotus” rinverdisce l’adrenalina di “Monster”, rispolverando vere parti di batteria e tirando a lucido la chitarra elettrica di Buck per nuovi riff aspri e sanguigni, con la voce di Stipe che si arrochisce, facendosi sempre più lasciva. Il dolce fiore di loto, secondo la mitologia greca, donava l’oblio delle cose. E non è difficile immaginare cosa Stipe volesse rimuovere dalla mente, dopo mesi di sofferenze e incertezze. Nel testo, che si snoda frammentariamente, tra nuove associazioni libere e immagini criptiche, mangiare il loto diviene quindi un’esperienza catartica, che lava i peccati come la pioggia e purifica la coscienza da tutte le colpe (“Dot dot dot and I feel fine”, canta Stipe, citando It's The End Of The World As We Know It). Un gigantesco loto lampeggiante sarà scelto come “quinta” del tour di “Up”, sul palco, alle spalle della band.

11. Perfect Circle
Tra i vertici del folgorante debutto “Murmur”, c’è questa ballata malinconica, che fisserà quasi un archetipo remmiano. Armonie dimesse e minimali, cullate dai rintocchi della tastiera. E un’esile filigrana di chitarra, suonata quasi come un mandolino, in mezzo ai colpi sconnessi delle percussioni. Una storia di amicizia, con ogni probabilità, dove il “cerchio perfetto” è proprio quello di ragazzi stretti da un forte vincolo di appartenenza. Il tono è quello dell’evocazione. Quasi un film, in cui scorrono veloci le immagini sgranate di ricordi, flashback di memorie appese al filo della nostalgia. A reggere il brano, dunque, è ancora una volta il pathos, il feeling, sublimato dai vocalizzi morbidi di Stipe e da quel fraseggio circolare di tastiera che richiama in musica il titolo, a mimare una sorta di trance ipnotica. Se il testo reca le stimmate dello stile-Stipe, la musica, composta alla tastiera, è in buona parte opera di Berry, elemento prezioso e troppo spesso sottovalutato della band. Un impasto perfetto che prende forma anche grazie a una stravagante trovata: una pista di chitarra alla rovescia e due pianoforti, uno dei quali scordato, che suonano la stessa parte.

10. So Fast, So Numb
Distorsori tiratissimi ed echi psichedelici venano un’altra magica dimostrazione d’arte povera remmiana. Bastano un riff incisivo e un’apertura melodica plasmata da Stipe nel refrain per incendiare il cuore di un brano che sale subito in cattedra come uno dei più trascinanti di “New Adventues In Hi-Fi”. Una nuova invocazione, rivolta direttamente in prima persona a un ragazzo (“motor boy”) che rischia di bruciare la propria vita. (“Anyone could scratch your surface now/ It’s all amphetamine/ You’re blasting yourself into the present/ To blur some past indignity”) Dall’allusione alle anfetamine alla necessità di rimuovere il passato, tutto lascia pensare a una nuova situazione al limite, che rischia di volgere in tragedia, come già accaduto agli amici Kurt Cobain e River Phoenix, compianti su “Monster”. È uno degli ultimi, grandi ruggiti dei Rem, racchiuso tra le pagine di questo diario di viaggio on the road, schizzato su un ideale bloc notes, con quei suoi paesaggi sonori stilizzati e quei suoi timbri sperimentali, proiettati in un futuro ipotetico che forse, per la band, non sarebbe mai arrivato. Perché “New Adventues In Hi-Fi” è anche, per certi versi, il canto del cigno dei Rem. Almeno di quelli originali, in formazione-tipo.

9. Talk About The Passion
Una canzone d’amore? Non proprio. La passione del titolo, infatti, è intesa nella sua accezione cristiana. Sofferenza ed estremo sacrificio, dunque. Come quello di Gesù, morto per la salvezza dell’umanità, ma anche come quello quotidianamente vissuto dai derelitti e dagli homeless ai bordi delle strade: saranno loro, infatti, i protagonisti dell’omonimo videoclip, girato da Jem Cohen in un bianco e nero di austera poeticità. Non c’è commiserazione, però, nelle parole di Stipe, bensì un atto d’accusa nei confronti di quelle “preghiere vuote” che riempiono le “bocche vuote” degli uomini. Vaniloqui sterili, che non aiutano a migliorare la condizione di chi non può più reggere sulle sue spalle il peso del mondo (“Not everyone can carry the weight of the world”). L’interpretazione accalorata del cantante contribuisce in modo determinante alla magia del brano, in cui spicca anche una parte di violoncello affidata a “una signora che suona in un’orchestra sinfonica e che pagammo 25 dollari”, secondo il racconto di Buck. “Talk About The Passion” è un archetipo della “Rem-ballad” da qui all’eternità: i muri di chitarre struggenti, il fascino immortale del jingle-jangle, le tessiture ritmico-melodiche velvettiane, il canto strascicato ma incredibilmente “musicale” di Stipe, gli stacchi di batteria, il battito in levare. Semplice e perfetta, nella sua elegante essenzialità.

8. So. Central Rain
Una devastante inondazione paralizza Athens, tagliando tutti i collegamenti. Da Los Angeles, dove la band aveva in programma un concerto, Peter Buck tenta invano di contattare la famiglia in Georgia, dopo l’alluvione. Da questo spunto reale nasce “So. Central Rain”, dove “So.” è la curiosa abbreviazione che sta per “Southern”. Un testo apparentemente tra i più piani composti dai Rem, anche se Stipe non rinuncia a usare una delle sue tipiche figure retoriche (“fiumi di suggestioni”) quasi a voler tracciare un parallelo tra la furia della natura e il flusso di pensieri angosciosi che attanaglia la mente di chi ha perso i contatti con i suoi familiari. È un nuovo saggio della capacità della band di pennellare melodie trasognate e malinconiche col minimo degli orpelli: un arpeggio folk bonsai a introdurre il lamento di Stipe, cadenzato sulle corde della chitarra di Buck, riff secchi e taglienti, fino al crescendo spettrale del finale. Il ritornello è un grido bruciante: “I’m sorry”, in cui Stipe condensa tutto il suo dolore. È il singolo e l’episodio più intenso di “Reckoning”, la prodezza di una band ancora giovane, ma che affronta ormai con disinvoltura temi come il dolore, il passaggio, la redenzione, senza smarrire un grammo della sua vibrante urgenza espressiva.

7. These Days
Sotto la sapiente guida di Don Gehman, nella tranquilla Bloomington, Indiana, i Rem tormentati del 1986 ritrovano armonia e buonumore. Il gusto per quella “commedia umana” che è la vita: “Lifes Rich Pageant”, titolo ispirato da una frase del film con Peter Sellers “Uno sparo nel buio”, tra i più riusciti capitoli della saga della Pantera Rosa. Nell’album, Gehman riesce a rendere il sound più corposo e orecchiabile, per poter far breccia nel pubblico. Con un drumming più possente e un organo a mantice a far da collante. E Stipe osa sempre di più. Se l’iniziale “Begin The Begin” è un incitamento a scrollarsi di dosso l’apatia, “These Days” va oltre, coinvolgendo la band in un inconsueto tentativo di instaurare un feedback diretto con il proprio pubblico. Un manifesto di speranza, in cui i Rem si immaginano di fronte a un crocevia morale, facendosi interpreti in prima persona di propositi e ambizioni generazionali. Anche se una simbiosi tra artista e pubblico è impossibile (“Now I’m not feeding off you”), per la prima volta i georgiani mostrano un approccio innodico: “We are young despite the years we are concern/ We are hope despite the times” (“Siamo giovani nonostante gli anni, siamo la preoccupazione/ Siamo la speranza, nonostante i tempi”). Stipe, dunque, si scopre sempre più interprete di un’ansia generazionale che lo accomuna alla indie nation, al suo stesso pubblico. Con parole che suonano sferzanti come non mai, enfatizzate da sonorità aggressive, che lambiscono la furia del punk. Un galoppo sferragliante, con Mills che trova modo di dar vita a un controcanto da epopee e polvere da sparo.

6. Texarkana
Ritorno al bivio tra gioia e malinconia. Ma anche un bivio reale, quello che divide due stati americani, il Texas e l’Arkansas. “Texarkana” ne è l’ideale contrazione (ma anche una reale città texana, alla frontiera tra i due stati). Un nome che evoca suggestioni desertiche e polverose. Come quelle di un lungo viaggio alla ricerca di qualcosa, o forse semplicemente di se stessi. Un viaggio che, per definizione, non può mai finire e che può essere letto come la più limpida metafora della condizione umana. Mike Mills rielabora un canovaccio originario abbozzato e mai completato da Stipe, e lo trasforma in una delle prodezze di “Out Of Time”. Una ballata western sognante e struggente, interpretata dallo stesso bassista con vibrante pathos, con le ventimila miglia iniziali che aumentano via via nel testo, fino a divenire trentamila e poi quarantamila, come “le stelle nella sera” (“40,000 stars in the evening”), le ragioni per vivere (“40,000 reasons for living”) o le lacrime negli occhi dell’amata (“40,000 tears in your eye”). Un viaggio esistenziale, dunque, che all’euforia del movimento unisce una riflessione tutt’altro che serena, con la consapevolezza di poter “cadere” da un momento all’altro. “Texarkana” è uno di quei gioielli d’arte povera che solo i Rem sanno confezionare. Basta pochissimo: un bel giro di basso, gli archi che spingono, i cori nostalgici nel bridge. Semplice e bella. Da togliere il fiato.

5. The One I Love
I colpi secchi della batteria, le frasi tempestose e metalliche della chitarra. E la voce di Michael Stipe più suadente che mai. Per i Rem è il momento della prima canzone d’amore. Una ballata perfetta, che lascia incantati per la sua grazia melodica e per la sua vibrante carica emotiva. Impossibile che non diventi una hit, la prima grande hit di Stipe e compagni, che varcano finalmente le soglie della Top Ten: un risultato clamoroso per una band del circuito indie. Eppure, non si tratta propriamente di una love song. È, semmai, una crudele riflessione su una relazione usa e getta. Dopo le prime due strofe, infatti, in cui per la prima volta i Rem citano la fatidica parola “love”, il terzo verso, rivelando la vera natura di quell’amore (un semplice passatempo), tradisce sarcasticamente ogni idea di sentimento. “È un tipo di canzone brutale e non so quanta gente ci capisce qualcosa”, rivelerà Stipe alla rivista Q. “The One I Love” è il biglietto per lo stardom, la canzone che trasforma i Rem da college-band in celebrità senza che loro se ne siano ancora accorti. Perché l’album in cui è contenuta, “Document”(1987), registrato a Nashville, suggella la fine dell’età dell’innocenza, non a caso sarà l’ultimo inciso per la Irs. Gli ex-squatter di Oconee Street diventeranno delle ricche rockstar, sul libro paga di una delle principali major del globo, la Warner Records. Un congedo vibrante da un mondo che si sta sfaldando e di cui Rem, idealmente, resteranno “quelli che ce l’hanno fatta”, mentre attorno a loro si bruceranno le carriere di innumerevoli compagni d’avventura.

4. Losing My Religion
Come nasce una hit immortale? Forse, basta davvero la melodia giusta, ben incorniciata dagli arrangiamenti. Poi, il resto aiuta. Incluso persino un testo universalmente equivocato. Perché “Losing My Religion” – come spiegherà Stipe – non ha niente a che fare con l’ateismo o la perdita della fede. È solo un’espressione idiomatica, in voga nel sud degli States, che sta all’incirca per “perdere la pazienza” o “non poterne più”. Nella circostanza, per colpa di una storia d’amore disperata e ossessiva. Stipe rielabora il filone della prediletta “Every Breath You Take” dei Police, per commentare una nuova patologia sentimentale, in cui si mescola anche la sua condizione di star “sotto i riflettori”. La malinconia del testo si sposa a meraviglia con una musica tra le più struggenti mai composte dai georgiani. Sospinta da un’ondata di archi (in questo caso sintetici) e da un ritmo incalzante, con il mandolino di Buck a intrecciarsi ai ricami dell’acustica di Holsapple, “Losing My Religion” si libra in una melodia avvolgente, che Stipe intona con piglio contrito e desolato. In attesa di un ritornello che non arriverà mai. È “la canzone” per definizione dei Rem, il trait d’union tra le loro origini “alternative” e il loro destino di rockstar, l’inno che – piaccia o no – li rappresenterà per sempre, con quel verso iniziale “life is bigger” che suona quasi come una profezia: proprio a partire da “Losing My Religion”, la vita dei Rem è diventata più grande. Sarà anche il loro 45 giri di maggior successo (n. 4 nelle chart Usa) e vincerà due Mtv Music Awards. Paradossale, per una band che, solo pochi anni prima, aveva dichiarato guerra ai videoclip.

3. Drive
A dispetto del giocoso titolo, ispirato dallo slogan di un ristorante soul food di Athens, “Automatic For The People” è - come si è visto - l’album più cupo dei georgiani. Così, se in passato a dare l’incipit ai dischi erano state quasi sempre song ritmate ed energiche, stavolta il registro cambia bruscamente, nel nitore spettrale degli arpeggi di “Drive”. Un solo di chitarra orchestrale che resterà nella leggenda e che nasce come omaggio a Brian May dei Queen: “Si tratta di una chitarra Les Paul collegata a un grande Marshall, sovraincisa sei volte e suonata con una monetina”, spiegherà Buck. Attorno a quello stratagemma si snoda una litania scarna e commovente, che Stipe declama con piglio fatalista, rifratto dall’eco, prima che una furiosa chitarra elettrica e una melodrammatica sezione d’archi prendano il sopravvento. “Drive” è l’archetipo di questo nuovo sound dei Rem, prevalentemente acustico, dimesso, quasi mai uptempo. Nel testo, invece, Stipe rivolge una nuova esortazione ai kids a non farsi ingannare dai politici, tracciando però un quadro non esattamente idilliaco della condizione giovanile, tra droghe e degrado. Con giochi di parole, come “bushwhacked”, che sta per “darsi alla macchia” ma si riferisce alle trappole dell’era Bush: “Stipe says: don’t get bushwhacked”, fu l’annuncio che il cantante fece pubblicare alla vigilia delle elezioni poi perse da Michael Dukakis nel 1988. Tre anni dopo, il verso sarà invece una sorta di auspicio fortunato per il trionfo di Bill Clinton, che riporterà i Democratici alla Casa Bianca dopo 12 anni. The Times They Are a-Changin’.

2. Fall On Me
A ricordarci ancora che i Rem restano sempre dei sontuosi balladeer, giunge il singolo-meraviglia di “Lifes Rich Pageant”. Ariosa e struggente, “Fall On Me” è una tipica ballata circolare che attinge tanto alla canzone degli anni 50, quanto ai languori psych-folk di Byrds e Crosby, Stills, Nash & Young, stupenda nel breve doppio arpeggio introduttivo ed esemplare nella crescente linearità del verso che incontra un commosso ritornello, con Mills che si produce in uno dei suoi magici contrappunti. Resterà una delle migliori melodie mai composte dai Rem. “È una canzone sull’oppressione, si può applicare a tutto ciò che si vuole”, spiega Stipe. Il testo procede ancora per accumulo di immagini, è allusivo, ma al contempo esplicito nel condannare le devastazioni ambientali, con un riferimento alle piogge acide che insanguinano il cielo. (“Buy the sky and sell the sky and bleed the sky and tell the sky”). Al tempo della demagogia reaganiana, di un’America del benessere che cresce a ritmi vorticosi verso il progresso, i Rem si fermano a contemplare la natura ferita da un’umanità cieca e senza scrupoli (“keep your conscience in the dark”). Un grido di dolore che tornerà anche nell’altro inno ecologista del disco, “Cuyahoga”.

1. World Leader Pretend
La prediletta di chi scrive, però, è la canzone che consacra i Rem aspiranti leader mondiali. Un’altra ballata struggente, che decolla sul fatato riff di tastiera di Mills, per aprirsi in un refrain tra i più potenti e toccanti del loro repertorio. Stipe aggiunge la ciliegina sulla torta, con una delle sue migliori interpretazioni: un cantato all’apparenza dimesso, colmo però di pathos e mestizia. Chi è l’aspirante padrone del mondo del titolo? Forse il leader di una delle superpotenze globali al tempo di una Guerra Fredda che sta per sfaldarsi insieme al Muro di Berlino. Ma è difficile non scorgere nel testo di Stipe – il primo a essere stampato ufficialmente su un disco dei Rem - la metafora autobiografica e autoironica del suo nuovo status di divo mondiale, conquistato anche a costo di qualche infingimento e artificiosità. Al tempo di "Green", Stipe vive un conflitto tra autoesaltazione e timore del suo pubblico, tra la (legittima) aspirazione a diventare una star e la paura di smarrire la propria identità. Ma questo percorso di autocoscienza si allarga fino ad abbracciare una visuale più ampia, con la consapevolezza della necessità per ognuno di abbattere il muro di cinismo che ostacola le relazioni umane. “È una canzone su una battaglia interiore. Non mia personale, ma di tutti. Parla di tutti i muri che una persona deve superare”, spiegherà. Una specie di catarsi e liberazione personale, insomma, che si sublima in una delle vette dei Rem, straordinariamente sentita e suggestiva. Per Stipe è al tempo stesso “la canzone più politica e più personale” che abbia mai scritto.