Matthew Herbert

Matthew Herbert

Dinamiche della distruzione

La musica è morta. La musica è finita. Al suo capezzale, un suo rivoluzionario ripensamento. Con un sampler e un apporto di coscienza politica. Dalla musica concreta alla house music passando per il pop orchestrale, ripercorriamo l'ingarbugliata biografia del compositore e remixer più autorevole dell'elettronica contemporanea

di Roberto Rizzo

Where you point your microphone, that's the story you tell
(Herbert)

Registrare il suono di un libro.
Registrare il suono di un libro di Noam Chomsky.
Registrare il suono di un libro di Noam Chomsky che cade per terra.
L'intera esperienza di Matthew Herbert può essere riassunta in un unico sample. La sua dichiarazione d'intenti artistica, la metodologia del primo concretismo francese aggiornata alle istanze del dissenso post-globale, nelle cui estetiche pure si esprime.

Rinchiusa sommariamente nell'universo elettronico pre- e post-millennium, l'esperienza di Matthew Herbert si chiama da subito fuori in maniera incompromissoria dai giochi delle scatolette stilistiche coeve. Il suo metodo si schiude in un'arte eclettica e iper-consapevole che, indagando la musica nella sua globalità espressiva, le riconsegna alcuni tra i suoi significati perduti. Al “fare musica” la sua atrofizzata dimensione epistemologica, all'atto d'ascolto il suo aspetto più immediatamente e attivamente percettivo. Tutto ricongiunto in un'esperienza totale, ambigua, intellettuale ma che non dimentica affatto i piedi.
La peculiarità di Herbert è in fondo proprio in questo importante dettaglio: dissimulare dietro una forma musicale mai uguale a se stessa – una forma che ha somigliato di volta in volta alla techno-house, all'art-pop orchestrale, all'avanguardia concreta, senza tuttavia essere mai essere niente di tutto questo – un'ingente quantità di materia grigia e una militanza politica tra le più rigorose.
Tanto rigorosa che lo vedrà rinunciare sistematicamente a ingaggi pubblicitari a sei zeri e a festival-marchetta di primo piano.
La “cultura della guerra”, i diktat globali delle export processing zones, la spettacolarizzazione esasperata di ogni interstizio del vissuto. Troppo facile vomitarne il disgusto platealmente e costruirsi un'altra idolatria. Con la classe di un gentleman inglese d'altri tempi, Herbert sceglie una via più raffinata, che si riserva a ogni passo il privilegio dell'ambivalenza, nonché un'intelligenza analitica che non può non essergli riconosciuta anche quando il risultato artistico poteva essere controverso.
Proviamo a mettere insieme gli anelli della biografia del più brillante e autorevole pensatore del music making contemporaneo.

Music is over

Matthew Herbert"La musica è finita; la musica è morta. Naturalmente c'è sempre dell'ottima musica in giro, con ottimi musicisti ed esperienze. Ma in quanto forma, è finita, è solo un ingannare il tempo nell'attesa della prossima big thing. E sempre più musica oggi inizia a suonare conservatrice quando non del tutto stupida. Ed è una cosa incredibile, se pensi alla grande rivoluzione che ci ha investito: ovvero il fatto che puoi fare della musica da letteralmente qualunque cosa. E così tanta gente è ancora lì a imparare la chitarra e le drum machine. Ovviamente puoi ancora fare musica eccellente con una chitarra o una drum machine, mi ci cimento anche io. Ma appena lo faccio mi rendo conto di quanto sia prevedibile, insoddisfacente, privo di fantasia e pigro. E di come ci sia un'opzione ben più profonda davanti a noi. Ovvero che è possibile fare musica da letteralmente qualunque cosa”.
La congiuntura dell'universo herbertiano affonda evidentemente le sue radici da una parte nel controverso panorama politico degli scintillanti Ottanta, dall'altra nella biografia privata dell'autore. Figlio di un fonico della Bbc, Herbert cresce “circondato da microfoni, cavi, volumi di Marx e un piano”, familiarizza ben presto con le teorie di Pierre Schaeffer e sviluppa in maniera raffinata la sana e sempre più rara arte del guardarsi attorno, sonicamente e sociologicamente: è ancora un adolescente che si cimenta per la prima volta alla DX7 (tastiera di produzione Yamaha) e al registratore domestico del padre, con una progressiva inclinazione verso il secondo, surrogato dell'allora più costoso DAT, fino alla commercializzazione della macchina che più di tutte spalancherà il ventaglio di opzioni compositive attuabili – il sampler.
È in quegli stessi anni, inoltre, che si affermano i primi sintomi della global culture, Mtv, le catene di fastfood, la canonizzazione dei centri commerciali, l'universalizzazione dei gusti e delle forme, l'assestamento di skyline, geografie, corpi e cervelli.
Pur lontanissimo dai modelli espressivi del rock, Herbert matura un radicale rigetto della configurazione culturale in formazione e un senso di protesta tipicamente “punk” con pochi epigoni nelle scene elettroniche e sperimentali contemporanee.

L'idea, la cornice artistico-filosofica in cui si inserisce il tutto congiunge quindi le visioni dei due grandi Schaeffer alle due sponde dell'Atlantico: Pierre e Robert Murray. Il mondo come rumore e il rumore come strumento. Il mondo come composizione sonora, da riconoscere al livello dei sensi e da parteciparvi attivamente alla luce della consapevolezza acquisita.
È in quest'ottica che le strutture predeterminate, il culto delle drum machine, l'utilizzo di suoni stereotipati, quando non direttamente pre-programmati, perdono radicalmente di senso, vengono ridimensionati a sterili scorciatoie compositive e ottundimento della potenzialità creativa intrinseca all'atto d'ascolto. Di contro, l'errore, l'incidente, assurgono a mezzi privilegiati, ogni suono/rumore torna a vivere nella sua dimensione originaria di evento unico e irripetibile.
Un aneddoto assai emblematico vedrà Herbert nel mezzo di una live selection in un club da qualche parte in Germania. D'un tratto salta la corrente e l'intera selezione è costretta a essere cancellata. “It's life”, vaticizza il compositore, “makes me feel warm inside”.

Herbert muove tuttavia i primi passi nel music-biz in maniera discreta, col fare del riformatore piuttosto che del rivoluzionario. La prima metà dei Novanta, mentre completa gli studi di composizione elettro-acustica e lo si ritrova qua e là come tastierista in un complesso jazz, viene trascorsa prevalentemente nell'esplorazione delle possibilità della sintesi sonora, con un occhio di riguardo verso le sue applicazioni “popular”.
Fedele ai suoi caldeggiamenti black (tra i primi amori musicali dell'inglese ci sono infatti Marvin Gaye e la disco music), concentra soprattutto sulla scena house la sua attenzione, su tutte le scuole newyorkesi e chicagoane (l'ondata acid in particolare) ma anche sulle loro eccitanti influenze d'esportazione, che allo scadere degli Ottanta avevano sciolto un'ingessata Inghilterra nel delirio e(c)statico della “summer of love”.
Grazie quindi a una notevole spigliatezza con le macchine, che approccia con tocco personale e certosino, a una generale congiuntura favorevole – la house music come situazione sociale libera e indipendente - oltre che a un cognome tutt'altro che forestiero nell'ambiente, Herbert si guadagna in breve la fama di dj e remixer di prima scelta, pur rimanendo in territori ben lontani dai riflettori del genere.

Il suo primo lavoro, infatti, Letsallmakemistakes – Globus Mix n.5 (1995), raccolta ibrida di composizioni proprie e remix, riceve ben poca gloria al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori.
La compilation, inserita in una serie in sei volumi della Tresor, oggettivizza in maniera brillante le intenzioni del nostro, dissimulate dietro il paravento della dj selection.
Herbert assembla ventidue pezzi per oltre settanta minuti di accattivante e dinamico tappeto techno-house. Tra nomi di rango come Theo Parrish, Nightmare On Wax, Moloko (con l'ultra-classico “Sing It Back”), Isolée e Plastikman, affiorano svariati nick di dubbia provenienza: RadioBoy, Doctor Rockit, Wishmountain, Mr. Vertigo, Best Boy Electric, tutti alias che, come scopriremo a posteriori, riconducono a un unico artefice. Ovvero lo stesso Herbert. La raccolta fluisce in questo modo in maniera incredibilmente solida e unitaria, con i tocchi di Herbert in fase di missaggio, al di là di qualche mano di synth, a provenire esclusivamente da “errori” tecnici (con il lavoro superbo su “La Musica” di Hombre Ojo a candidarsi tranquillamente tra i remix più felici di sempre).
È ancora una volta un'esibizione live, quindi, a rivelarsi profetica: durante una memorabile performance festivaliera, Herbert raccoglie un pacchetto di patatine, lo stropiccia, lo squarcia, catturandone i suoni fino a comporre una traccia minimal-techno lasciando di stucco i presenti.

L'evoluzione del nostro prosegue proprio nel selciato di questa estetica electro progressivamente corrotta nella forma e nel contenuto. Assemblaggio di alcuni Ep rilasciati tra il 1995 e il 1996, 100Lbs è il magnifico sunto di tutto ciò. Herbert cestina in blocco le drum-machine e si affida esclusivamente ai sample, ai suoni registrati personalmente e ai cut-up vocali, incasellati nelle strutture tech-house di impronta minimale e solo sporadicamente irrobustite da iper-processate frasi di synth.
100Lbs fluisce per settanta minuti abbondanti senza sbavatura alcuna, attraversa stilisticamente i territori elettronici di marca tipicamente Novanta (praticamente tutto ciò che si situa tra house music e techno-ambient), con stringate melodie sintetiche e un'aura jazzy a riempire quest'improbabile pista “concreta” di una cianotica ma non meno affascinante apparenza di calore.
Se da un lato pezzi come “Thinking Of You”, “Resident” o l'appiccicoso synth di “Desire” riescono infatti nel voltafaccia di suonare alla perfezione semplicemente per quello che appaiono di essere, ovvero eccellenti e irresistibili riempipista, buona parte dell'album predilige soluzioni più astratte e spigolose, de-costruendo e mettendo in discussione gli stereotipi della cosiddetta “macho-music” (definizione herbertiana) dalle parti di un clubbing spastico e isolazionista. Con umiltà e una dose di ironia.
In ultima analisi, a respirarsi tra i solchi di 100Lbs è però anche una sensazione di generale positività e ottimismo. Come ammetterà lo stesso Herbert a posteriori, 100Lbs è in qualche modo un manifesto dei suoi tempi, della concretizzazione di una scena elettronica squisitamente europea, dell'euforico, per quanto provvisorio, sollievo di un'Inghilterra post-thatcheriana. Una positività liberatoria e genuina che in un certo senso non poteva non esprimersi in forme altre da questi pur ambigui upbeat techno-house, dall'innovativa tecnica compositiva qui sperimentata del londinese, dal suo evolversi in impennate trance (“100Lbs”) o simil-ambientali (“Deeper”, la lunga coda di “See You On Monday”).
Pur con lo scalpitare di una struttura che guardava già oltre, Herbert consegnava così la sua efficace e più brillante interpretazione dell'universo club-elettronico del tempo con il tocco della classe e la criticità dell'outsider.

Herbert approfondirà quindi le sue sperimentazioni sui sample concreti camuffandosi dietro altri nick, quasi a mantenere, almeno in questa fase, un distinguo tra i suoi lavori di impronta “popular” dagli excursus di carattere più avanguardistico.
Nel 1997 esce The Music Of Sound, lungo album a nome Doctor Rockit. Il disco nasce da una vasta mole di suoni catturati durante le tappe delle sue selection per i quattro angoli del globo.
Suoni provenienti da centri commerciali, aeroporti, sottopassaggi, bar affollati e oggetti vari vengono spezzettati e ricontestualizzati in strutture più rilassate rispetto ai beat di 100Lbs, fino ad ammiccare volutamente all'estetica del “chill out”.
Pur nella sua relativa asciuttezza e nell'esplorazione del micro-dettaglio, The Music Of Sound si mantiene sempre sulla soglia della piacevolezza d'ascolto, ambivalenza, questa, che inaugurerà una lunga tradizione nella discografia del compositore. Così, da cafè balcanici a commercial televisivi in pluridiffusione, da muzak da ascensori fino a isole asiatiche ad aria condizionata, si sviluppa la tragi-commedia dell'economia globale rampante e spettacolarizzata, il tutto adagiati sul tranquillante apparente di un gentile suono downtempo quando non addirittura “catchy” (le fioche melodie di “Runner On Hasting Beach” o “A Quiet Week In The House”, fino al siparietto jazz di “Fruit Cocktail”), con il serpente dell'auto-parodia sempre pronto a insinuarsi a un ascolto più attivo e analitico.
La macchina herbertiana si era così ufficialmente messa in moto, pronta a esprimersi da lì a pochissimo nel suo più florido potenziale.

L'ultimo beat


HerbertLa summa di questo primo stadio dell'Herbert-pensiero, volta a coniugare la sperimentazione sui sample con una morbidezza del suono vagamente riconducibile alle tendenze elettroniche del tempo, anticipandone al tempo stesso gli sviluppi immediatamente futuri, arriva pochi mesi dopo e si chiamerà Around The House.
Costruito su una mole abnorme di suoni catturati personalmente in ambienti “casalinghi” (posate, citofoni, spazzolini, bicchieri e lavandini gocciolanti), Around The House non sarebbe però quello che è senza un altro fondamentale prerequisito: Dani Siciliano.
Nata nelle periferie dell'Arizona e trasferitasi a San Francisco con il padre funzionario del Department Of Defense, Siciliano si stava al tempo costruendo una gavetta di jazz vocalist autodidatta, lavorando di giorno come domestica, di notte come dj nei club house cittadini.
È in un soggiorno americano degli Herbert, nel 1995, che l'insospettabile donna delle pulizie entra in contatto con Matthew. I due fanno amicizia e continuano a sentirsi finché Herbert non l'inviterà a Londra a provare a incidere qualcosa insieme. Di lì a poco si sarerebbero sposati.
È così che Around The House si carica di significati multipli a partire da quell'house nel titolo, ovvio riferimento di genere, tuttavia destrutturato e mutato di segno, neutrale intestazione dell'inventario di suoni utilizzati, indizio di ironiche coincidenze dal proprio vissuto.
"So Now” ci introduce al disco proprio con un eccellente flusso house, parente alla lontana delle tracce-killer di 100Lbs, in realtà dai contorni più morbidi e dall'andamento liquido, prediligendo un approccio decisamente più minimale (si inizierà a parlare infatti di micro-house) che esalta le forme sinuose di groove efficacissimi mai così in superficie. A completare l'amplesso, il velluto di Dani Siciliano, voce discreta ed elegante, di una sontuosità evanescente, come una una vecchia icona white soul reincarnatasi in gatta trip-hop sotto acidi, che Herbert riesce a centellinare con sapienza all'interno del disegno compositivo dell'album.
Tutto questo contribuisce alla vena spiccatamente soulful di Around The House e di buona parte delle uscite sotto il marchio Herbert a venire, infittendo quella vivida componente di umanità che distingue e rende letteralmente pulsanti tutte le produzioni dell'inglese.
Il contributo della Siciliano sembra però lasciare il segno anche nella varietà delle scelte stilistiche, non solo nell'impronta marcatamente jazz, direzione che Herbert aveva tentato fino a quel punto con una certa timidezza (“Mi sono convertito al sampler semplicemente perché in verità come compositore tradizionale ho sempre fatto abbastanza schifo”, dichiarerà con spirito) e che qui fiorisce per la prima volta in una straniante ballata pseudo-pianistica come “The Last Beat”, ma anche nei territori più apertamente sperimentali che trascendono ogni definizione di genere allora nota. È il caso di “This Time”, probabilmente tra i capolavori assoluti di Herbert, tech-house sottocutanea oppressa da un campionamento non meglio identificato, rallentato a mo' di loop ambientale, e i vocals di Dani Siciliano, un unico verso che prende forma da un cut-up sminuzzato per evolversi in una splendida per quanto breve apoteosi solo verso il finale.
Altre memorabili tracce, come la focosa “Going Round” e la lunghissima “We Still Have (The Music)” - forse l'unico momento davvero vicino a 100Lbs – riescono egregiamente nella loro parvenza di numeri da dancefloor d'alto borgo, celando tuttavia, appena sotto la crosta, le meccaniche di un operare macabramente agli antipodi, che dell'immaginario house progressivamente commercializzato si fa beffa al punto da rappresentarlo con l'ausilio della scandalosa banalità del rumore domestico.
"In The Kitchen” è proprio questo e tanto altro, pièce di dodici minuti costruita interamente sul campionamento di un lavandino che gocciola, che si evolve in progressione per diventare tappeto ritmico di indicibile malinconia su cui si alternano i suoni casalinghi più disparati, in una vera e propria elegia alla creatività dell'atto d'ascolto e dell'ascolto come comprensione globale.
Come a dire, house music ricondotta per la prima volta al suo inesplorato significato più letterale.
L'incredibile forza di Matthew Herbert in fondo si trova espressa proprio in questo doppio binario: nell'abilità quasi scientifica con cui riesce a comporre numeri perfettamente ballabili e mimetizzabili nelle selezioni house e techno moderatamente sperimentali del periodo, dall'altra nel sostrato intellettuale nascosto nella struttura stessa, occasione di ulteriori investigazioni simboliche e capovolgimenti di significato.
Anche in questo, Around The House è il definitivo punto di svolta nella biografia di Herbert, che imposta lo standard con cui sarà edificata gran parte delle sue produzioni pop-oriented successive.

Nello stesso anno, invece, Herbert riabilita il vecchio moniker di Wishmountain, con cui realizza gli album Wishmountain e Wishmountainisdead, lavori di carattere più apertamente concretista, che rimandano agli esperimenti coevi dei Matmos (probabilmente l'unico vero parallelo contemporaneo con il lavoro di Herbert, pur con degli importanti distinguo estetici e stilistici).
Con il nuovo millennio la missione herbertiana si fa ancora più complessa, affinando il duetto fisico-cerebrale delle composizioni prime per includere riflessioni di carattere più apertamente politico, nonché sul significato stesso del fare musica nelle dinamiche globali a velocità doppia 2.0.
"Fu quando iniziai a campionare i frappuccino di Starbucks e i burger di McDonald's che improvvisamente mi accorsi di come il semplice gesto di registrare un suono sia in realtà un potente atto politico. Di quanto poteva dire su tutte queste cose che non mi piacevano particolarmente e che stavano mutando il nostro panorama, le nostre menti, e le nostre storie. E quindi mi misi a fare dischi punk”.
Il 2001 è probabilmente l'anno (anti)globale per antonomasia. Chomsky e Naomi Klein sono le firme più lette e citate. Washington. Seattle. Genova. Afghanistan.
Herbert fa da inquietante eco artistica a tutto ciò, consegnando per altro alcune delle sue produzioni più conosciute di sempre.

Un'ulteriore trovata del genietto inglese merita a questo punto un'altra necessaria digressione.
Sul finire del 2000 Herbert pubblica quello che è noto come P.C.C.O.M., “Personal Contract for the Composition of Music [Incorporating Mistakes]”, sorta di manifesto rivolto prevalentemente a se stesso, che chiarisce gli imperativi e i tabù compositivi dell'Herbert-pensiero.
Tra i comandamenti si legge ad esempio che:
a) l'utilizzo di suoni già esistenti non è consentito: drum-machine, sintetizzatori, preset;
b) solo suoni generati all'inizio del processo compositivo, o presi dall'archivio personale dell'artista, possono essere oggetto di campionamenti;
c) il campionamento di musiche altrui è strettamente vietato;
d) inclusione, sviluppo, propagazione, esistenza, replica, riconoscimento, diritti, pattern e bellezza di ciò che è comunemente noto come “errore” viene incoraggiato;
e) tutti i parametri fx devono essere impostati; non sono ammesse impostazioni di fabbrica o modelli pre-programmati;
f) la lista dei suoni e degli apparecchi utilizzati deve essere resa pubblica.

HerbertIn questo spirito di istanze politiche mescolate a un disegno artistico preciso e severo, esce nel 2001 in download gratuito, a nome Radio Boy, The Mechanics Of Destruction, per certi versi il “disco punk” di Herbert, nonché il vero spartiacque nella sua discografia.
L'album è una raccolta di quindici tracce che passano in rassegna altrettanti, prodotti, simboli, vessilli, miti e promotori dell'economia globale. Da Gap a Starbucks, dall'industria hollywoodiana a Henry Kissinger, dal petrolio agli Ogm. Il disco si apre proprio con un vociare all'ingresso di un McDonald's giapponese prima che lo stesso si dissolva nell'asfissiante groviglio di suoni e ritmi da catena di montaggio ricavati esclusivamente dalle componenti di un “ big mac meal”. Herbert a questo turno non fa nulla per diluire la ricetta o riassemblarla in una forma più o meno digeribile: le tracce vengono lasciate consapevolmente a parlare nella loro crudezza e spigolosità, dalla risonanza di una lattina di Cola a una pagina del Sun che viene sgualcita (il pezzo è dedicato a Rupert Murdoch...) fino a voci di proteste londinesi contro gli sfruttamenti in Rwanda. I rumori-suoni vengono sviscerati e rimontati a mo' di improvvisate danze macabre post-globali, senza intercessioni tra l'oggetto di provenienza e l'ascoltatore, che in questo asfissiante spettacolo è costretto a una presa di coscienza e a un ripensamento del rapporto a tre fra sé, il suo universo acustico e le implicazioni simboliche e politiche.
The Mechanics Of Destruction era così la prima e forse più plateale opera apertamente provocatoria – in tutte le accezioni del termine – del musicista inglese. Solo la prima, però, di una lunga serie.

Sempre nel 2001 Herbert collabora con Björk e i Matmos per l'album “Vespertine”. Il featuring, come da tradizione per ogni co-firmatario delle opere della star islandese, benedice Herbert con un inedito bonus di visibilità che gli garantisce notorietà e un certo seguito in ambienti tipicamente indie per almeno tutto il lustro a venire. In quest'occasione, inoltre, Herbert consolida l'amicizia con la coppia di San Francisco, mettendo una pezza, a suo modo, contro la tendenza “fatalmente individualista e isolazionista” dell'elettronica contemporanea, rinnovando un rapporto di mutua stima che sarebbe culminato ben presto in una collaborazione sui generis.

È proprio dalle session di “A Chance To Cut Is A Chance To Cure”, album dei Matmos che esce nello stresso anno, che scaturisce il sodalizio che sarebbe sfociato poi nel di poco successivo Bodily Functions.
Herbert convoca Schmidt e Daniel con in mente un progetto simile nel contenuto al tema di “A Chance To Cut” (la chirurgia, l'esplorazione dei suoni corporali e il loro sdoganamento come referenza artistica popular) ma dalla forma e dai rimandi estremamente più complessi. I tre così mettono assieme un ingente database di suoni e frammenti provenienti da sale operatorie, ecografie, esami del sangue, liposuzioni, chirurgie plastiche, liquidi biologici, materiale organico e artiglieria medica assortita, alcuni dei quali donati da amici e seguaci. Distanziandosi però dal lavoro dei Matmos, più didattico e “chirurgico” nel privilegiare la provenienza come fattore interpretativo, pur con il loro tipico approccio semi-serio, Herbert si pone il cruccio ulteriore di montare il tutto in modo da rendere ambigua la formula in una salsa pop-friendly il cui livello concettuale sarebbe rimasto solo una minacciosa possibilità esegetica tra tante.
Sul piano stilistico, così, Bodily Functions edifica sulle coordinate già note con Around The House – il jazz, i vocals, l'house music – estremizzandone ulterioriormente i toni nelle direzioni impostate: mentre le impalcature house si fanno più introverse fino a destrutturarsi definitivamente (rimangono solo i beat solidi di “It's Only”, del singolo “Tha Audience” e gli ammiccamenti garage di “You Saw It All”), la componente organica prende sempre più piede, arricchendosi di piano Rhodes, ottoni e percussioni, fino ad avvolgere l'ascolto in una alienata e stilosa forma di elevator music.
La voce di Dani Siciliano, per quanto i crediti vocali si allarghino anche a Luca Santucci e Shingai Shoniwa, è qui quantomai centrale. Più indipendenti e personali, i contributi della signora Herbert partecipano in maniera funzionale, incastrandosi in maniera perfetta nella dimensione simil-lounge del disco, concorrendo al tempo stesso, in fase lirica, a tenere il gioco di doppisensi con risultati squisitamente perversi. Ciascun testo, infatti, oscilla con disinvoltura in un una moltitudine di interpretazioni, presentando Bodily Functions, a un livello superficiale, come la tipica minestra sui tormenti amorosi e sensuali, mentre a un livello appena più analitico come un grottesco poema in stanze di una paziente sotto i ferri al suo chirurgo estetico.
Ancora più a fondo, infine, si scorge il più nascosto degli strati interpretativi, quello ancorato alle referenze dei sample, reso ancora più impenetrabile dalla volontà di Herbert di tenere occulto il contesto di buona parte dei campionamenti.
Basta tuttavia la pietrificante intro di “You're Unknown To Me” a rendere una vaga idea di tutto ciò: una serenata elettro-pianistica a un amore platonico lontano e immaginato. Se la curiosa metafora chirurgica vede la Siciliano sdraiata titubante su un lettino da clinica, osservata da un bisturi, spostando il focus su quello che sembrava essere un innocuo schioccare di dita, alla luce dei credits, ci accorgiamo invece essere il suono di un'ecografia di un feto in rischio d'aborto. Ecco allora che quel misterioso sconosciuto del titolo si inverte drasticamente di segno.
Su questi toni scorrono le quattordici tracce di un album che anche musicalmente comunica efficacemente su più livelli. Difficile resistere al movimento tech-house notturno di “It's Only”, con una Siciliano miele e tacchi a spillo alle prese con un'improbabile torch song dai contorni noir (più o meno come l'erotico thriller del videoclip) o alle conturbanti pose à-la Moloko di “Leave Me Now”, difficile non sciogliersi con “Suddenly”, pop jazzato marciante a un battito ambient-house, e avvolta in una leggera estasi anestetizzata (“So suddenly / These creases are folding in and up/ And closing/ Suddenly I'm free to fall/ Far away from it all/ But i can't move at all”), quasi impossibile non applaudire al predominio insuperato di un brano come “The Audience”, saggio micro-house a tocchi Rhodes e un magistrale ed elegantissimo duetto pan-lesbo di Siciliano e Shoniwa, probabilmente tra i momenti più alti in assoluto del genere.

Uscito sulla quotata !K7 e ben accolto su più fronti (i video finiscono paradossalmente negli airplay di Mtv...), Bodily Functions resta il disco più atipico e accattivante che l'elettronica contemporanea abbia conosciuto, girone di enigmi e profondità difficilmente replicabile e che consegna Herbert non solo come maestro incontrastato del sampling ma anche come compositore postmoderno autorevole e dalle molteplici potenzialità trasverali.

Mentre esce così l'ottima raccolta Secondhand Sounds (2002) che celebra l'attività di Herbert come blasonato remixer “d'avanguardia” (tra i numeri vecchi e nuovi: Motorbass, Mono, Nils Petter Molvaer, Moloko, fino a “Bonnie & Clyde” di Serge Gainsbourg), gli sforzi del nostro si dirigono proprio verso la composizione strumentale e le possibilità di un'integrazione convincente nel suo universo sonoro-concettuale.
Per l'occasione, così, mette su l'ensemble-fantoccio The Matthew Herbert Big Band e, ad ulteriore segnale di un'emancipazione definitiva da ogni costrizione discografica e di genere, fonda una propria label, la Accidental Records, presso cui comparirà la quasi totalità dei suoi lavori d'ora in avanti.

Goodbye Swingtime (2003) sarà il prodotto immediato di tutto questo. Incentrato su una più precisa – e acuta – dimensione politica (la propaganda di stato, gli interventi militari in Afghanistan e Iraq, le “armi” di comunicazione di massa), Matthew Herbert realizza forse il suo primo vero e proprio album totalmente estraneo a una qualunque forma stilistica nota: non è più una declinazione house, né cocktail music da lounge cafè, né cool-jazz tout court. Gli spunti qui si moltiplicano in una serie di modelli alternativamente familiari, ma che nell'inclusione confluiscono in una forma inusuale e destabilizzante. Un retrofuturismo temporalmente sfasato. Un'avanguardia pop marciante a passo di swing verso un viaggio al termine della civiltà.
La band formata da Herbert per l'occasione ha effettivamente del “big”: Arto Lindsay compare alla voce per “Fiction”, un ancora semi-sconosciuto Jamie Lidell fa da crooner d'eccezione su tre dei dieci pezzi, l'amico Pete Wright (già presente in un paio di cameo su Bodily Functions) co-scrive gli arrangiamenti dei fiati mentre Shoniwa e l'irrinunciabile Dani Siciliano vengono confermate vocalist-cabarettiste su questo distopico Titanic post-moderno.
La scelta e l'uso del sample è ancora una volta centrale nel veicolare il significato del disco: le pagine del libro sfogliato in “Turning Pages” sono quelle di “Rogue States” di Chomsky, i click di “The Three Ws” - con una languidissima Siciliano – sono i rumori di tastiera e stampante nel consultare il sito dello School of Americas Watch (società che monitora gli abusi dell'"Istituto Dell'Emisfero Occidentale Per La Cooperazione Alla Sicurezza", e che ha evidenziato i legami tra il governo federale e le dittature latino-americane), la selva ritmica di “Misprints” è un insieme di campionamenti di giornali sulla situazione in Iraq, pop-corn e guide telefoniche lasciate cadere a terra da individui di varie nazionalità, mentre la sonata di quasi nove minuti di “Stationary” si spiega su battiti carpiti dall'uso di numerosi volumi, tra cui “Stupid White Men”, “Rulers Of The World” e “War On Iraq”. Il tutto cadenzato su fumose danze old jazz, facendo idealmente la sponda tra Roaring Twenties e inquietanti presagi tutti contemporanei.

Herbert riesce un'altra volta brillantemente a muoversi in una stratificazione di significati impressionante, chiudendo un altro disco a un cruciale interstizio tra materia grigia e piacevolezza d'ascolto. All'interno di questa dicotomia, probabilmente, il suo lavoro più complesso ed equilibrato.
Il lavoro maniacale di sampling delle recenti produzioni, tuttavia, non aveva ancora raggiunto il suo apice di follia bulimica, traguardo che avrebbe toccato solo con le uscite del biennio successivo.

I think I have a responsibility to musically explain
what it's like to be alive today
(Herbert)
 
Avanguardia pop all'aspartame

HerbertNon è poi inappropriato parlare di bulimia, rispetto a Plat Du Jour (2005), concettualmente tra i suoi dischi più ambiziosi di sempre.
L'album è il risultato di un lavoro di quasi due anni di field recordings, campionamenti, corrispondenze e ricerche sul tema dell'alimentazione (e, per estensione, del consumismo) post-industriale, effettuato accumulando un set di alcune centinaia di sample al servizio integrale della composizione creativa.
Il sistema di produzione trans-globale ha messo, per Herbert, ognuno di noi di fronte alla lugubre scelta tra farina bianca e farina integrale, tra prodotti raffinati dalle proprietà nutritive azzerate e prodotti potenzialmente salutari ma con residui pesticidi quintuplicati. I responabili di tutto ciò non hanno volti né nazionalità, promuovono la santissima trinità globale del freezer-microonde-friggitrice ma, tra le loro maglie fitte di neo-lingua e mazzette, è possibile scorgere il fattore nascosto di tutto ciò: il petrolio (gli intricati rapporti di casua-effetto sono schematizzati in un articolo di Norman Church, cui Herbert stesso fa riferimento sul sito creato ad hoc per il progetto).
Con lo stesso ritmo e spregiudicatezza di un drilling and measurement, si svolgono le tredici tracce del lavoro, ognuna con un aspetto diverso da prendere di mira e rigirare in elaborata pietanza electro-concreta. Una buona parte degli episodi scansiona a raggi X altrettanti alimenti di consumo di massa fabbricati nella logica di produzione industriale: dai pulcini e dalle galline cresciuti a ormoni di “The Truncated Life Of A Modern Industrialized Chicken”, per cui Herbert cattura il suono di una batteria di 30.000 galline e di 24.000 pulcini (mentre le melodie sono invece campionamenti di uova di Tesco e la linea di basso il verso trattato di un pulcino nato un minuto prima), alla riflessone sull'accesso e la privatizzazione dell'acqua di “These Branded Waters”, con una melodia pseudo-etnica suonata su una manciata di marchi di acqua minerale di proprietà Nestlè. A completare un quadro in cui nessun dettaglio è lasciato al caso, la traccia è a 182 bpm perché 182.000 sono i litri di acqua per la produzione di una tonnellata di acciaio, mentre la durata è fissata a cinque minuti e trenta in memoria della percentuale di accesso ai servizi sanitari in Bangladesh (il 53%).
Bastano questi pochi esempi ad intuire appena superficialmente la densità di un lavoro come Plat Du Jour, opera che tuttavia, nonostante la mole dei contenuti, riesce a scorrere con una relativa leggerezza d'ascolto, grazie anche all'approccio al solito vivace e semi-parodistico dell'inglese. La funkeggiante “Celebrity” ne è l'esempio supremo: un'analisi sui prodotti edulcorati ed emulsionati di dubbia provenienza (da quelli destinati ai bambini alla Pepsi Cola) sponsorizzati dalla superstar di turno, a loro volta merce stessa ed emblema del modello di produzione del supermercato globale. Prospettiva che si traduce in suono nelle liriche di una estasiata Siciliano (“Go David! Victoria!/ Go Beyoncè! Go Beyoncè!”) e in una compilation della boy band Blue usata a mo' di snare drum.

Plat Du Jour è così un concept ibrido, che realizza per la prima volta l'ambizione di Herbert di mettere a punto una musica “altra”, lontana dalla visione di un discorso musicale come fiction (definizione cui può essere ricondotta, a suo avviso, buona parte della storia della musica classica e a cui la musica popular ha fatto tutto sommato da eco sotto spoglie diverse) e più prossima al documentario multi-sensoriale, che convive tuttavia con un aspetto creativo ed emotivo.
La critica più ovvia avanzata a Plat Du Jour, ovvero la sua debolezza se preso come “disco a sé”, va sicuramente riconsiderata nell'ottica generale di questa visione, nonché nella volontà stessa dell'autore. Plat Du Jour esce nel chiacchiericcio generale sul finire del 2005 come album tradizionale, con le tracce scaricabili gratis singolarmente dal sito del progetto, mentre Herbert decide di iniziare il tour correlato (in cui, tra l'altro viene ingaggiato uno chef che riproduce dal vivo alcuni odori culinari) con una scelta ambientalista alquanto simbolica: quella di abbandonare per sempre i viaggi in aereo e di fare affidamento solo agli spostamenti via terra e mare.

Congegnato parallelamente a Plat Du Jour, ma radicalmente diverso nell'obiettivo stilistico, Scale esce nella primavera del 2006, ed è annunciato da Herbert come “un disco 'pop'... ma nel suo senso onomatopeico”.
Scale può essere definito in effetti senza troppi problemi il lavoro più pop ad oggi consegnato da Herbert, il suo album di canzoni vere e proprie (cui è servita con molta probabilità anche l'esperienza della pregiata collaborazione con l'amica Roisin Murphy dell'anno prima, “Ruby Blue”) nonché il suo disco più trasversalmente conosciuto in assoluto.
Scale si costruisce su una mole di ben 720 sample, alcuni dei quali tra i più audaci di sempre (batterie registrate in una caverna, rullanti catturati a bordo di una mongolfiera, un tale che vomita alla fiera delle forze armate, un Royal Air Force Tornado che decolla, il suono di una bara che viene chiusa). A veicolare il discorso politico, però, è, mai come questa volta e come ci si aspetterebbe da un disco di “canzoni”, l'apparato lirico dell'album, tanto più decisivo quanto più centrale il ruolo della voce di Dani Siciliano, che condivide qui la scena solo con due sporadiche incursioni di Neil Thomas e Dave Okumu. Viene fatta salva in ogni modo anche qui una dose di sana ambiguità referenziale (“Non vuoi inquinare per sempre i tuoi dischi col nome di Dick Cheney, uh?”).
Eppure, gli undici pezzi di Scale scorrono piacevoli e solidissimi, quasi solari, si lasciano canticchiare con scioltezza, saltano con gli scatti festaioli di un vocal jazz “da ballo”, seducono con pose più prossime al funk e alla disco che non alle forme della house music che fu. Impressione questa favorita sicuramente anche dall'uso più estensivo di partiture strumentali, dalla riconferma della big band di ottoni di Goodbye Swingtime a un ensemble d'archi registrato alla mecca delle produzioni pop-rock, Abbey Road. In altre parole, un disco di canzoni da leccarsi le dita.
Per quanto però Scale possa figurare egregiamente come forbita musica d'intrattenimento per sé, rimane difficile ignorarne le implicazioni politiche a un ascolto appena più partecipato.
"Something Isn't Right” attacca senza troppi preamboli con un passo funky su lussurreggiante sfondo d'archi: “Won't you look me in the eyes?/ Start by admitting now/ Something isn't right/ Something isn't right in here”.
“The Movers And The Shakers” si posiziona su toni ancora più espliciti con un fiorire di riferimenti all'imperialismo anglo-americano, all'intervento in Iraq come la guerra che soffia sul collo di tutti (“I just don't know how to bring about/ Your downfall, damn fool go figure out/ How those Christian bones can orchestrate/ Shock and awe”), “Down” e la quasi drammatica “Just Once” prendono di mira l'industria petrolifera camuffate da zuccherate love song, mentre “Birds Of A Feather”, con il suo emozionante crescendo in coda, è una introversa dichiarazione esistenzial-ambientalista.
Il singolo “Moving Like A Train” è giustamente la summa centrale del lavoro: Herbert si traveste da Prince e si mette alla guida di un jet Panavia Tornado alla volta della distruzione definitiva, mentre una Siciliano stewardess invita caldamente tutti i passeggeri ad allacciare le cinture e godersi il viaggio (“If you hate the destination/ Enjoy the journey 'cos you just can't get off”).
Come suo solito, il pessimismo nichilista di Herbert si inverte constantemente con il suo esatto opposto – la militanza – aprendo però con Scale anche squarci su corde più meditabonde, quasi intime, come dimostra un dimesso e stonato Herbert in coda al lavoro, da solo al piano e finanche alla voce. In ultima analisi, Scale è infatti un disco di distanze aleatorie: di distanze fisico-geografiche occultate, tra un prodotto-merce e la sua provenienza, di distanze con le decisioni corporative che governano le nostre vite, di distanze relazionali e interpersonali, di distanze incalcolabili, infine, tra vita e un senso della morte mai così pervasivo.
Anche per questo Scale si candida probabilmente ad opera più inclusiva, intensa e al tempo stesso incredibilmente accessibile del compositore e producer inglese.

Culmine del sodalizio artistico con Dani Siciliano, Scale segna però anche la fine della collaborazione tra i due, chiudendo di netto un lungo e proficuo capitolo della biografia e discografia di Herbert. Se Siciliano tenterà una promettente carriera in proprio (su tutti l'album “Likes...”, cui ha avuto però pochissimo seguito), Herbert si eclisserà dalle cronache per riemergere solo quattro anni dopo con alcuni tra gli episodi più controversi della sua produzione.

Silence is over

HerbertTra il 2010 e il 2011, Matthew Herbert consegna la trilogia “One”, tre album che immortalano il divenire di tre “anime” uguali e diverse: un night-club, un maiale e se stesso.
Il primo capitolo è infatti One One, il primo – e ad oggi unico – album vagamente cantautorale del musicista.
Da sempre fervido oppositore del divismo e del protagonismo in musica, Herbert prova qui a mettersi per la prima volta al centro della scena, non solo come compositore ma anche come timido, inedito, vocalist.
L'album amalgama, sullo stampo degli episodi più recenti, campionamenti concreti e strumentazione organica (compare qui e lì per la prima volta persino una chitarra acustica) e si svolge con una morbidezza ovattata, accogliente, a tratti vagamente krauta (si pensa ai Notwist e alle produzioni Kitty-yo), più spesso su altezze da qualche parte tra il Brian Eno alle prime tentazioni ambientali (“Another Green World”) e l'eleganza di un Donald Fagen.
I dieci brani-cartolina lasciano intravedere così un Herbert intimo, cantore senza fronzoli della quotidianità globale, che ammicca all'estetica glitch-pop sottomettendola al servizio di un songwriting digitale già maturo e indipendente.
Caso anomalo ma tutt'altro che involuto nella discografia herbertiana, nonché univo vero richiamo all'universo pop-rock, One One è un altro, l'ennesimo, canestro in una produzione già fitta di eclettici colpi di scena.

Ancora in tema di folle eclettismo, Herbert lancia contemporaneamente una sfida ambiziosa al suo lato di compositore più tradizionale, all'interno della serie della Deutsche Grammophon, “Recomposed”.
Ascoltando il lavoro del britannico sull'opera mahleriana, Recomposed – Mahler Symphony X, la prima cosa che balza all'orecchio è il toccante rispetto con cui mette le mani in un ambito così lontano dalle sue abituali frequentazioni. Nonostante l'esperienza maturata con la Matthew Herbert Big Band in materia di contaminazione fra generi lontanissimi, questa volta le sue capacità di arrangiatore e soprattutto il suo gusto vengono messi a dura prova. Mentre nel caso di Ravel e Mussorgsky l'operato era profondo e strutturale, raggiungendo vette di techno angelica e diluita, qui lo strumento utilizzato è il cesello. Infatti, l'abilità di Herbert giace nei piccoli interstizi, nella lieve distorsione dei toni, nel saper donare quel tocco di modernità a melodie profondamente radicate in un'epoca lontana.
Non c'è una rivisitazione totale o uno stravolgimento, il segreto in questo caso è nascosto, fascinosamente misterioso, quasi impercettibile. L'intuizione del musicista sta nel condividere il genio con l'ascoltatore, il quale deve cogliere i rimaneggiamenti moderni attraverso un ascolto minuzioso. Altro particolare di tipo prettamente informativo riguarda la suddivisione in tracce: nonostante la registrazione sia unica e indivisibile, per motivi di pubblicazione su cd è stato necessario spezzare l'opera in nove movimenti.
La quiete dei primi passaggi è un abisso di classicità ammorbata, nel quale ricomposizioni ectoplasmiche prendono corpo per poi scomparire in un tripudio di squarci possenti. Tuttavia, con il passare dei minuti, l'andamento si fa più screziato, le oasi di silenzio e i rimbombi sono frequenti, le esplosioni di volume sono accentuate con tocco da gentiluomo. Il settimo movimento tocca il culmine di questa ascesa con un tourbillon di suoni accecante. L'inizio quieto ed etereo scorre impercettibilmente attraverso un'improvvisa cascata di ritmi e pulsazioni techno da lasciar basiti tanto è efficace e d'impatto. Un flusso disturbante, come un nastro in reverse impazzito, viene ripetutamente percosso da una sessione ritmica senza tregua.
Capolavoro di trasfigurazione? Certo è che pochi artisti possono permettersi l'audacia di una impresa simile. Il meritato riposo si concretizza con le serafiche congiunzioni delle ultime due partiture, ombrose e oscure sinfonie decadenti.

Tra il finire di un intenso 2010 e l'inizio 2011, quindi, Herbert completa i due episodi restanti della trilogia “One”, One Club e One Pig, due lavori nettamente differenti in forma e contenuti.
One Club si compone interamente di field recordings carpiti in un locale di Francoforte, spezzettati e riassemblati nel suo tipico stile pastiche concreto come una nuova “meccanica della distruzione”: una scelta altamente significativa, quella di Herbert, da sempre infastidito dalla vampirizzazione capitalistica delle scene elettroniche di inizio Novanta (il loro trapasso, appunto, nella club culture), dalle occasioni socio-politiche perse, e che qui si offre in un montaggio alienato alla stregua di tanti altri elementi della società spettacolare contemporanea. Come i prodotti Tesco di Wishmountain, come i Mc Donald's di RadioBoy.

Terzo e più discusso capitolo della trilogia, infine, One Pig illustra il ciclo vitale di un animale da macello ai tempi dell'industria di massa. Herbert trascorre otto mesi in una fattoria, documentando e catturando i suoni della vita di un maiale dalla nascita alla consumazione, raccontando e colmando la disconnessione della realtà del consumo di carne nel modello di produzione capitalistico e delle sue implicazioni sul suo trattamento e nella sua assunzione (Herbert, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non è vegetariano).
Il risultato è una musica dall'alto tasso “drammatico”, il musicista si fa addirittura costruire uno strumento per comporre con il sangue del maiale drenato nella cucina di un ristorante, culminante con il maiale masticato da alcuni avventori e un'inattesa serenata chitarristica finale al maiale che non c'è più.
Il disco, complesso, stratificato e alquanto inquietante, tuttavia farà inviperire gli animalisti del PETA, che accusano Herbert in un comunicato di aver strumentalizzato la tragedia di un animale “altamente intelligente” a scopo di intrattenimento. Herbert ribatterà duramente sui termini stessi del comunicato, inchiodando quello del PETA come un atteggiamento prevenuto, superfiale e artisticamente mortificante.

Nel 2012 Herbert riesuma quindi il suo avatar Wishmountain per tornare a una riflessione di carattere politico su uno dei suoi storici bersagli: la multinazionale britannica di supermercati Tesco.
Un energy drink, un celebre caffè solubile, due marchi di pancarré, un succo di frutta, una barretta di cioccolata al latte, patatine Walkers, carta igienica e ovviamente il brand dei brand, Coca Cola. La breve lista dei prodotti più venduti nella più popolare catena di supermercati in Europa come cartina di tornasole dello status quo di una buona fetta di società – anglosassone e non – da una parte, macabro espediente per comporre techno music da sottoporre a quello stesso target dall’altra.
Confermata la ben nota avversione per le drum machine, dunque, anche questa volta Herbert rammenda un album in cui ogni singolo suono di cui si compone scaturisce da oggetti e loop. Percossi, accartocciati, soffiati, lasciati cadere, torturati e registrati in vario modo, con il solito complesso apparato di microfoni al seguito. Nascono così improbabili melodie plastiche (“Lucozade”), groove micro-house (“Nescafe”, “Kingsmill, Hovis & Warburton”) e numeri simil-electro dal retrogusto raccapricciante (“Walkers”).
Far oscillare gambe e piedi, e un attimo dopo inorridire e sconcertare. In fondo è questo l’effetto che ormai da quasi un ventennio Herbert cerca (e spesso trova) in chi capiti all’ascolto dei suoi baccanali concreti. Se a venire meno è forse l’effetto novità, restano intatti invece gli stimoli e le riflessioni che il genietto di Exeter è ancora in grado di innescare tra i solchi della sua concrete-techno sminuzzata, rivelandosi una volta in più uno degli interpreti più acuti delle tensioni globalizzate.

Pochi mesi dopo, Herbert torna nuovamente a far parlare di sé con un'altra temeraria operazione.
Il compositore riceve un frammento sonoro dal fotografo di guerra Sebastian Meyer, una decina di secondi appena in cui si sentono voci concitate e fischi prima di una terrificante detonazione che si lascia dietro solo una nuvola di polvere, carpiti alle esplosioni di Ras Lanuf, Libia, perché “la fotografia non riusciva a catturare tutto l’orrore di quanto stava avvenendo”.
Il sample non poteva lasciare indifferente il concretista inglese, vuoi per la sua nota, acuta, sensibilità politica, vuoi per l’attenzione sempre maggiore con cui sta cercando di inserire la sua sveglia consapevolezza nel suo operato recente – dal trittico “One” al più recente Tesco.
La missione, quindi, è congelare la storia, premere "pausa" e scandagliare le componenti del suono per capirne meglio la natura tanto spaventosa, e soprattutto ricondurre alla realtà più viscerale la virtualità dei comunicati stampa e dell’informazione internauta.

La breve registrazione è stata fatta oggetto quindi di vivisezione dalla mini-orchestra elettronica messa su da Herbert (con Yann Seznec, Tom Skinner e Sam Beste) che ha dato vita, nella verdeggiante campagna inglese, a una lunga sessione impro in cui i processi sul frammento sonoro si sono amalgamati con i field recordings più o meno accidentalmente rubati alla location.
I tre movimenti di The End Of Silence restituiscono così una complessa successione di variazioni sul tema, dando vita a estemporanee sinfonie noise e mostruose “melodie” elettroacustiche in crescendo – segnate dalla tipica, infantile, semplicità herbertiana, la stessa a conti fatti dei tappeti tech-house di 100 Lbs – costantemente spezzate dal sample bellico, ripetuto una mezza dozzina di volte con colori differenti, fino al (lunghissimo) minuto di silenzio conclusivo.
Tutto ambientato su uno sfondo di apparente solarità campestre (cinguettii, latrati in lontananza), il cui potenziale bucolico è turbato da un inevitabile, macabro, sentore di precarietà.
The End Of Silence è la prova più difficile e impegnata del dotto producer d’Albione, ennesimo progetto di spessore in venti lucidissimi anni di percorso electro-concreto in curriculum, atroce riflessione sul concetto di guerra, astratto dai media e ideologizzato dai poteri, riportato qui al suo significato più immediato: massacro tra poveri, entropia, o anche, poundianamente, la grande menzogna dei vecchi.

Dopo un intenso decennio trascorso prevalentemente sotto il suo nome d'anagrafe così, l'inglese riaffiora nuovamente solo come Herbert nel 2015 e presenta The Shakes come "un tentativo di sedurre l'ascoltatore di nuovo sul dancefloor". Il che non significa ovviamente adagiarsi sugli allori dell'autocitazionismo. Questa volta è il Matthew-padre a parlare: il disco vuole essere una riflessione intima sull'insicurezza generalizzata in cui tutti viviamo, dalle istanze macro-politiche alle tensioni sociali, offrendosi al tempo stesso come spazio di calore umano e dimesso sentimento.
A completare simbolicamente il quadro dell'opera, la consueta componente "concreta", a questo giro prodotta solo da oggetti acquistati tramite eBay, tra cui alcuni proiettili usati e cartucce d'artiglieria.
Nonostante tali premesse, però, The Shakes si svolge su toni nettamente più introspettivi e sommessi rispetto ai guizzi del predecessore, più asciutto nella forma e quasi cameristico nell'ambience. Il punto di forza "pop" del lavoro va riconosciuto senza dubbio nella voce dell'ottimo Ade Omotayo, già al fianco di Amy Winehouse e Basement Jaxx, che arricchisce una buona metà delle tracce di un'impronta vigorosamente soul - su tutte, l'opener "Battle" e la concitata "Strong", quest'ultima costruita su un campionamento di proteste londinesi.
Più mediocri i contributi di Rahel Debebe-Dessalegne, che ricorda nei momenti migliori l'impareggiabile Dani Siciliano (qui grande e chiassosa assente), come nel soffice flusso melanconico su ottoni di "Middle", nei momenti meno brillanti invece una Leslie Feist alquanto imbolsita ("Warm" rasenta la stucchevolezza). Riuscito a pieni voti invece il duetto bandistico di "Stop", peraltro completato da un bel videoclip su relazioni e dipendenze.
In definitiva, The Shakes esaurisce il meglio di sé nella sua prima metà, indugiando nella seconda parte in soluzioni più sedute e autocompiaciute, come il pallido e ingiustificatamente prolisso techno-pop finale di "Peak".
Onesto e sentito, nonché, va da sé, magistralmente prodotto e arrangiato, The Shakes porta a casa tuttavia un risultato modesto, soprattutto se confrontato con la sequenza di capolavori che lo ha preceduto. Alla luce di una chiaroveggente attività pluriennale pressocché impeccabile, in ogni modo, un lusso che Herbert può concedersi a pieno diritto.

Nel 2021, Musca dà un seguito alla formula di The Shakes, dilatando ancora di più i tempi ed investendo in un parterre di collaborazioni dallo stampo più marcatamente "dream-pop". L'album chiude una ricerca sonora realizzata attorno ai rumori registrati durante il confinamento pandemico e incentrata nella sua fattoria nella campagna inglese. Il lavoro enfatizza la maturità di compositore pop a cui è approdato Herbert nella traiettoria inaugurata con Scale, pur con qualche sbavatura e lungaggine di troppo (l'album supera infatti i 75 minuti), e un paio di performance un po' troppo da manuale.
La splendida "Hypnotised" e l'estrosa "Fantasy" sono probabilmente il miglior biglietto da visita per avere un'idea di quello a cui Herbert sta puntando in questa fase del suo percorso artistico: tappeti micro-house di magistrale fattura e rigorosamente concreti su cui si insediano contributi vocali pieni e calorosi e l'occasionale commento misuratissimo di elementi orchestrali.

Contributi di Alessandro Biancalana

Matthew Herbert

Discografia

HERBERT
100 Lbs (Phono, 1996)
Part One, Two And Three (compilation, Phono, 1996)
Around The House (Phonography, 1998)
Bodily Functions (!K7, 2001)
Second Hand Sounds: Herbert Remixes (Peacefrog, 2002)
Scale (!K7, 2006)
Score (compilation, !K7, 2007)
The Shakes (Caroline, 2015)
Musca(Accidental, 2021)
MATTHEW HERBERT
Letsallmakemistakes (remix, Tresor, 1995)
Plat Du Jour (Accidental, 2005)
One One (Accidental, 2010)
Recomposed: Mahler Symphony X (Deutsche Grammophone, 2010)
One Club (Accidental, 2010)
One Pig (Accidental, 2011)
The End Of Silence (Accidental, 2013)
A Nude (The Perfect Body) (Accidental, 2016)
DOCTOR ROCKIT
The Music Of Sound (Clear, 1997)
Indoor Fireworks (Lifelike, 2000)
THE MATTHEW HERBERT BIG BAND
Goodbye Swingtime (Accidental, 2003)
There's Me And There's You (Accidental, 2008)
RADIO BOY
Wishmountainisdead... Long Live RadioBoy (Antiphon, 1997)
The Mechanics Of Destruction (Accidental, 2001)
WISHMOUNTAIN
Wishmountain (Antiphon, 1998)
Wishmountainisdead (Antiphon, 1998)
Tesco (Accidental, 2012)
Pietra miliare
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