Luigi Tenco

Luigi Tenco

Una storia sbagliata

Dal jazz delle cantine al rock’n’roll degli sconclusionati festival giovanili, dalla scuola francese a quella genovese, fino alla "rivoluzione mancata" del beat italico. Tenco è stato il cantore dei lati più oscuri dei "favolosi" anni 60. Fino al gesto estremo che gli conferirà una statura tragica. Proiettando un'ombra su tutta la canzone d'autore e la musica "alternativa"

di Simone Coacci

Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io, tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La Rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi

Luigi Tenco si tolse la vita con un colpo di pistola alla tempia destra nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967. Durante le giornate del Festival.
Si chiuse così, nel modo più tragico ed oscuro (vista anche la demenziale e pasticciata inchiesta che ne è scaturita), l’umbratile e controversa parabola di uno dei cantautori più fraintesi ed emblematici degli anni Sessanta.
Certo è fin troppo scontato rileggere una storia partendo dalla fine e trarne una facile morale. Ma “quello che conta”, per citare una delle più belle canzoni da lui interpretate, in questo caso è fare luce non tanto su una biografia lacunosa e scostante su cui troppo spesso s’è ricamato e versato, col senno del poi, copiose lacrime di coccodrillo, quanto sui meriti (e i limiti) pubblici, concettuali e, soprattutto, musicali di un personaggio in netto anticipo e dunque in aperto conflitto coi suoi tempi.

Di quel decennio tronco e spezzato (1960-67) - che va dall’ancor roseo crepuscolo del miracolo economico ai primi vagiti della contestazione studentesca, dai moti di piazza che porteranno alla caduta del governo Tambroni  (a cui partecipò in prima persona a fianco dei “camalli” genovesi) alle occupazioni universitarie che annunciarono il ’68 (la prima delle quali, pochi giorni dopo la sua morte, avrà luogo alla Sapienza di Pisa), dal jazz delle cantine al rock’n’roll degli sconclusionati festival giovanili, dalla scuola francese a quella genovese, fino alle convulse e spesso confuse tematiche sociali del primo folk-beat italiano - Tenco incarna a fior di pelle, spesso suo malgrado e fino alle estreme conseguenze, le contraddizioni più profonde e laceranti, ma anche i fermenti più vivi e fecondi, che racchiude in un canzoniere di appena cento brani e tre soli album, non sempre all’altezza, complessivamente, delle punte più alte del suo idiosincratico talento lirico e compositivo.

Tenco ha attraversato e impietosamente ritratto la società italiana di quegli anni, il mondo asfittico della nostra canzone popolare, come un icastico incrocio di Jacopo Ortis e del personaggio interpretato da Jean-Louis Trintignant ne “Il Sorpasso” di Dino Risi. Oscillando stilisticamente fra l’esistenzialismo “decadente” e il pop-jazz da camera degli esordi e il folk impegnato (e purtroppo incompiuto) della cosiddetta “linea gialla”, fra una malinconica, sconsolata rassegnazione e una sferzante, quasi nevrastenica ansia di sovversione e rinnovamento. La sua prosa aspra e disadorna - prevalentemente in versi sciolti e così poco convenzionale rispetto all’estetismo puritano dell’epoca - che mescola il soliloquio allucinato all’intimismo asciutto ed essenziale, la poesia crepuscolare delle piccole cose all’invettiva bruciante ed esasperata, al pari del suo personaggio scontroso e antisociale, ne fa un antesignano degli eroi tormentati e “maledetti” del rock alternativo (che più volte gli renderanno omaggio) ancor prima che dei cantautori militanti degli anni 70. 

Io sono uno…

Luigi Tenco a Genova, sotto la LanternaLuigi Tenco nasce il 21 marzo del 1938 a Cassine, in provincia di Alessandria, in uno scenario quasi pascoliano su cui aleggiano già luttuosi presagi di mistero: il signor Giuseppe Tenco, morto circa sei mesi prima in circostanze non del tutto chiare (pare per il calcio d’una mucca alla tempia), non è il vero padre di Luigi. La paternità, peraltro mai riconosciuta legalmente, era di un giovane che nel dopoguerra avrebbe intrapreso la professione di avvocato e sarebbe morto nel 1985.
Nel 1948 la famiglia si trasferisce a Genova, dove Tenco frequenta il Liceo Scientifico fino alla maturità e mostra una particolare inclinazione per la musica jazz, suonando il piano, il clarinetto e infine il sassofono nei gruppetti di amici e coetanei molti dei quali destinati a diventare famosi nel decennio successivo (fra gli altri: Lauzi, Paoli, De André e i fratelli Reverberi). I suoi idoli, a quel tempo, si chiamano Jerry Roll Morton, Chet Baker, Gerry Mulligan e Paul Desmond.
Dal 1957 è musicista professionista e componente fisso della band di Marcello Minerbi e ha modo di suonare anche nell’orchestra del futuro “Gufo” Lino Patruno. Nel 1958, sempre in qualità di strumentista, partecipa alla fervida quanto effimera stagione del rock’n’roll nostrano: va in tournée in Germania con Giorgio Gaber e Adriano Celentano, forma un gruppo con Paoli e altri amici pittorescamente battezzato “I Diavoli del Rock” ed è una presenza fissa nei ritrovi dedicati a questo genere di musica fra Genova e Milano, spesso in compagnia di Gaber, Jannacci e Gianfranco Reverberi. Grazie a quest’ultimo nel 1959 viene assunto alla Ricordi come musicista di studio e a poco, a poco quasi contro la sua volontà (“non li sopportavo i cantanti: tutte quelle sciocchezze che gli facevano dire” spiegò qualche anno più tardi), quello stesso anno incide i suoi primi 45 giri, dapprima brani scritti da altri, quindi quelli di sua composizione. Fra questi: “Giurami Tu” che, a dispetto di un testo piuttosto sciapo e incolore, preoccupato solo di aderire alla metrica e ai cliché da balera di fine anni 50, sfoggia una verve jazz-swing e un arrangiamento orchestrale (di Reverberi) degno di Henry Mancini; lo shuffle e il canto alla Nat King Cole di “Mai”; l’ingenuo calco di “Rock Around The Clock” in “Vorrei Sapere Perché” o di Gene Vincent in “Amore”.
Materiale miscellaneo, insomma, non privo di una qualche ricercatezza e, a dispetto della scarsa considerazione dell’autore stesso che arriva a firmarsi con il solo cognome o con lo pseudonimo di Gigi Mai, se non altro indicativo degli standard post-adolescenziali dell’epoca.

Ben più raffinata e significativa la sua produzione successiva, sempre frazionata a beneficio dell’allora fiorente formato del 45 giri, con canzoni come la romantica “Quando”, primo brano a raggiungere una certa notorietà, che nonostante un eccesso di figure retoriche sublimate dalla tradizione amorosa degli anni 50, può a buon diritto essere considerata, con il suo malinconico ed elegantissimo arrangiamento da camera (arpeggio quasi madrigaleggiante, archi e flauto traverso), una delle capostipiti della scuola genovese insieme a “Il Cielo In Una Stanza” e “Senza Fine” (’60 - ’61) di Paoli e “Il Nostro Concerto” di Umberto Bindi (1960). Ancor più compiuta in questo senso è “Una Vita Inutile”, costruita su fraseggi jazzistici e armonie alla Jacques Brel, la prima parabola esistenzialista di un giovane estraneo all’ottimismo del “boom” (“Una vita inutile vivrai/ se non diventerai qualcuno/ questo diceva a me un signore/ e la sua casa era una reggia”) che si ritrova, solo e sperduto, a contemplare il fondo di un oscuro e fiaccante malessere (“provai ad essere qualcuno/ però sono rimasto nessuno”).
Svettano anche il languido esotismo di “In Qualche Parte Del Mondo” e “Ti Ricorderai” (ritmica soffusa da cool jazz, crescendo orchestrale di violini), entrambe in qualche modo incentrate sul desiderio di sfuggire all’arida delusione del presente in un altrove edenico e idealizzato, l’armonia da night-club di “I Miei Giorni Perduti” (misto di cadenze latine ed eccentrici contrappunti d’archi e cori), il suggestivo intreccio di chanson d’oltralpe e jazz bianco (con il sax in evidenza) in “Se Qualcuno Ti Dirà”.  

Il Belpaese della Cuccagna

Il 1962, quello del primo governo di centrosinistra, della crisi di Cuba, del Concilio Vaticano II e del suicidio di Marilyn, potrebbe essere l'anno cruciale nella carriera di Tenco, foriero di eventi che sembrano schiudergli le porte di quella fama a cui s’è sempre accostato con un misto di riluttanza e curiosità. Anche se in realtà il tentativo di vendersi sul mercato discografico come la voce più originale e fuori dal coro della prima generazione di cantautori non andrà mai oltre un seguito limitato e una generica notorietà.
Qualche anno dopo, Tenco difenderà questo suo atteggiamento, apparentemente ambiguo e inconsapevole, affermando: “(…) oggi gli strumenti per comunicare con la gente sono quelli e anche a costo di passare da qualche forca caudina, a quegli strumenti bisogna arrivare, perché sono strumenti formidabili… Il menestrello che oggi va a cantare sotto le finestre non dice niente, non serve a niente”.

Luigi Tenco con Donatella Turri, durante la presentazione del film In estate debutta come attore protagonista nel film “La Cuccagna”, diretto da Luciano Salce, dove interpreta un ruolo quasi autobiografico: un giovane cantautore introverso che contesta la società borghese e medita il suicidio su una spiaggia usata per il tiro al bersaglio. Al di là del valore intrinseco dell’opera, molto ben congegnata nel suo bozzettismo mordace di commedia all’italiana con una regia nervosa e scattante quasi da Nouvelle Vague, è da segnalare l’eccezionale contributo di Tenco alla colonna sonora realizzata da Ennio Morricone, che regala al cantautore due delle migliori composizioni della sua carriera, “Quello Che Conta” e “Tra La Gente” (entrambe scritte con Luciano Salce), oltre a una cover dell’allora sconosciuto Fabrizio De André (giovane esponente della “scuola genovese” e buon amico di Luigi), “La Ballata Dell’Eroe”.
Pur trattandosi di brani composti da altri, l’interpretazione di Tenco è così intensa e personale da renderli di fatto inscindibili dal suo canzoniere più autentico: sontuosa, struggente e crepuscolare la prima (che, com’è tipico nel Morricone d’annata, orchestra strumenti della tradizione classica e popolare - arpa, clavicembalo, armonica - in chiave moderna ed espressionistica), con una storia d’amore che scintilla teneri barlumi fra le ceneri della mondanità e dell’ipocrisia (“adesso che il fumo cancella l’estate/ e il grigio ritorna scendendo su noi/ la lunga vacanza si chiude per sempre/ pure qualcosa di noi resterà”) come unico antidoto all’alienazione (“ormai siamo soli nel centro del mondo/ qualcosa divide la gente da noi/ ma quello che conta è non essere soli/ quello che conta è che tu sei con me”), la seconda è un minuetto boulevardien (per violino, piano, organetto e clavicembalo) che abbozza un ritratto femminile degno di Truffaut, mentre la terza (picking scarno, armonica quasi western) declina la componente sentimentale (la nostalgia della sposa per l’eroe disperso sul fronte) in una lucida satira della retorica patriottica.

Il film esce nelle sale verso la metà di ottobre, poche settimane più tardi la Ricordi licenzia il primo 33 giri dell’artista, intitolato semplicemente Luigi Tenco. In effetti, più che una vera e propria opera prima, si tratta d’una raccolta che, com’era nella logica editoriale (non solo italiana) dell’epoca, compendia alcuni singoli già pubblicati per l’etichetta insieme ad altre composizioni più recenti, considerate meno “spendibili” sul mercato dei 45 giri.
Nonostante un certo scollamento stilistico e tematico dovuto alla ridotta progettualità che ne consegue, l’album si rivelerà, col senno del poi, uno dei migliori prodotti della “scuola genovese” e un interessante precursore del cantautorato italiano. Accanto a brani melodici e tradizionali come la già citata “Quando”, emerge la mitteleuropea “La Mia Valle” (su un valzer di Ciaikovski) in cui Tenco vagheggia uno dei suoi temi tipici: la fuga dal presente e il rifugio in un mondo fiabesco e bucolico come panacea ai conflitti sociali e personali, un tema ripreso, insieme a quello dell’infanzia perduta di “Il Tempo Passò", in chiave allegorica anche nel confidenziale anni 50 de “Il Mio Regno” (un po' stucchevole, in entrambi i casi, l’arrangiamento cameristico, “neoclassico” diremmo oggi, del maestro Giampiero Boneschi).
Ma nel disco compaiono motivi più significativi e originali, sia sul piano delle liriche (neorealistiche) che su quello musicale (addentrandosi in territori fino ad allora pressoché inesplorati dal pop italiano). A cominciare da “Cara Maestra” , uno dei suoi migliori brani di sempre, dove, col picking sferzante e l’ironia irriverente d’un Brassens, Tenco mette alla berlina, attraverso tre vignette di grande efficacia, la società classista dell’epoca (“Cara Maestra un giorno mi insegnavi/ che a questo mondo siamo tutti uguali/ ma quando entrava in classe il direttore/ tu ci facevi alzare tutti in piedi/ e quando entrava in classe il bidello/ ci permettevi di restar seduti”), i pilastri del potere democristiano (“”Mio buon curato (…)/ come può adesso un povero che entra/ sentirsi come se fosse a casa sua?”) e la vergogna dei funzionari fascisti riciclatisi nella pubblica amministrazione (“Egregio sindaco mi hanno detto che un giorno/ tu gridavi alla gente: vincere o morire/ (…) e al posto tuo è morta tanta gente/ che non voleva vincere né morire”).
Da segnalare anche lo swing di “Una Brava Ragazza”, spregiudicata fotografia dei costumi sessuali delle adolescenti emancipate dal “boom” economico (“se tu fossi una brava ragazza/ quando incontri per strada una di quelle/ guarderesti altrove/ invece di stare ad osservare come si muove”), condita da una sottile ma cocente ironia sui luoghi comuni del perbenismo borghese (“se tu fossi una brava ragazza, la ragazza che sognavo di incontrare/ probabilmente ora invece di volerti bene sarei altrove”), il licenzioso e tormentato elogio dell’adulterio in “Io Si” (quasi un Brel apocrifo, ritmato da un accattivante tema sirtaki).
Altrettanto ardita, per l’epoca, è l’epica cabarettistica e boulevardien di “Angela” (misto di Brel e Weill), tutt’ora magnifico il torpido esistenzialismo alla Sagan di “Mi Sono Innamorato di Te” (cantata pianistica con accompagnamento d’archi), decisamente più ozioso e datato appare, invece, il surrealismo (quasi “buzzatiano”) a tempo di valzer di “Come Mi Vedono Gli Altri” (“La mia paura è che a vedere me come sono/ Io potrei rimanere deluso”).

Vedrai, vedrai…

Luigi TencoEccezion fatta per il discreto successo di “Mi Sono Innamorato Di Te”, nell’anno in cui trionfano “Fatti Mandare Dalla Mamma” e “I Watussi” e “La Partita Di Pallone”, il debutto di Tenco cade presto nel dimenticatoio, tarpato anche dalla censura della commissione Rai che boccia senza appello “Cara Maestra”, “Una Brava Ragazza” e “Io Sì”, inibendo per quasi due anni il cantautore tanto dai passaggi radiofonici che da quelli televisivi. Curiosamente in una delle sue ultime apparizioni, intervistato da Sandro Ciotti, renderà omaggio a un altro geniale esordiente a cui sarà presto accomunato nel destino di grande irregolare (e incompreso) della canzone d’autore: “(…) poi un certo Piero Litaliano, che non è molto conosciuto ma mi piace molto e fa delle parole che sono veramente ottime”. Piero Litaliano era lo pseudonimo di Piero Ciampi.

Il periodo di esilio coatto acuisce ancora di più il suo rapporto contraddittorio con la celebrità: da una parte rivendica orgogliosamente la propria integrità artistica e morale (“Il personaggio, come l'antipersonaggio, sono qualcosa di costruito, uno stereotipo fatto in serie. E io invece voglio essere una figura vera, con le sue idee, sbagliate o giuste che possono apparire. E con quale metro giudicarle, con quello del conto in banca? Bene, lascio volentieri ad altri questo sistema metrico. A me non importa nulla di essere 'integrato' nel sistema organizzativo”), dall’altra rompe il contratto che lo lega alla Ricordi, pare, fra le altre cose, lamentandosi di non essere stato “spinto” come il suo ex-amico, ora rivale, Gino Paoli.
Dopo aver assolto il servizio militare, a lungo procrastinato con rinvii per motivi di studio (accarezzando l’idea dell’obiezione di coscienza), nel maggio del 1965 Tenco pubblica il suo secondo full length, anche questo omonimo, per l’etichetta Jolly.

Il secondo Luigi Tenco segna un deciso passo avanti: più coeso, elegante ed elaborato, costruito su fastosi arrangiamenti da camera in cui confluiscono melodie popolari, armonie classiche e ritmiche jazzistiche, atmosfere languide, confidenziali, decadenti, e liriche che, in linea di massima, tralasciano gli spunti (anti)sociali per concentrarsi su un’ossessiva ed erratica introspezione.
Musicalmente, senza dubbio il punto più alto nella breve carriera del cantante piemontese. Stilisticamente, un compendio delle influenze più significative assimilate fino a quel momento.
L’insieme delle composizioni, pur nella ricercata ripresa dei motivi di fondo, è vario e ricco di sfumature: la propensione verso una forma nostalgica e retrò di pop-jazz è testimoniata da passaggi come “Tu Non Hai Capito Niente” (scandita da uno xylofono alla Hampton) e “Non Sono Io” (con armonie vocali da “quartetto di barberia”), ma laddove l’incalzante shuffle “Ah… l’amore, l’amore” sbandiera un riuscito connubio soul, “Ho Capito Che Ti Amo” e “Quasi Sera” (a tratti quasi lounge) indulgono in un suggestivo parallelo fra Bacharach e la chanson francese, su cui l’accorata “Com’è Difficile” (“Com’è difficile veder sfuggire / tutti i miei sogni in un bicchier d’acqua / senza neanche aver visto il mare”) getta una melanconica ombra tardo-melodica (Modugno). La stravagante “Io Lo So Già”, invece, ammannisce una sorta di “liscio” nei toni epici e cavernosi (basso e chitarra in particolare) di un Lee Hazlewood (quarant’anni prima dei Baustelle!).
In questo conturbante paesaggio sonoro allignano i tre brani più famosi del disco, quelli destinati a confermarsi, corsi e ricorsi dopo e a decenni di distanza, tre veri e propri classici del suo repertorio. “Vedrai Vedrai” (poi ripresa da Ornella Vanoni e Mia Martini) è una cupa e vibrante torch song pianistica, una toccante confessione dagli echi quasi pasoliniani (e freudiani) (“tu non guardarmi con quella tenerezza come fossi un bambino che ritorna deluso”) in cui affiorano, spogliate d’ogni estetismo retorico, le antinomie più intestine dell’artista (e dell’uomo): orgoglio e fragilità, fibra morale e senso di colpa (“mi fa disperare il pensiero di te e di me che non so darti di più”), pessimismo e speranza (“vedrai, vedrai, non son finito sai/ non so dirti dove e quando ma vedrai che cambierà”). La sincopata marcia bandistica “Ragazzo Mio” (portata poi al successo da Loredana Bertè) è una sorta di profetica epistola a un immaginario erede (“Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre/ aveva grandi idee per la testa/ ma in fondo poi non ha concluso niente”), testamento spirituale e manifesto del proprio idealismo (“Ma tu non credere, no/ che appena s’alza il mare gli uomini senza idee/ per primi vanno a fondo”), qua e là incrinato dalla disillusione. Infine, lo spleen madrigalesco di “Se Potessi Amore Mio” (a lungo nel repertorio live di Vinicio Capossela) che, col suo stile semplice e colloquiale, fruga nei sentimenti e nelle emozioni frustrate dal peso della quotidianità.

E se ci diranno…

Luigi TencoIl secondo omonimo è il nul plus ultra del Tenco prima maniera - quello influenzato dalla musica degli anni 50, dall’esistenzialismo, dal jazz e dai cantautori francesi -  che sembra già presagire l’imminenza d’una svolta (in un intervista del 1966: “… decadenti, perché la musica di questo tipo è decadente, cioè è il ritornare sui temi - amore, fiori ecc. ecc. - con nuove frasi, con nuovi tipi di linguaggio ecc. ecc, significa un compiacimento formale, ma una mancanza di sostanza. Questo non significa che non facciano delle cose bellissime, perché ci sono delle canzoni che mi piacciono molto, sono delle canzoni che io stesso ho fatto…”), la voglia di tuffarsi in qualcosa di nuovo, qualcosa che possa riflettere in modo più incisivo il suo bisogno d’impegno sociale e la sua ansia di affermazione nel segno della diversità e del cambiamento. E il momento sembra fornirgli l’occasione propizia.

Alla fine 1965 la musica italiana (e l’immaginario giovanile nel suo complesso) è aggredita da un fervido quanto epidermico subbuglio: si parla di Carnaby Street e del Vietnam come se fossero dietro l’angolo, si va a ballare al Piper (punto di riferimento della nuova scena e unica vetrina per ammirare astri nascenti come Who, Pink Floyd, Jimi Hendrix, i Genesis o i Soft Machine), alla radio “Bandiera Gialla” filtra le note della “British invasion”, si assiste alla prima volta dei Beatles in televisione e alla consacrazione internazionale del nuovo Dylan “elettrico” (e i Byrds che entrano anche qui da noi in Hit Parade con “Mr. Tambourine Man”), una variopinta e scombiccherata orda di gruppi italiani (Equipe 84, Rokes, Ribelli, I Corvi, I Nomadi), denominati comunemente beat, incidono inedite, pittoresche e abborracciate cover di successi stranieri.
Tenco che era stato uno dei primi a “scoprire” il genio di Duluth, tanto da prodursi in una goffa cover di “Blowin’ The Wind” (“La Risposta è Caduta Nel Vento”, del 1964, suonata a ritmo ferroviario e con un testo adattato, un po’ alla meglio, insieme a Mogol), si accosta a questo ribollente carrozzone  - un indigesto miscuglio di vecchio e nuovo, voci flautate e urli alla maniera dei neri, melodico e beat, mimetismo libertario e conservatorismo imprenditoriale - con l’ambizione di condurlo a una piena autonomia espressiva, alla consapevolezza delle proprie potenzialità comunicative, di dare una decisa sterzata sia in senso musicale che politico, saldando, sull’esempio di Dylan, musica da ballo e canzone di protesta, beat e folk. E' un concetto che rivendicò fino all’ultimo, come in questa intervista a “Big” del gennaio 1967: “Secondo me la soluzione non è quella di guardare all'estero per imitare il genere degli altri. L'unica cosa da fare è sfruttare il patrimonio musicale nazionale. (…) Bisognerebbe prendere melodie tipiche italiane e inserirle nel sound moderno, come fanno i negri con il rhythm and blues, che proviene dal jazz, o come hanno fatto i Beatles, che hanno dato un suono di oggi alle marcette scozzesi invece di suonare con le zampogne. (…) Il patrimonio folcloristico di una nazione, lo ripeto, è tanto vasto che ogni cantante e compositore potrebbe attingervi mantenendo la sua personalità: se uno vuol fare la protesta, può protestare, se un altro vuol far ballare la gente, può farla ballare, ce ne sarebbe per tutti”.

Il progetto di Tenco, che nel 1966 cambia nuovamente casa discografica firmando per la Rca, si rivelerà, anche per motivi di tempo (la morte sopravvenente) e d’opportunità (l’insuccesso di quasi tutte le sue ultime canzoni e l’impermeabilità dell’industria discografica a qualsiasi tipo di musica concretamente “alternativa”), molto più discontinuo e frammentario nei fatti di quanto fosse lucido e lungimirante nelle intenzioni: riscrive e adatta le cover “It’s A Man’s World” di James Brown (“Mondo Di Uomini” cantata da Lucio Dalla) e “Yeeeeeh!”  e “Johnny No” (per i Primitives); ispira e promuove il manifesto programmatico della cosiddetta “linea gialla”, per una musica beat più libera, innovativa e attenta ai problemi sociali (“Noi nella pace e nella libertà non vogliamo solo sperare, ma preferiamo ora lottare su una trincea fatta di splendide e significative note, per conservarle o conquistarle. Questo è bene che si sappia, com’è bene che i giovani si guardino dai mistificatori della musica leggera”) e difende le proprie idee a un dibattito sulla “canzone di protesta” al Beat 72 di Roma, dove viene pesantemente contestato dai giovani presenti in sala.

Nello stesso anno, pubblica il suo terzo e ultimo album, laconicamente intitolato Tenco
Trapela un evidente senso di precarietà e dicotomia, in parte dovuto all’arretratezza dei tempi, in parte al travaglio personale dell’artista, che si riflette anche nella composizione di un'opera sbilanciata, chiaramente di transizione, inferiore alla somma delle singole canzoni proprio a causa di questa rigida divisione fra stili diversi (l’ormai collaudato pop-jazz e gli esperimenti folk-rock del nuovo corso) e per l’assenza di una direzione artistica in grado di amalgamare gli spunti (spesso geniali o comunque, decisamente originali) in modo coerente ed efficace.
Le due anime di Tenco, quella decadente e quella engagé spartiscono il disco in due filoni distinti: al primo appartengono pezzi come “Lontano, Lontano”, tipico lento in 3/4 da “rotonda sul mare”, lieder moderni (solo piano, bordone d’organo e contrabbasso) per disincantate scene da un matrimonio (“un giorno io ti sposerò, stai tranquilla/ così avrai diritto a tutte quelle cose/ che io oggi ti do solo per amore”) come “Uno Di Questi Giorni Ti Sposerò”, il bossa-noir da camera di “Un Giorno Dopo L’altro” (già sigla del “Maigret” televisivo di Gino Cervi), uno dei suoi capolavori fatalisti di sempre  (“La nave ha già lasciato il porto e dalla riva sembra un punto lontano/ qualcuno anche stasera torna a casa deluso piano piano/ Un giorno dopo l’altro la vita se ne va/ e la speranza ormai è un’abitudine”); al secondo sono riconducibili “Io Sono Uno”, autoritratto pennellato nello stile aspro e berciante d’un Barry Mc Guire, la dylaniana “E Se Ci Diranno”, declamatorio inno alla disobbedienza civile e capostipite assoluto della scena folk-rock (o folk-beat secondo la nomenclatura di allora) italiana, il garage-beat all’acqua di rose di “Ognuno è Libero”, la stralunata “Ma Dove Vai”, stornello intonato su un’arietta merseybeat.

Ciao amore, ciao!

Luigi Tenco con Dalida a SanremoE siamo quasi giunti all’epilogo. Se questa fosse una favola, ora assisteremmo a un lieto fine. Se fosse un giallo, qualcuno ci rivelerebbe l’identità del colpevole. Ma la vita di Tenco assomiglia piuttosto a un noir, uno di quelli realistici degli anni 30, scritto da Jacques Prevert e Marcel Carné, pieno di nebbie e di personaggi ambigui che celano la loro vera identità dietro un cappotto lungo e un cappello calato ad arte sugli occhi, ed è quindi logico, quali che ne siano le ragioni, che il protagonista vada incontro all’inevitabile scacco del destino, a una sconfitta solo apparente che gli conferirà una statura tragica degna della sua arte, un riconoscimento postumo alla sua diversità e al suo valore.
Con l’ultima di quelle imprevedibili oscillazioni tipiche del suo carattere, Tenco, all’alba della protesta giovanile, spiazza tutti accettando la proposta di partecipare al diciassettesimo Festival di Sanremo, in coppia con la cantante francese Dalida.

Potrebbe essere una mossa della Rca per bissare il successo della coppia “sensual/tenebrosa”, “bonnie & clyde, “intellettuale vs ragazzina non proprio perbene” Hazlewood-Sinatra (che l’anno prima aveva sbancato con “These Boots Are Made For Walking”) - cosa che, peraltro, riuscirà decisamente meglio ai colleghi transalpini, l’anno successivo, con Serge Gainsbourg e Jane Birkin - o forse è solo l’estremo tentativo da parte del cantautore di inseguire quel successo popolare che lo ha ossessionato come un malocchio nell’ultima parte della sua carriera, questo non lo sapremo mai. Quello che è sicuro è che la sua ultima canzone, “Ciao amore, ciao”, svilisce uno dei testi più lucidi e poetici mai scritti sullo spopolamento delle campagne e lo sradicamento culturale degli emigranti (“in un mondo di luci sentirsi nessuno/ (…) non saper far niente in un mondo che sa tutto/ e non avere un soldo neanche per tornare) e una certa carica rhythm’n’beat nella melodia convenzionale da canzonetta sanremese e, in pratica, non piace a nessuno (men che meno all’autore stesso), viene bocciata dal voto popolare (!?) e definitivamente esclusa da una commissione di esperti (!?) adibita a eventuali ripescaggi.

La fine è nota: il gesto, voluto o meno, simbolico o no, fa più rumore del boato di una Walther Ppk calibro 7,65, quanto al resto, non spetta certo a noi dire l’ultima parola, dato su quest’ennesima vergogna italiana s’è appena chiusa un'inchiesta della magistratura.

Una vita inutile

Dopo la sua tragica scomparsa le tre case discografiche con cui aveva inciso continueranno a sfruttare la sensazione dell’avvenimento e l’alone di mistero che tuttora aleggia sul personaggio pubblicando con successo un sfilza di antologie divise per periodo (cinque la Ricordi, due la Rca e una la Jolly/Joker). Nel nome di Tenco si affermerà, altresì, una battaglia per una musica pop di qualità, “alternativa” ai circuiti mediatici della grande distribuzione, libera dall’assillo del successo popolare e del consenso di massa, la testimonianza prima e la sopravvivenza poi di mondi altri e possibili all’interno di questo angusto e vilipeso universo culturale.
Nel 1972 Amilcare Rambaldi costituisce il Club Tenco, che due anni più tardi diventa anche un premio - omaggio ai valori tramandati dal cantautore piemontese e prestigioso riconoscimento all’eccellenza nell’ambito della canzone d’autore - assegnato, nel corso di più di trenta edizioni, ad alcuni fra i maggiori esponenti della musica italiana (De André, Conte, Guccini, Vecchioni, Gaber, Jannacci, Baustelle) e internazionale (Ferrè, Brassens, Brel, Cohen, Newman, Mitchell, Donovan, Waits, Cave, Cale).

Luigi TencoNumerosi sono, inoltre, gli omaggi musicali e i riferimenti a Tenco nella storia della canzone popolare. Oltre a una infinità di cover e tributi che coinvolgeranno esponenti vecchi e nuovi, provenienti sia dalla musica tradizionale sia da quella alternativa (dai Nomadi ad Alice, da Guccini a Capossela, dai La Crus a  Parente, dagli Afterhours a Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo, da John De Leo a Mike Patton). Particolarmente significativi, per la loro valenza simbolica, sono alcuni versi a lui dedicati nel corso degli anni: da “Preghiera in Gennaio” di Fabrizio De André, scritta di getto il giorno dopo la morte dell’amico, che onora nel suo lungo addio serbandogli addirittura un posto in paradiso (“Quando attraverserà l'ultimo vecchio ponte/ ai suicidi dirà baciandoli alla fronte/ andate in paradiso, laddove vado anch'io/ perché non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio”) a “Festival” di Francesco De Gregori (“Bufalo Bill”, 1976) che difende lo spessore umano di Tenco e la sua tormentata fragilità dalle speculazioni più morbose ("qualcuno ricordò che aveva dei debiti, mormorò sottobanco che quello era il motivo/ Era pieno di tranquillanti, ma non era un ragazzo cattivo") e mette in risalto l’opportunismo con cui, dopo la tragedia, molti colleghi e discografici fecero a gara pur di brillare di macabra luce riflessa ("si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca/ tutti dicevano: Io sono stato suo padre!', purché lo spettacolo non finisca"). Più recentemente, nuovi omaggi sono venuti dai Baustelle, che in “Baudelaire” (“Luigi Tenco è morto per te”) scorgono nel suo gesto un’aura quasi messianica, accostandone la figura a quella del grande poeta francese, e da Fabri Fibra, che, al termine di una grottesca invettiva contro i king maker del pop italiano, vi si identifica nel pezzo “Andiamo a Sanremo” (“lo trovano per terra sdraiato sul tappeto/ con una pistola in mano e un buco in testa/ non sono certo il primo che protesta/ che protesta a Sanremo!”).

Si ringrazia il sito Luigi Tenco 60's - La Verde Isola (http://www.luigitenco60s.it/) per il materiale d'epoca messo a disposizione e per la passione profusa nel tramandare la memoria del cantautore di Cassine.

Luigi Tenco

Discografia

Luigi Tenco (Ricordi, 1962) 6,5
Luigi Tenco (Jolly/Joker, 1965) 7
Tenco (Rca, 1966)6
Ti Ricorderai Di Me (antologia, Ricordi, 1967)6
Se Stasera Sono Qui (antologia, Ricordi, 1967)7
Pensaci Un Po' (antologia, Ricordi, 1969)5
Luigi Tenco (antologia, Rca, 1972)6
Luigi Tenco Canta De André, Jannacci, Bob Dylan (antologia, Joker 1972)5,5
Agli Amici Cantautori (antologia, Saar, 1977)6
Luigi Tenco (antologia, Ricordi, 1984)8
Tenco (2 cd, antologia, Bmg, 2002)8
Pietra miliare
Consigliato da OR

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Testi
Sito non ufficiale
 Caso Tenco: le prove dell'omicidio
 VIDEO
  
Vedrai, Vedrai (registrazione Rai anni 60)
Io Lo So Già (videoclip da Tenco, 1965)
La Mia Valle (con Giorgio Gaber, registrazione Rai, 1964)