“Prendimi per mano Fausto ovunque andrai/ in cerca di silenzio e di visioni”: un incipit anomalo e coraggioso apre una delle pagine più memorabili della storia del rock italiano, “L’erba” di Fausto Rossi. Parole che possono suonare autoreferenziali, ma che a ben vedere forniscono da subito una chiave di lettura per l’album, in cui “l’artista precedentemente conosciuto come Faust’o” sembra per la prima volta volersi presentare pienamente come se stesso. Che Fausto Rossi avesse molto da dire è stato chiaro sin dal disco d’esordio, “Suicidio” (1978), per molti il suo capolavoro; ma una produzione a tratti invadente, ad opera di Alberto Radius, e il tentativo di creare un personaggio adatto alle scene musicali dell’epoca lo rendono meno personale e diretto, un limite che resterà nella produzione successiva, ad eccezione forse del solo album “Faust’o” (1983): dischi sempre eccellenti, ma a tratti derivativi e ammiccanti agli stili del momento (“Poco zucchero” e “J’accuse amore mio”), o frutto di esperimenti interessanti ma che esprimono solo in parte il suo potenziale (“Out now”, “Love story” e “Cambiano le cose”).
Nel 1995 l’Italia è attraversata da un ricco fermento musicale, le band indipendenti spuntano come funghi, esperienze come il Consorzio Produttori Indipendenti permettono a giovani musicisti di pubblicare album e fare tournée, e tra chi si affaccia per la prima volta sulle scene ci sono anche fan di Fausto della prima ora, quei ragazzi cresciuti anche ascoltando la sua musica: Manuel Agnelli e gli Afterhours, Fabrizio Tavernelli con gli Afa, o i Massimo Volume che hanno inciso una cover di un suo brano e hanno all’attivo un disco prodotto da lui. Musicalmente, per la prima volta Fausto e la sua epoca sembrano poter parlare la stessa lingua, e lui è pronto a farlo.
“L’erba” presenta quindi un Fausto Rossi più vero, diretto e autentico, nel pieno del suo potenziale artistico e creativo, sia per la musica che per le parole: in entrambe si sente che le influenze e gli interessi sono ormai elaborati e digeriti per generare qualcosa di nuovo e che non somiglia a nulla. Con una formazione e uno stile rock condito da diverse intrusioni al punto giusto di strumenti etnici, cupo con rari raggi di luce, paranoico quanto basta, “L’erba” è un album a suo modo mistico, liturgico, spirituale, ma a essere celebrata è esclusivamente la vita terrena, con le emozioni e le sensazioni che solo questa può dare: il sogno, l’amore, ma anche visioni e allucinazioni. Strumenti per allontanarsi da una realtà che opprime, ma anche per contrastarla, per vivere pienamente il corpo, che è sì “unico e mortale” ma anche “santo”, per quello che può dare in termini di emozioni e percezioni.
Non si tratta di un vero e proprio concept-album, ma i temi ricorrono più volte, anche con frasi reiterate nelle diverse canzoni: la santità dell’erba, del corpo, la sua mortalità, il sogno/visione/allucinazione, l’amore. La forma testuale preminente è l’enumerazione: “L’erba” racconta ciò che è “santo”, da non intendere nel senso religioso del termine ma per la funzione salvifica che può avere: “Santa è l'erba che apre dolcemente il cuore/ santo il Buddha che alza gli occhi al cielo/ santo anche il denaro nelle nostre vene/ santo il nostro corpo unico e mortale (…)”. Stessa formula ne “La scienza il progresso la nuova nobiltà” (.. non voglio polizia per le strade/ suoni gialli e azzurri giorno e notte/ che ricordano manicomi e obitori/ Non voglio un lavoro che è solitudine/miseria e povertà e avvelena la nostra vita”), e il gioco si ripete in “Perché il mio amore” e “Troppe canzoni”, dove le parole chiave della elencazione sono “Perché” e “Troppo”.
L’album si apre con la title track in cui una batteria quasi tribale, subito raggiunta dal basso, catapulta l’ascoltatore nel bel mezzo del vortice musicale. Ed è proprio così che si sviluppa “L’erba”, trascinando chi ascolta in un percorso testuale e sonoro breve ma di rara intensità. A farla da padrone sono basso (Franco Cristaldi), chitarra (Pierluigi Ferrari e lo stesso Fausto) e batteria (Ivan Ciccarelli) che sorreggono canzoni rock dalla struttura libera, lontane da formule come strofa/ritornello/strofa. Anche la voce appare più sincera e spontanea rispetto al passato. La chitarra elettrica spazia libera sui giri ipnotici e tesi della sezione ritmica, ma nel suo scorrere l’album apre anche ad atmosfere più rilassate, tra momenti blues, dilatazioni psichedeliche, elettronica. Alla formazione base del disco si aggiungono diversi ospiti che contribuiscono con sarangi, veena, shenai e altri strumenti etnici, molto ben integrati nel sound del gruppo e mai invadenti.
Tutt’altro che monolitico, “L’Erba” riversa in un solo album anni di passione e cultura musicale del suo autore, tuttavia riesce a rimanere sempre molto coerente fino alla chiusura, una cover di “Close Watch” di John Cale per voce, chitarra ed elettronica. Il suono si fa minimale, i toni più rilassati, come se il sacerdote laico volesse dirci “la messa è finita, andate in pace”. Forse proprio per scansare ogni dubbio, con una brevissima traccia fantasma, la sola voce di Fausto, in inglese, ci ribadisce che non crede nello spirito.
A quasi 30 anni dalla sua pubblicazione, “L’erba” resta un esempio di cantautorato rock indipendente perfetto per gli anni 90, che dovrebbe essere ricordato e celebrato a pieno titolo come una delle migliori produzioni dell’epoca. Stranamente, invece, Fausto Rossi viene citato come punto di riferimento da tanti musicisti di quella stagione, ma non è mai pienamente passato da oggetto di culto a oggetto di ascolto.