Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli
(Cantico dei Cantici)
In antropologia il grano rappresenta per tutte le culture l’alimento più simbolico, incardinato ai cicli di nascita, morte e risurrezione, ma anche a tutti gli archetipi della sessualità. Quest’ultima nelle culture popolari è allo stesso tempo forza generatrice e impulso all’annullamento del sé nella compenetrazione con l’altro, quindi peccato, forma di suicidio temporaneo e di sconvolgimento degli equilibri della persona. Eros e thanatos, dunque: esperienza della morte in un contesto di assoluto piacere, poi rinascita. Qualche prova. In Egitto Osiride era la divinità del raccolto e degli inferi insieme; il suo simbolo era la spiga di grano. Quando Osiride muore fatto a pezzi per invidia dal fratello Seth, la moglie e sorella Iside ritrova tutti i frammenti del cadavere, tranne il pene, che è stato mangiato da un pesce; dunque, si è ricongiunto alla natura per generare nuovo grano.
La spiga diventa dunque il simbolo del fallo di Osiride, della sua potenza generatrice che è prima morta, finita letteralmente in pasto ai pesci, poi ritornata in altra forma a produrre vita. La dea del grano nella mitologia greca era Persefone, latinamente detta Proserpina, colei che emerge, spunta, cresce. Colei che è grano. Anche in questo caso, però, Proserpina è contemporaneamente dea del grano e dea degli Inferi, anzi regina e sposa di Plutone, il re dell’Ade. La storia del ratto di Proserpina/Persefone era sui libri di scuola, soprattutto quelli di un tempo. Magari nelle nuove edizioni tornerà di moda, visti i tempi. La dea della terra, Cerere, partorisce per Giove Proserpina, Plutone si innamora della dea fanciulla, la rapisce e ottiene dalla madre terra, in un solenne passaggio di consegne da un ordine matriarcale a uno nuovo patriarcale, di tenerla con sé per una parte dell’anno. Nei mesi che ella trascorre con lo sposo e con le creature dell’Ade, fra eros e thanatos, insomma, sulla terra è notte, freddo, incubazione silente di vita. Poi Proserpina risorge, spunta da sottoterra e la sua morte ciclica diviene prosperità scandita, puntuale, conseguente al ritmo dei cicli di natura. Curiosamente non è diversa la mitologia legata all’altro cereale fondamentale per la sopravvivenza della specie umana: il riso. Nell’antropologia indiana, infatti, si attribuisce a Shiva la creazione di una vergine bellissima chiamata Retna Dumilla, cioè gioiello splendente. Una specie di Atena sbucata dalla testa di Zeus e come lei destinata a essere dedicataria di una festa del raccolto. Come Atena, Retna Dumilla doveva essere venuta fuori un tantino frigida, senza nulla togliere alla partenogenesi, cui comunque è dovuto il riconoscimento di primo modello di fecondazione assistita, in largo anticipo rispetto al metodo buona novella e della asportazione della costola, anch’esso caro all’immaginario del patriarcato cisgender. E così come Atena aveva rimbalzato in quattro mosse i tentativi di stupro del povero Efesto, ridottosi a venirle sulla coscia, anche Retna Dumilla non voleva saperne di Shiva, tanto che, quando gli dei le imposero di sposarlo, la dea accettò solo a patto che il promesso sposo impostole fosse in grado di inventarsi un cibo da consumare quotidianamente, senza che le venisse a noia. Siamo ancora in pieno matriarcato, ma ahimè è qui che avviene il passaggio di consegne. Shiva accetta la sfida gourmet, ma dopo aver tentato vanamente di trovare la ricetta per soddisfare l’incontentabile palato della ragazza, si stanca e la sposa di imperio. Lei ne muore, lui la seppellisce, pazzo d’amore. Ancora eros e thanatos. Ed ecco, puntuali, la fioritura e il ritorno alla vita, connessi al mito. Trascorsi 40 giorni (una quaresima praticamente) dalla morte della fanciulla, una nuova specie di pianta mai vista prima fa la sua comparsa sul terreno: il riso. Nelle piante risiede l’anima di Dumilla, esse sono un cibo, un “pane quotidiano” che non stanca mai il palato, la cui raccolta è disciplinata da sacerdoti (maschi), che conoscono tradizioni e preghiere dedicate all’anima di Dumilla, la cui morte per (non) amore generò una volta per tutte la vita. Tutte le culture del mondo presentano mitologie legate all’alimento principe e tutte insistono sulla necessità dell’alternanza di vita e morte. Con linguaggio graffiti pop il paradigma è ben sintetizzato nella cultura cristiana dal celebre assunto del “chicco di grano che rimane solo, se non muore nella terra e che, se muore, rinasce e dà frutto”.
La faccenda è solo apparentemente asessuata: l’atto del concepire, per l’uomo-Osiride-Shiva-Plutone-Adamo, è un po’ morire. La notizia felice è che trattasi di morte temporanea e che, se consideriamo il modello buona novella un esperimento giustamente irripetibile, il maschio-spiga-pannocchia ha il diritto/dovere di spassarsela con madre terra. Ora, è proprio in questa coincidenza di amore, morte, piacere sessuale e potenza generatrice che le culture del mondo, tutte o quasi, e in declinazioni meno differenti di quanto possa sembrare, hanno potuto trovare le basi per un immaginario che nel tempo si è sempre più radicato nei suoi esiti di psicologia individuale e collettiva. Non è nemmeno un caso che sulla centralità del mito del maschio fecondatore, ardente di scavarsi la fossa nei meandri accoglienti di madre terra, abbiano poggiato le propagande dei totalitarismi, che, nella loro prima fase di sviluppo, vantano tutti una retorica di immaginario contadino e cercano tutti di relegare la donna al ruolo di fattrice, in Italia addirittura con capacità giuridica ridotta. E così, mentre l’internazionale socialista più vicina al marxismo puro era cultura urbana, laica, sindacalizzata e volta all’emancipazione femminile, anche un po’ asessuata, salvo che non si voglia considerare sexy Anna Kuliscioff e non la si voglia immaginare a fare i numeri con Filippo Turati, noi ci preparavamo a seguire Benito per fienili e covoni, prima un po’ più laici, poi definitivamente armati di crocefissi. Assecondando l’immaginario contadino, con intento rassicuratore, i regimi totalitaristi risolvevano l’impasse innanzitutto culturale e lo sconcerto emotivo determinati dalla crisi economica fra le due guerre, riconvertendo in maschilismo contadino e imperialista il vulnus della trincea ancora bruciante ed aperto.
La cura per il malcontento popolare diveniva dunque produzione di consenso e consisteva in opere di bonifica, nella guerra parallela per i nuovi granai abissini (Mussolini a torso nudo fra i campi di grano, ancora prima che al balcone di Porta Venezia) nonché nel modello di femminilità succube previsto dalla negazione del suffragio universale femminile. Sullo sfondo gli occhi sempre devoti della povera Claretta Petacci, anch’ella a suo modo Proserpina, ma devota al Plutone sbagliato. Umberto Eco, nel suo scritto fondamentale sul fascismo eterno, o ur-fascismo, dice parole definitive e chiarissime sull’argomento: “La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione (…). Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. (…) Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito la rifiutano come negazione dei valori spirituali tradizionali. Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue e la terra “(blut und boden)”.
L’Italia è di suo terra di mezzo e crocevia di culture e suggestioni, capace di tradizioni, come di sintesi innovative, ribellioni, disobbedienze civili, pensieri deboli e pensieri divergenti. La storia culturale del nostro Paese, dati alla mano, ce lo indica però come il primo e più efficace laboratorio culturale di una retorica reazionaria incentrata sui miti della madre terra e del maschio inseminatore, conquistatore, soldato. A tali miti, pensatori di mediocre e raffazzonato talento come Julius Evola, o lo stesso D’Annunzio, associavano un disinvolto misticismo sincretico e pop, che traeva linfa da una lettura pruriginosa, quando non morbosa, comunque riduttiva, della sfera sessuale, banalizzazione dell’ancestrale binomio fra ciclo riproduttivo ed eros/thànatos.
Luglio 1965. L’Italia è nel pieno del disorientamento che così acutamente Fellini aveva preconizzato cinque anni prima; la dolcezza del vivere mostra crepe preoccupanti, mentre nuove istanze sociali innervano in lungo e in largo anche le frange più provinciali del paese, proprio grazie alla territorialità tipica del beat italiano come fenomeno sociale e musicale. È un’Italia in cui il crescente numero di separazioni (si superano le dieci migliaia) mette a dura prova il mito della salda famiglia (basti pensare a “Matrimonio all’italiana” di De Sica, già uscito un anno prima), in cui Pasolini ha rivelato aspetti sorprendenti dell’affettività nei suoi “Comizi d’amore”, in cui Oriana Fallaci si mostra in pubblico in canottiera, anticipando di buona misura l’eversione sessantottina, e in cui Milena Milani è ancora alle prese con una celebre causa per oltraggio al pudore. Economicamente si inceppa definitivamente qualcosa nell’ingranaggio apparentemente inarrestabile del boom economico: siamo molto più industrializzati di quanto potremmo permetterci e abbiamo un’agricoltura tra le meno produttive d’Europa, noi, nazione agricola che aveva guerreggiato per granai. Inoltre l’autostrada del Sole, appena inaugurata, sembra non congiungere davvero Nord e Sud (ma il ponte sullo stretto farà, certamente, il miracolo), né il traforo del Monte Bianco, anch’esso fresco di inaugurazione, ci unisce alla spigolosa Francia di De Gaulle. Infine, a livello internazionale, lo scoppio della guerra nel Vietnam e la morte di Churchill e Malcom X incidono su simboli e mondi, mentre in politica interna l’abolizione della mezzadria impatta in modo interlocutorio sul poroso tessuto sociale e produttivo d’Italia.
Nelle province del Nord Italia convivono oratori, capelloni, esperimenti di comune e messe beat; andando in giù per lo stivale i capelli si accorciano ma il vento della crisi, del cambiamento, della instabilità sociale e del relativo conservatorismo di reazione spira ovunque. E proprio di reazione conservatrice noi stiamo qui parlando, perché quella sul beat è un’altra storia, anch’essa peraltro da raccontare. Proprio nel 1965 viene promulgata una legge sul Cinema che taglia i fondi alle produzioni più disallineate e varata una sequenza di provvedimenti di tipo autoritario e censorio. In ambito di politica interna ha dimensioni importanti la recrudescenza del contrasto fra cattolicesimo e laicismo, morale tradizionalista e nuove istanze; la cultura popolare inevitabilmente ne risente. Allarmato, quando non dai fantasmi eversivi del beat, anche dalla semplice emergenza dei giovani come nuovi attori sociali protagonisti, l’uomo medio adulto cerca nella memoria e negli archetipi un momento di tregua alle proprie angosce. Il fantasma della guerra viene esorcizzato ne “Il silenzio” di Ninì Rosso.
Accade così che a partire dal maggio 1965 (in realtà il singolo era uscito l’anno precedente), a spopolare nelle classifiche sia una rielaborazione delle note del "silenzio" militare “fuori ordinanza”, mentre il milite ignoto torna a essere eroe nazional-popolare, che da una trincea ormai mitologica sussurra uno struggente "Buonanotte amore, buonanotte a te che sei lontana..." (il testo della cover di Dalida fu scritto interamente dopo). La guerra nel Vietnam era ormai realtà, ma il beatnik libro-Cuore di Lusini/Morandi, che amava i Beatles e i Rolling Stones, sarebbe maturato solo nel giro di un paio d’anni. Adesso il pacifismo era in filigrana, in una strana sovrapposizione, non sapremo mai se consapevole o inconscia, fra Saigon e Fiume, foreste pluviali e vittoria mutilata.Ma nell’Italia strapaesana dell’epoca accadde qualcosa di ancora più importante e per certi versi inedito, che ci riconduce direttamente alla mitologia agraria accennata sopra. Alla retorica del sacrificio per la Patria, nel luglio del 1965, si accostò improvvisamente quella della vita contadina, ovviamente colta nelle sue declinazioni fra erotismo, rito e collettività. Alla rassegna “Un disco per l’estate” (una sorta di creatura mista fra Sanremo e Festivalbar da cui all’epoca passavano tutti e che quindi faceva anche da talent) una giovane e promettente cantante calabrese della scuderia Rca, Louiselle (al secolo Maria Luisa Catricalà di Vallelonga, provincia di Vibo Valentia, ma adottiva dell’Isola d’Elba prima e di Roma poi) che aveva mancato il Festival di Sanremo di quell’anno per un pasticcio diplomatico Rca vs. Rai, si presenta con un brano folk dal titolo emblematico: “Andiamo a mietere il grano”. Al paesaggio urbano e disinibito, alla rappresentazione di una femminilità emancipata e in absentia del 1964 di “Una rotonda sul mare”, alle rimembranze lascive di “Un anno d’amore” e in genere di tutte le canzoni di Mina del periodo, subentra un generico arcaismo folk in 6/4, composto da Marcello Marrocchi (quello di “Perdere l’amore” di Ranieri, per intenderci), dal paroliere Carlo Rossi (anche in questo caso per intenderci, tutte le hit di Edoardo Vianello, “Cuore” e “La partita di pallone”, fra le altre, per Rita Pavone ecc.).
Il pezzo, come altri della produzione successiva di Louiselle è arrangiato, magistralmente, dal maestro Ennio Morricone che riesce a conferirgli una epicità corale, rurale, folk, regalando però modernità allo struggente storytelling in tonalità di Fa minore (amatissima da Morricone, peraltro), mediante un uso sapiente e tipicamente sixties della sezione ritmica e dei contrappunti corali e orchestrali.
Per rendersene conto bisogna riascoltare oggi il brano, cercando di spogliarlo di tutta l’allure nazional-popolare di cui si è caricato di decennio in decennio. La sua notorietà è infatti spesso di tradizione indiretta e ben poco ha a che fare con il cesello morriconiano dell’originale. Sicuramente a confinare nel repertorio del liscio “Andiamo a mietere il grano” non sono state le labbra del popolo cui era destinato. Di bocca in bocca, con quella trasversalità miracolosa che è propria di tutte le canzoni popolari, esso è stato work song, ninna nanna, invito alla camporella, drinking song, pretesto festoso. Potremmo quasi dire che la gran parte di coloro che hanno ascoltato, e a loro volta accennato, l’esortazione del ritornello non avevano forse mai sentito, o semplicemente non ricordavano più, l’originale. Ed è giusto così. Prova ne sia che nella classifica dei singoli più venduti dell’anno Ninì Rosso è al primo posto, Louiselle sta nel numero delle 80, come a dire che la gente si strimpellava la canzone, più che comprarsi il disco e anche questo fa parte del gioco. Le royalties del pezzo furono, e tutto sommato sono ancora, cospicue. A sporcare la genialità di Ennio Morricone, e a farne quasi perdere le tracce, saranno state quindi le tante versioni da balera, i karaoke, le sagre e i vari scempi, soprattutto involontari, cui sempre sono sottoposte tutte le musiche che si siano fatte strada nella memoria collettiva attraverso la loro cantabilità. La stessa mediterranea e strapaesana ingenuità, che è senza dubbio alcuno la ragione sufficiente del successo del brano, e su cui il fascismo aveva a suo tempo capitalizzato, appare, pur nella incertezza dei nostri tardi anni Sessanta, ormai al sicuro. Chissà oggi, ma allora sicuramente sì. La nobile tradizione della civiltà rurale, nonché della stessa provincia italiana è stata trovata talora inerme dalla Storia, ma nei versi di “Andiamo a mietere il grano”, così rappresentativi della provincia e della campagna italiana dei tardi 60, la troviamo in tutta la sua alta, dolente, imperturbabile, ma anche leggera, giocosa, autoironica identità.
Ci piace pensare ad “Andiamo a mietere il grano” come a una canzone, proprio nel suo riferimento all’archetipo rurale, squisitamente antifascista. L’immaginario è chiarissimo e non contiene in sé i germi della strumentalizzazione. Si va nei campi, si suda e si cerca un angolo di intimità, di oscurità, di morte apparente, dove ripararsi dalla luce abbacinante della quotidianità, per trascorrere dalla fatica all’eros e generare, rigenerare, rigenerarsi. Dopo la lezione amarissima di Fellini, dopo la sublime crudeltà di Antonioni e Tonino Guerra in “Deserto rosso”, mentre una marea montante di sollecitazioni premeva alle porte di una quiete appena ritrovata e prossima a rivelarsi illusoria, fu una lenitiva carezza sulle pene degli italiani il dolce canto di una ragazza meridionale tutta salute, che bilanciasse il dolore agli occhi, alla gola e ai capelli appena pronunciato da Monica Vitti.
Quel dolore era il nostro e il piombo lo avrebbe presto cesellato.Louiselle era bellissima, Carlo Rossi l’avrebbe presto sposata. I congiuntivi esortativi fioriscono magnificamente nella sua vocalità tutt’altro che perfetta, ma messa in scena da Morricone con una maestria senza pari: “Andiamo a mietere il grano/ il grano, il grano/ Raccoglieremo l'amore, l'amore, l'amore/ E sentiremo il calore dei raggi del sole su di noi”. Poi arriva la promessa, anzi l’offerta-premio. Inequivocabile. In questo senso diremmo anche che si gioca d’anticipo e in modo speculare, uguale e contrario, rispetto alla celentaneide Sanremo 1970 di “Chi non lavora non fa l’amore”. Ma in quel caso l’immaginario sarebbe stato urbano: il sindacato in conflitto con la donna, nume tutelare del focolare domestico, il caos della città in preda all’anomia e infine un padrone che deve concedere l’aumento di stipendio al subalterno, facendo di nuovo trionfare l’amore. Una logica tra Jannacci, Gaber e Dario Fo, solo molto più semplicistica. Ma il molleggiato è il molleggiato e quando canta lui le parole significano molto. Mentre nella celentaneide la donna è vestale in ambasce e Proserpina in sciopero contro gli scioperi, Louiselle non ha rivali fra i covili dove agisce. Nella quiete archetipica del suo mondo rurale il lavoro è determinato dal rito e il premio rientra nei cicli di natura. E tra le spighe dorate/ avrai la mia estate ed il mio cuor. Tutti i maschi eterosessuali d’Italia desiderarono l’estate di Louiselle quell’anno. E col tempo è pure diventata icona gay, soprattutto in Brasile, fatto abbastanza naturale per una regina della notte che si permette di condurre le danze, Proserpina non rapita, ma fautrice in prima persona del rito di accoppiamento: Quando la trebbia finita sarà/ e scenderà l'imbrunir/ nel casolare potremo tornar/ fino al ritorno del dì.
Nel luglio del 1965 non ero ancora nato. Ho ascoltato “Andiamo a mietere il grano” per la prima volta dalla voce di mia madre. Ricordo che stava scherzando, che era una sorta di parodia, non del brano, ma di una certa mia insistenza a dire “andiamo, andiamo”. Ho ritrovato la canzone attraverso dei percorsi da collezionista discografico, che può essere curioso ricostruire brevemente. Dopo l’exploit di “Andiamo a mietere il grano”, Louiselle (seguita da Orietta Berti, Gigliola Cinquetti, Rosanna Fratello, che ebbero tutte una loro fase di pop strapaesano) tentò di ripetere il colpaccio con esiti alterni dal punto di vista commerciale e con uno standard artistico che oscillava tra la riproposizione del cliché originario e altri tentativi più avventurosi, pur nella loro artigianalità (“La mia vita”, ancora arrangiata con Morricone, purtroppo resa faticosa dalla tonalità non proprio adatta, “Il Pontile”, “La scogliera”, “La Vigna”, “Cammelli e scorpioni”, e poi “Il cacciatore”, irrinunciabile per il situazionismo con doppi sensi del ritornello (“La colpa è del tordo che tarda/ è la cartuccia che non va”), fino ad arrivare alla svolta sexy (come si è visto non lontana dalle premesse) dell’album “40 minuti d’amore” (Erre, 1973).
Oltre a dividere con il marito Carlo Rossi il suo percorso artistico di interprete, la folksinger calabrese sostenne il marito come discografico nelle due avventure della Parade e della summenzionata Erre, due vuoti a perdere sostenuti nei costi sostanzialmente dalle royalties di “Andiamo a mietere il grano”. Per la seconda delle due case discografiche sono usciti alcuni dischi particolarmente interessanti, tanto dal punto di vista squisitamente artistico, quanto da quello eminentemente collezionistico: l’album di Francesca Bartoli (“Io sono una donna”, Erre, 1974), il primo album del gruppo progressive rock degli UT (“Homo”, Erre, 1974), un disco di library music ricercatissimo e molto molto intrigante come “Ispirazioni e circostanze” (Erre, 1974) inciso da due membri degli UT stessi, Franco Tallarita e Maurizio Tomassini, infine uno della stessa Louiselle, suonato ancora dagli UT e denominato semplicemente “Ispirazioni” (Erre, 1974). Dischi in alcuni casi incisi in fretta pe raggiungere il numero minimo di pubblicazioni necessario perché l’etichetta mandasse i suoi artisti alle rassegne canore, ma spesso suggestivi. L’ultimo, in particolare, contiene alcuni brani scritti dal cantautore cult Leone Tieri, che aveva inciso un unico disco, “Un fiore sulla mondezza” (Off/Produttori associati, 1970), tra i più preziosi tesori nascosti del cantautorato italiano, prima di partire per l’Australia, dove pare abbia lavorato come steward.
Un amico brasiliano mi ha aiutato nelle ricerche che sono servite per questo articolo e mi ha messo in contatto con il figlio di Louiselle e, tramite lui, con la cantante stessa, che vive serenamente tra Roma e luoghi più ameni, conserva gelosamente i master delle due etichette di Carlo Rossi, ma non è più di tanto incline a metterci le mani per agevolare le ristampe del caso. Qualche anno fa Carlo Conti la invitò in uno dei suoi show prime time, Louiselle mi ha detto che ci tornerebbe volentieri, ma che preferirebbe cantare qualcun altro dei suoi pezzi che non sia “Andiamo a mietere il grano”. “Poeta canta”, mi ha citato, un pezzo proprio di Leone Tieri, e “Milena”, una canzone scritta da lei stessa e tratta da “Ispirazioni”. Perché no? Sarebbe allora tempo di raccolto.