Nuova puntata, dedicata ai Pink Floyd e al loro monolite "The Wall", uno dei miti intramontabili della storia del rock. Per approfondire alcuni aspetti del disco, ho interpellato Carlo Massarini, conduttore televisivo e critico musicale.
Quarant'anni di “The Wall”. Cosa rappresentava quel muro allora e cosa rappresenta oggi, in un'epoca in cui alcuni muri sono caduti e altri ne vogliono costruire?
Lì erano gli incubi personali di Roger Waters che diventavano simbolo che raggiunge il punto più alto quando nel 1990 è portato in scena ad Alexanderplatz, di fronte al Muro di Berlino demolito appena un anno prima. Oggi i muri vengono eretti (o minacciati) per contenere, separare: è solo l’inizio dell’evoluzione della trama di Waters, chissà se il finale sarà altrettanto liberatorio, o solo una prosecuzione dell’incubo.
Il muro di Waters voleva anche esprimere l'incomunicabilità tra l'artista e il pubblico. Un muro che col passare del tempo si è arricchito nella testa del bassista, diventando emblema dell'alienazione a tutto tondo. Fu anche uno spartiacque nella storia dei Pink Floyd, finendo con il separare di fatto le strade del leader e del resto della band?
Lo spunto è proprio l’ultima tappa del tour precedente, quando Waters innervosito dalla caciara di alcuni spettatori in prima fila, sputa verso di loro e pensa che vorrebbe costruire un muro fra il palco e il pubblico. Due anni dopo, i rapporti erano ormai usurati, in parte anche per le difficoltà di realizzare un album di tal magnitudo. Paradossalmente, l’organista Wright, licenziato da Waters per poca collaborazione e assunto solo come musicista per il tour, dove non si parlavano più, fu l’unico a guadagnare. Lo show, per la sua grandiosità, perdette quasi mezzo milione di dollari (di allora). Inevitabilmente, è stato l’ultimo Lp di Waters con gli altri tre.
Lo show dal vivo e il film (ma direi anche la grafica, i video, il packaging) furono parte integrante del progetto. Fu una svolta anche questa nella storia della musica rock, un disco da leggere su più piani e più linguaggi, non solo musicali?
Sì, anche se non è stato il primo. Gli Who con "Tommy", dieci anni prima, e "Quadrophenia", avevano già declinato la storia su più medium: disco, teatro, cinema, colonna sonora ("The Wall" ha anche una versione operistica).
“The Wall” è in fondo la colonna sonora che ognuno di noi può adattare ai momenti più difficili della propria vita. Un'opera con diversi livelli di interpretazione dove ognuno è libero di spaziarvi in superficie o di penetrarvi in profondità, trovando nuove chiavi di lettura. È anche questo il segreto che lo ha reso sempre moderno e attuale in tutti questi anni?
Sì, rimangono leggendari l’impianto mastodontico dal vivo, che Waters adesso porta in tour solista (maggior incasso di sempre di un singolo performer), e la complessità della scrittura. Vi si intrecciano tanti temi diversi: la solitudine, la guerra (da sempre un tema fondamentale di Waters, il cui padre è morto nello sbarco alleato di Anzio), l’alienazione della star, la rigidità del sistema scolastico inglese, i sistemi totalitari. E, infine, la redenzione attraverso la presa di coscienza. E’ un disco molto visuale, che ripercorre un viaggio interiore paranoico e disperato, dentro e fuor di metafora.
Ad esempio, “Another Brick In The Wall”, che nasce come una canzone di protesta degli studenti contro i metodi oppressivi di insegnamento, divenne anche una colonna sonora delle proteste anti-apartheid. Cosa significò, anche musicalmente, quella hit nel percorso dei Pink Floyd?
È un unicum –per arrangiamenti, ritmo- della loro storia. Molto lontana dagli inizi psichedelici. Non volevano farla uscire a 45 giri, non con quella base simil-disco. Fu il produttore Bob Ezrin a imporsi, ed è stata una delle chiavi del successo dell’album. Il brano –col coro di bambini che incalza- ha un’efficacia pazzesca.
“The Wall” resta quasi l'ultima testimonianza di un'epoca d'oro del rock, quella degli anni 60-70. Perché dopo è diventato sempre più difficile realizzare concept album così ambiziosi e complessi?
Quelli erano gli anni dei “concept-album”, dischi con una trama e un pensiero unificante. Da “Sgt. Pepper’s” ai Pink Floyd è stata una stagione memorabile. Le rock operas non sono finite lì, ma ormai tutte le band che ne avevano i mezzi si erano già cimentate. È una buona idea, ma ambiziosa, complessa e perennemente a rischio di gigantismo e banalità insieme.
(Versione estesa di una intervista pubblicata sul quotidiano Leggo in occasione dei 40 anni di "The Wall", 25 novembre 2019)
Piper At The Gates Of Dawn (Emi/Capitol, 1967) | ||
A Saucerful Of Secrets (Emi/Capitol, 1968) | ||
More (Emi/Capitol, 1969) | ||
Ummagumma (Emi/Capitol, 1969) | ||
Atom Heart Mother (Emi/Capitol, 1970) | ||
Meddle (Emi/Capitol, 1971) | ||
Relics (anthology, Emi/Capitol, 1971) | ||
Obscured By Clouds (Emi/Capitol, 1972) | ||
The Dark Side of The Moon (Emi/Capitol, 1973) | ||
Wish You Were Here (Emi/Capitol, 1975) | ||
Animals (Emi/Capitol, 1977) | ||
The Wall (Emi/Capitol, 1979) | ||
The Final Cut (Emi/Capitol, 1983) | ||
A Momentary Lapse of Reason (Columbia, 1987) | ||
Delicate Sound of Thunder (live, Columbia, 1988) | ||
The Division Bell (Columbia, 1994) | ||
Pulse (live, Columbia, 1995) | ||
Is There Anybody Out There? (Emi, 2000) | ||
Echoes (antologia, Emi/Capitol, 2001) | ||
The Endless River (Parlophone, 2014) |
Scheda dei Pink Floyd | |
Sito ufficiale | |
Foto | |
Testi |