Jethro Tull

Stand Up, il trampolino per la gloria di Ian Anderson e compagni

Esistono fin troppi esempi di grandi album che, comparsi nella seconda metà degli anni 60, non hanno ricevuto un riscontro commerciale corrispondente ai propri meriti artistico-musicali. “Stand Up”, secondo 33 giri pubblicato dai Jethro Tull nel luglio 1969, fortunatamente non rientra in questa categoria. Il successo che ha ottenuto nel Regno Unito (primo posto) e negli Stati Uniti (ventesimo) costituisce il degno coronamento del notevole salto di qualità operato dalla band inglese subito dopo l’esordio avvenuto l’anno precedente (“This Was”, ottobre 1968).

Durante l’ultima parte del ’68, infatti, accadono tre significativi avvenimenti che preparano la strada alla registrazione di “Stand Up”, tenutasi poi nella primavera del 1969.
Il primo di essi è l’addio del chitarrista Mike Abrahams, il quale nel primo Lp contendeva la guida del gruppo a Ian Anderson. Sono dissidi di natura artistica, quelli che dividono i due musicisti, con Abrahams determinato a proseguire sulla strada del rock blues contenuto in “This Was” e Anderson impegnato a fare evolvere il suono dei Jethro Tull verso più articolate e ambiziose strutture compositive. Ciò causa un insanabile dissenso tra i due e la definitiva partenza di Abrahams nell’autunno ’68 (poco dopo l’uscita di “This Was”).
Contestualmente, si assiste all’emergere di Anderson come leader indiscusso della formazione. “Stand Up” sarà quindi essenzialmente una sua creazione, dalla scrittura dei brani fino al loro arrangiamento. Un disco che dà il via a un progetto artistico di lungo periodo definito da Anderson stesso e basato su una originale amalgama di rock blues e folk-rock, con l’aggiunta del genere progressive rock dagli anni 70 in poi. Questa strada sarà percorsa dai Jethro Tull, con alcuni cambiamenti nella line-up e nelle sfumature musicali, per più di trenta anni riscuotendo un rilevante riscontro internazionale.
Il secondo avvenimento è rappresentato dalla ricerca, subito dopo l’addio di Abrahams, di un nuovo chitarrista, compatibile con le idee di Anderson e con il percorso sonoro che il gruppo stava per intraprendere sotto la sua supervisione. Il primo tentativo coinvolge Tony Iommi che però ben presto si rivela inconciliabile in quanto a stile, attitudini e intenzioni. Egli, prima di fondare i Black Sabbath, ha però il tempo di partecipare insieme ai Jethro Tull alle riprese del “Rolling Stones Rock’n’Roll Circus” (dicembre ’68) dove viene eseguita una stupenda versione di “A Song For Jeffrey” (brano originariamente incluso nel primo Lp, “This Was”). La figura appropriata per ciò che Anderson aveva in mente arriva subito dopo: Martin Barre entra a fare parte dei Jethro Tull sul finire del ‘68, consapevole di svolgere un ruolo da gregario di alta qualità.
Il terzo e ultimo evento riguarda la repentina maturazione artistica di Anderson, tanto nella scrittura dei brani quanto nell’immaginare suggestivi arrangiamenti e nel portarli ad esecuzione, grazie alle sue doti di produttore e polistrumentista. Questa felice circostanza gli permette inoltre di elaborare un suono distintivo per i Jethro Tull, il quale supererà il disomogeneo (benché molto apprezzabile) esordio per trovare una maggiore coerenza sonora tra i solchi del vinile di “Stand Up”.
La concatenazione di questi tre eventi - l’uscita di Abrahams, l’entrata di Barre e l’esplodere della creatività di Anderson - conduce quindi, nel 1969, alla realizzazione del secondo episodio nella discografia della band inglese.

Jethro Tull - Stand Up


La continuità tra i dieci brani di “Stand Up” è garantita dalla nuova e prolifica vena compositiva di Ian Anderson (autore di tutte le tracce, voce solista, flauto traverso, chitarra acustica, organo Hammond, pianoforte, armonica, mandolino, balalaika) e dal controllo artistico da lui esercitato sul resto dei membri. Essi sono: Martin Barre (chitarra elettrica), Clive Bunker (batteria e percussioni) e Glenn Cornick (basso elettrico).
Ora libero da compromessi, il leader (ventiduenne) abbraccia con decisione il folk-rock reso famoso da numerosi cantautori e complessi inglesi e americani dalla metà degli anni 60 in avanti. Un genere che permette sia l’espressione di idee melodiche di stampo cantautorale che l’introduzione di particolari sonori accattivanti veicolati da strumenti inusuali. Anderson estrae l’essenza poetica di questo genere musicale, che nel ’69 era nato da soli quattro anni, valorizzandolo a partire dalla composizione tramite chitarra acustica e voce, proprio come avrebbe fatto un cantautore. Da questo processo creativo intimo e solitario scaturiscono gemme sonore che avrebbero fatto una magnifica figura anche nella scarna versione iniziale. “Look Into The Sun”, che costituisce l’episodio migliore dell’album, oppure “Reasons For Waiting”, dove non compare la batteria a testimonianza della natura cantautorale del pezzo, rappresentano al meglio l’ispirazione sfoggiata a inizio ’69 dal cantante e flautista dei Jethro Tull.
Coinvolgendo solo successivamente il resto della band, le canzoni assumono un aspetto gradevolmente eterogeneo dal punto di vista strumentale, grazie agli arrangiamenti che nella loro versione finale risultano arricchiti dal contributo dei tre ottimi musicisti che affiancano Anderson. L’unica eccezione a scelte altrimenti del tutto condivisibili è data dagli archi che sopraggiungono, eccessivamente affettati e stucchevoli in “Reasons For Waiting”, coprendo una parte della strumentazione e contraddicendo per qualche minuto lo spirito di un album altrimenti quasi perfetto.
Questa svolta cantautorale di Anderson è resa ancora più affascinante dalla direzione fortemente originale impressa a temi e arrangiamenti, i quali creano una atmosfera d'insieme a un tempo bucolica, sognante, assertiva e moderna.
Il disco si trova in questo modo suddiviso tra sette tracce folk-rock, le quali lo caratterizzano in maniera prevalente, e tre tracce ancora legate al rock blues del precedente Lp. Queste ultime (“A New Day Yesterday”, “Nothing is Easy” e “For A Thousand Mothers”) sono però vistosamente condizionate dalla inclinazione compositiva di Anderson, in questi tre casi proiettata verso le più complesse sonorità che si stavano facendo strada alla fine degli anni 60. A metà strada tra i due generi troviamo la sola eccezione di “Back To The Family”, nella quale al folk-rock di strofa e ritornello si contrappone, con uno stacco notevole effetto, l’intenso e aggressivo rock blues del middle eight (dal minuto 0.55 al minuto 1.33 e dal minuto 2.20 al minuto 2.56).

L’elemento musicale utilizzato dal leader della formazione per distinguere la band all’interno del panorama inglese e americano è sicuramente il flauto traverso. Pur essendo già presente nel primo lavoro dei Jethro Tull, questo antico strumento tipico della musica rinascimentale occidentale e, in seguito, della musica classica, proprio con questo album diviene centrale nell’organizzazione strutturale e sonora dei brani. Ben lontano dall’essere un espediente finalizzato ad attirare l’attenzione del pubblico o un abbellimento fine a sé stesso, il flauto traverso di Anderson trova in “Stand Up” la propria collocazione definitiva.
Il ruolo qui affidatogli è infatti quello di una terza chitarra, in aggiunta alla acustica dello stesso Anderson e alla elettrica di Barre, svolgendo una duplice funzione: talvolta ritmica e di accompagnamento (ad esempio, in “Fat Man”, dove guizza incessantemente entrando e uscendo dalle pieghe dell’arrangiamento) mentre in altri casi si comporta da chitarra solista (ad esempio, in “We Used To Know” dal minuto 1.07 al minuto 1.25, in “A New Day Yesterday” dal minuto 2.09 al minuto 2.42, o, a più riprese, in “Back To The Family”).
Dal 1969, questi assoli diverranno il punto focale e più atteso delle performance del gruppo, sia dal vivo che su vinile, per due motivi principali. Il primo è l’uscita, proprio grazie a questo Lp, del flauto traverso dal ruolo di mero elemento decorativo per quanto concerne la musica folk-rock, rock blues e, in senso più ampio, rock. La seconda motivazione che sta dietro alla popolarità conquistata dagli assoli di Ian Anderson al flauto traverso è la modalità con la quale egli sviluppa il loro appassionante percorso. L’attacco energico e vibrante delle note, sospinte con impeto dal fiato, distintamente udibile all’inizio di ogni frase, fa dell’impatto immediato il suo tratto distintivo. Inoltre, il vorticoso svolgersi di note che si comprimono per poi gettarsi avanti, tipiche del flautista dei Jethro Tull, porta con sé un nuovo linguaggio che accrescerà le possibilità espressive di diversi generi e musicisti.

Jethro Tull - Ian Anderson


Il suono del disco risulta quindi arricchito da nuove inflessioni, determinate da questa rivoluzionaria modalità di impiego del flauto traverso nella musica contemporanea. Esso, occupando uno spazio molto rilevante negli arrangiamenti e integrandovisi con naturalezza, porta il suo timbro, ora soave e fluido, ora tagliente e incisivo, all’attenzione del vasto pubblico inglese e americano. In aggiunta, una più che buona tecnica esecutiva, unita a una efficace ispirazione, permettono al flauto di Anderson di entrare nell’immaginario collettivo e di contrassegnare indelebilmente, da “Stand Up” in poi, la musica del gruppo.
A consacrare questa peculiare caratteristica strumentale è la traccia numero tre dell’Lp, “Bourée”, sviluppata da Anderson a partire da un tema del famoso compositore di musica classica barocca J.S. Bach. Probabilmente il pezzo più celebre mai pubblicato dai Jethro Tull, esso riprende la danza popolare francese (appunto chiamata bourrée, con due erre nella dicitura originale) che Bach rivisita in maniera colta all’inizio del 1700 per liuto (un lontano antenato della chitarra acustica). Qui il flauto traverso viene portato in primo piano sia nella dolce melodia principale, presa in prestito da Bach e dipanata all’inizio e alla fine del pezzo, che nella parte centrale del brano, più ritmata, celere e risoluta (dal minuto 1.17 al minuto 1.52), la quale è invece da attribuire interamente alla creatività di Anderson. Il folk-rock di “Bourée” è quasi interamente percorso dalle trascinanti evoluzioni del flauto traverso, sperimentali nella concezione ed estremamente coinvolgenti nella loro veste sonora esteriore. Non va dimenticato, però, l’ancoraggio ritmico del brano, dagli accenti vagamente jazz, dove la linea del basso elettrico introduce la fase iniziale e finale della canzone con un “walking bass” reminiscente del jazz hard bop e la batteria diversifica con estro lo shuffle di sottofondo. Il riuscito abbinamento tra musica classica barocca, incalzante folk-rock e retrogusto jazz, varrà a “Bourée” il lato A dell’unico singolo estratto da “Stand Up” (con lato B “Fat Man”), sfortunato dal punto di vista commerciale, ma molto interessante da quello artistico.

Come già accennato sopra, la capacità di Anderson come polistrumentista è messa in evidenza lungo tutte le tracce di “Stand Up”, illuminando sfaccettature variopinte e inaspettate. Dallo sfondo blues che l’armonica conferisce a “A New Day Yesterday”, fino al nostalgico pianoforte immerso nel riverbero che completa l’arrangiamento di “Look Into The Sun”, passando per l’affilato mandolino, tanto da assomigliare a un sitar, che segna in modo inconfondibile il suono di “Fat Man”: esempi di come il flautista sapesse tradurre la propria versatilità e curiosità musicali in elementi sonori stimolanti, snocciolati con gusto e senza riserve.
In questa categoria rientra anche la balalaika (uno strumento a corde tradizionale russo) amplificata da un pick up, le cui acute vibrazioni sono in un secondo tempo filtrate da un amplificatore Leslie (in grado di rendere i suoni più ampi e fluidi, come se le note venissero fuse, perdendo così i contorni nitidi che avevano originariamente). Il risultato è una liquida danza rinascimentale dal sapore esotico e nello stesso tempo antico, la quale scandisce il pattern ritmico e il riff di “Jeffrey Goes To Leicester Square”. Un esperimento sonoro audace, capace di stupire e di rendere piacevolmente inconsueto questo ottimo pezzo folk-rock. A terminare la eclettica lista di strumenti portati in dotazione dalla creatività del leader del gruppo inglese, citiamo le fluide onde pigramente sollevate dall’organo Hammond a comporre il sognante fondale di “Reasons For Waiting”.

Anche Bunker esce dai confini del suo strumento, la batteria, per inserire alcune percussioni in diverse canzoni dell’album: il glockenspiel in “Jeffrey Goes To Leicester Square” e le maracas, le clave, i campanelli da slitta in “Fat Man”. In entrambi i brani citati possiamo sentire anche i bongos e le congas, con le quali Bunker sostituisce la batteria in maniera fantasiosa e vivida.
Al di là delle percussioni, lo stile del batterista si afferma soprattutto nei tre rock blues dell’Lp: “A New Day Yesterday”, “Nothing Is Easy” e “For A Thousand Mothers”. In essi, il ritmo è gestito con impeto volitivo e irregolare veemenza, affondando su grancassa, tom tom e timpano per poi deflagrare con colpi esplosivi e fragorosi sul piatto crash.
Per quanto riguarda il basso elettrico di Cornick, la sua tecnica avvincente e decisa, quasi percussiva, è ben percepibile lungo l’intero disco, emergendo in tutta la sua efficacia nell’insistente e serrato riff portato avanti da solo in “For A Thousand Mothers” e nell’insolito ed elegante assolo jazzato che esegue in “Bourée” (dal minuto 1.51 al minuto 2.28). Per di più, in “Nothing Is Easy” (dal minuto 3.40 al minuto 3.51 e nella coda del brano) il bassista pone le pulsanti basi di figure ritmico-melodiche che richiamano il progressive rock e che la band recupererà in maniera più evidente e conosciuta due anni e mezzo dopo nell’album “Thick As A Brick”.

L’arrivo di Barre come chitarrista solista rappresenta il complemento ideale per il resto del gruppo, conferendo quella coesione sonora ricercata nell’esordio del ‘68 e qui raggiunta nella sua pienezza. Ciò è permesso dalle angolature rock che le corde del musicista svelano con una passione alternativamente delicata e aspra. In particolare, sono suoi alcuni degli assoli più emozionanti e incisivi del disco: dalle pennellate tenui e lievemente distorte dal pedale “wah wah” in “Look Into The Sun” all’affascinante esplosione di note che si allungano disperate in “We Used To Know”, ottenute ancora dall’uso dal pedale “wah wah”, questa volta messo al servizio di due prolungati assoli, profondamente sentiti, che rivelano l’influenza di Eric Clapton.
Inoltre, Barre interpreta con grande sensibilità la connessione necessaria tra gli slanci creativi e melodici di Anderson da un lato e lo scuro, compatto connubio generato da basso elettrico e batteria dall’altro. Le tessiture della sua chitarra elettrica, ora impalpabili ora graffianti, collegano con discrezione gli elementi che compongono gli arrangiamenti, facendo da retroterra ideale per il suono inconfondibile scaturito dalla visione artistica di Anderson. Da sottolineare la chitarra ritmica fortemente distorta che sostiene i cambi di ritmo in “Back To The Family” e “For A Thousand Mothers” con regolari cadenze di elettricità frammentata.

La voce solista di Anderson, non particolarmente tecnica, ma matura, profonda e messaggera di una evocativa malinconia cosparsa da una ironia dolceamara, punta con risolutezza sull’espressività vincendo nettamente la scommessa. Va rimarcata la linea vocale di “Look Into The Sun”, la quale, fluttuando poeticamente sulla splendida melodia, è increspata, quasi impercettibilmente, da un’emozione estatica e agrodolce. Oltre a trasportaci in atmosfere sospese e magiche (“Jeffrey Goes To Leicester Square”, “We Used To Know”, Back To The Family”) il canto che attraversa “Stand Up” ci riserva anche sorprese inaspettate di decisa intensità (“Nothing Is Easy”, “For A Thousand Mothers”).
Il cantante (autore di tutti i testi) racconta in questo disco tematiche alquanto varie, classificando i testi come complessivamente meno significativi rispetto alla musica contenuta nell’Lp. I soggetti maggiormente ricorrenti sono quelli dell’amore svanito e dei sentimenti contrastanti nei confronti della famiglia d’origine trattati con originalità dal leader del gruppo. Le parole di “Nothing Is Easy” e “We Used To Konw”, invece, risaltano nell’esortare l’ascoltatore a considerare i propri momenti bui come una fase transitoria comune a tutti, da superare con l’aiuto della musica e della tenacia personale.

“Stand Up”, con i suoi 38 minuti circa di durata, è stato oscurato nel corso dei decenni dalla meritata fama di “Aqualung”, pubblicato dai Jethro Tull un anno e otto mesi dopo. Malgrado questa circostanza, esso rimane un lavoro di grande qualità, il quale codifica definitivamente il suono che farà apprezzare i Jethro Tull in tutto il mondo. Un laboratorio nel quale la creatività di Anderson è affrancata da qualsiasi vincolo, manifestandosi in una serie di soluzioni compositive ed esecutive in grado di reggere il confronto (e spesso vincerlo) con altri album americani e inglesi di fine anni 60 ben più noti e celebrati.

 

P.S. L’edizione rimasterizzata su cd di “Stand Up” (2001) contiene anche quattro bonus track: i due singoli, con i rispettivi lati B, pubblicati sempre nel 1969, ma al di fuori dell’Lp. Essi sono “Living In The Past”/ “Driving Song”, che precede di qualche mese “Stand Up” e “Sweet Dream”/ “17”, che invece esce pochi mesi dopo l’album. Entrambi i quarantacinque giri si piazzano bene in classifica (terzo e settimo rispettivamente in Uk senza entrare nella classifica americana), tuttavia essi deludono le aspettative, attestandosi ben al di sotto della media qualitativa di “Stand Up”.

26/02/2025