Zen Circus

Zen Circus

Benvenuti nel Circo Zen

Un combat-folk sanguigno, condito da riff e tamburi arrembanti. Un immaginario da neorealismo proletario, senza ombra di retorica o melodramma, zeppo di ironia amara, iconoclastia e slanci di metafisica al dettaglio. Questo sono gli Zen Circus, band pisana che ha scalato i gradini dell'indie-rock italiano diventando una delle band più acclamate della propria generazione.

di Claudio Lancia

Ritornelli orecchiabili, riff che ingolosiscono, tamburi arrembanti. Gli Zen Circus hanno rielaborato in modo personale la lezione del folk-punk. Con testi che attingono a un immaginario da neorealismo proletario senza ombra di retorica o melodramma, zeppi di ironia amara, iconoclastia e slanci di metafisica al dettaglio. Un percorso, quello della band di Pisa, iniziato a metà degli anni 90, il periodo d'oro del rock "alternativo" italiano. Andrea Appino ha tante storie da raccontare, i suoi testi non sono conditi da facili slogan, ma si srotolano in ragionati resoconti metropolitani dei nostri tempi, narrati in maniera densa e personale.

L'embrione iniziale della band, che allora si faceva chiamare "The Zen", era composta da Andrea Appino (voce e chitarra), Ufo (chitarra) e Teskio (batteria). Dopo un primo album autoprodotto, About Thieves, Farmers, Tramps and Policemen (1998), passato piuttosto inosservato, nel 2001 i ragazzi pubblicano Visited By The Ghost Of Blind Willie Lemon Juice Hamington IV, primo progetto a nome Zen Circus, attraverso il quale iniziano a esprimere, seppur in maniera ancora non completamente a fuoco, quelle che sarebbero divenute le caratteristiche peculiari del primo decennio di vita del gruppo. Un sound fortemente influenzato da Violent Femmes e Talking Heads (ascoltate un po' "Drivin' In My Car"), ma dal quale traspira soprattutto l'amore e la devozione per i Pixies - sia nella variante inglese ("Milk Legs", "Weak Love") che spagnola ("Mexican Requiem") - omaggiati persino nei titoli ("Where Is My Heart?" richiama chiaramente "Where Is My Mind?").
Il cantato è ancora in lingua inglese e le atmosfere decisamente lontane da quelli che risulteranno i loro lavori più fortunati, ma i primi germogli sono comunque evidenti. La band mostra grande duttilità, alternando variegati aromi alt-rock di derivazione nineties a deliziosi siparietti country-folk (l'accoppiata "Chicken Factory" / "Jack Is American"), sofferti blues (la conclusiva "HF Modulator Blues") e riuscitissime dichiarazioni d'intenti. Il titolo della programmatica "Folk Punk Rockers" (che apre la tracklist) è la migliore sintesi possibile delle strade che il trio dimostrerà col tempo di voler percorrere.

Ci vorrà però il disco seguente, Doctor Seduction, pubblicato nel 2004, per iniziare a far parlare in maniera più diffusa di loro. Alla batteria Karim Qqru prende il posto di Teschio, restano costanti le presenze di Appino (voce, chitarre e tastiere) e Ufo (basso e cori). In Doctor Seduction il sound del gruppo decolla, diventa un rock convincente, appena venato di un'elettronica poco invadente, mantenendo per ora tutte le parti cantate in inglese. Buone canzoni, nelle quali non viene ancora espresso in maniera evidente il carico di ironia che caratterizzerà i lavori successivi. Si continua a restare più seriosi, assegnando una grande attenzione alla cura degli arrangiamenti. La critica inizia ad accorgersi di loro e il pubblico ai concerti aumenta, pur restando - per il momento - gli Zen Circus un fenomeno fondamentalmente di nicchia, un culto del circuito underground.
Le indiscutibili somiglianze con Violent Femmes e Pixies non lasciano trasparire ancora del tutto la forte personalità che si delineerà di lì a poco, ma per il momento gli Zen Circus funzionano benissimo così. Fra seduzioni surf giovanilistiche ("Time Killed My Love"), rock più seriosi ("Welldone", nella quale si può ritrovare l'eco della loureediana "Vicious"), validi spunti post-punk ("It Turns Me On"), rotondità folk-pop ("Sweet Me") e la miglior imitazione dei Pixies mai eseguita in Italia ("Sailing Song"), il disco getta quei semi che si dimostreranno in grado di germogliare pienamente negli anni successivi, consentendo al trio toscano di raccogliere il meritato successo.

Nel sucessivo Life and Opinions of Nello Scarpellini, Gentleman, sorprende la capacità di rielaborare un ampio spettro di influenze attraverso la lente di un'ironia dissacrante, tagliente, che non aggredisce soltanto attraverso la scrittura dei testi, ma anche per mezzo della componente musicale. Tra lo-fi, retrogusto vintage e il calore della registrazione analogica, il quarto lavoro degli Zen Circus mette in pista un'allegria contagiosa, lontana dalle asperità intellettualoidi di certo rock italiano e più propensa a giocare con le carte di una semplicità mai minata dal virus della banalità. Un surrealismo punk-pop sottoposto a variazioni sul tema, tra accenti psycho-folk e dissertazioni acustiche. Diviso in due parti ("Face 1: La Vie"; "Face 2; Les Opinions"), il disco conserva una struttura compatta, cui solo ripetuti ascolti possono rendere giustizia. Dinoccolati power-pop (metà Violent Femmes, metà Replacements) - "Dead In July" - si inseriscono con grazia in un tessuto compositivo intrigante, cui la lingua francese conferisce grazia e candore ("Les Poches Sont Vides Les Gens Sont Fous") e i ritmi caraibici una vena di esotismo sbarazzino, come avviene nella danza sbilenca de "L'inganno". Da antologia l'avvolgente minimalismo country di "A Kind Of Pop Lullaby" (vetta assoluta del disco), mentre il fantasma di Rocky Roberts, accerchiato da bambini ululanti in "I Bambini Sono Pazzi", rende bene l'idea del loro revival trasversale e surreale, come conferma lo stesso punk-folk di "Hellakka".
Si divertono a suonare, gli Zen Circus, lo senti in ogni loro singola nota. Non sanno prendersi sul serio, e forse proprio per questo sanno essere, al contempo, anche maledettamente coinvolgenti. Impossibile restare indifferenti dinanzi alla loro musica. Brani come "L'amico Immaginario" hanno quel sapore sixties che intriga e chiama al coro. Le scintille luccicanti della chitarra, la batteria pestona e goliardica (à-la Ringo Starr), il basso gommoso ed essenziale inscenano assurdi omaggi all'epoca beat, ma sanno anche navigare in torbide acque psichedeliche ("Colombia"), operare con un'anima bifronte (acustico-noise in "Summer Of Love"), accarezzare un'idea di musica leggera creativa e visionaria che traghetta l'Alberto Camerini dei primissimi lavori ai giorni nostri ("Aprirò un bar"), oppure regalare un esempio di power-ballad senza fronzoli ("Fino a spaccarti due o tre denti"). A mandare definitivamente in orbita il loro eclettismo ci pensa la strumentale "Visited By The Ghost Of D. Boon", che non puoi fare a meno di immaginare come un'outtake di lusso proveniente dalle registrazioni di "Double Nickels On The Dime". Folli come ormai sappiamo, gli Zen Circus si congedano con una "special bonus track" che mixa e diluisce in una coltre di free-noise tutto il disco, ma suonato col tasto fast forward bloccato.

Dopo oltre quattrocento concerti sparsi per l’Italia, e un decennio trascorso nell’agone della musica indipendente, nel 2008 gli Zen Circus scelgono di darsi un allure internazionale grazie alla partnership con Brian Ritchie (ex-Violent Femmes) che sfocia nel disco Villa Inferno. Ormai quarto membro del gruppo a pieno titolo (e forte richiamo per il pubblico dal vivo) Ritchie è presente anche in veste di produttore. L’abbondanza di idiomi (italiano, inglese, francese, persino slavo) e le ospitate di lusso (oltre a Ritchie, si contano le sorelle Deal, Kim e Kelly, Giorgio Canali e Jerry Harrison dei Talking Heads nella didascalica rilettura di "Wild Wild Life") rappresentano un buon compromesso fra la ricerca di una distribuzione internazionale (peccato che, garante di ciò, la tedesca Hausmusik sia fallita proprio mentre il disco era in stampa, prontamente rilevata dalla Unhip) e l’orgogliosa persistenza del loro generoso (e sfortunato) idioletto "buttero-punk".
Quest’ultimo si fa di gran lunga preferire nel beach-folk ruspante e "giancattivo" di "Figlio di puttana" (con il singer Appino che avrà pure gli occhialoni a specchio come Gordon Gano, ma canta uguale uguale a Rino Gaetano), nel sarcasmo salutare di "Vana gloria", nell’inno generazionale "Vent’anni" e nel raw hide gitano di "Narodna Pjesma". Spassoso anche se un po’ manierato l’elettro-punk da balera di "Punk Lullaby", un incrocio fra Le Tigre genere trans e i Cccp di "Rendez vous" (Kim Deal è la loro Amanda Lear), meno convincenti le clashiane "Dear Penfriend" e "Beat The Drum". "Dirty Feet" sembra invece uno scarto dei Violent Femmes (il basso di Ritchie è un marchio inconfondibile e sibillino, l’eterno adolescente che se ne sbatte d’imparare come si suona), cantato con l’enfasi seriosa e fuori luogo d’uno Springsteen acerbo. Folk-punk di buon livello, che cera di trovare una propria collocazione. E qui inizierà l'attenta valutazione nella scelta della lingua: continuare a cantare in inglese avrebbe comportato il rischio difinire in un vicolo cieco.

Andrea Appino decise quindi di iniziare a scrivere in italiano, e Andate tutti affanculo, inizialmente pensato come un Ep, pubblicato nel 2009, divenne il primo esperimento completamente pensato e realizzato in lingua madre. L'eco del sodalizio con Brian Ritchie si sente ancora, c'è un po' di Violent Femmes e c'è molta America in questi solchi, c'è il college rock degli anni Ottanta che digerisce il punk e arriva a farsi mainstream. Rem, Pixies, Replacements, pochi in Italia ne hanno imparato bene la lezione come loro, a pochi è riuscito l'amalgama tra quelle sonorità sporche e la rigidità metrica di una lingua che, si sostiene da sempre, col rock'n'roll non riesce proprio a scendere a patti. L'album è composto da dieci tracce cariche di risentimento ed ironia. Sin dal titolo si percepisce che gli Zen Circus ce l'hanno con qualcuno, e la tesi è declinata con sapienza in quasi ogni singolo episodio. "L'egoista" è una ballata marziale in cui Appino se la prende con uno incazzato ancora più di lui, pur senza arrivare a crocifiggerlo. La corsa sfrenata di "Vecchi senza esperienza", meno di due minuti senza tirare il fiato, è puro low-fi, come se se gli Hüsker Dü fossero nati a Marina di Pisa anziché nel Minnesota. Il terzo brano parla di morte e di morti e di come accade che un bambino ne capisca il significato. "It's Paradise" si srotola come una marcetta sgangherata suonata da macabri menestrelli saltimbanchi: a molti il proprio funerale piacerebbe immaginarlo così.
Dopo la nomadiana "We Just Wanna Live", con tanto di coretti da parrocchia, ecco il gioiello "Vuoti a perdere": un rockettone dal suono pieno che parla d'amore e scorciatoie morali(stiche?), con un ritornello lanciato da un intreccio di chitarre sincopate e una linea di basso che Peter Buck e Mike Mills non avrebbero saputo concepire meglio. Poi, certo, a cantare, con classe, c'è Nada: ne esce una potenziale hit. Quindi la title track, una filastrocca caustica ma tutto sommato posata in cui non si manda a quel paese proprio nessuno nemmeno nel ritornello, che d'altronde non c'è. "Amico mio" e "Ragazza di provincia" tornano a guardare al di là dell'Atlantico (anche ai Byrds, stavolta), e già dai titoli si può intuire senza eccessivo sforzo d'immaginazione come non si tratti esattamente di dichiarazioni d'amore. In "Gente di merda" siamo dalle parti di un hard-rock che non fa sconti di alcun genere all'appeal da canzonetta. Non ne fa nemmeno Appino, che ci va giù duro e trova anche il modo di incastonarci quello che potrebbe essere il manifesto dell'intero disco: "E' solo mia quest'ironia/ ma io ho voglia di scherzare/ e di volare via/ a prendersi sul serio ci vuole molto poco/ la storia ce lo insegna". Per chiudere gli Zen Circus scelgono di affidarsi al loro irriverente "Canto di Natale", una ninnananna che ritrae un giovane tossico alle prese con un pranzo di Natale che non finisce mai e un pusher maghrebino che non ne vuol sapere di accettare un paio di guanti nuovi a integrazione dei venti euro in contanti che lui, il tossico, si ritrova in tasca.

A questo punto gli Zen Circus iniziano ad acquisire una certa notorietà: da quando hanno optato per il cantato in italiano e hanno virato le proprie canzoni in tonalità pop il loro peso nella scena alternativa italiana è gradualmente aumentato. Con Nati per subire (2011), la formazione pisana continua a percorrere la medesima strada, con convinzione ferma e risultati più che buoni. Nelle nuove undici canzoni Appino insegna che le parole sono non solo importanti, ma anche preziose. Che sputare rabbia o rompere gli argini del proprio flusso di coscienza e chi s'è visto s'è visto è troppo facile, come spaccare vetrine, come voler spegnere incendi scagliando estintori contro le fiamme. Intendiamoci: il ragazzo non si tira indietro di fronte a niente, parla di Dio, di morale, di conformismo e di utopia, ma non ha alcun bisogno di indossare maschere di sorta, di mettersi in testa caschi o neri cappucci, di nascondersi dietro a qualcosa. Fa politica, Appino, perché ormai se lo può permettere. Ascoltate "I Qualunquisti", che arriva più o meno a metà dell'album, ascoltate "La democrazia semplicemente non funziona". Ascoltatele tutte, queste canzoni, e non ci troverete scorciatoie. La storia di "Franco", per esempio, Franco l'operaio rumeno che dorme in macchina o in magazzino, che pensa alla moglie e all'amante lontane e la sera si fa portare in giro per locali dai colleghi di lavoro, è un piccolo gioiello. E anche se Appino non ce lo dicesse ce la immagineremmo esattamente nella notte tra il 26 e il 27 gennaio, fredda e grigia e spolpata com'è: piglio narrativo di indiscutibile efficacia.
Poi c'è "Ragazzo eroe", presa in giro collettiva di una generazione ammalata, da Caserta a Livorno, da chi consuma le sue giornate in sala giochi a chi ascolta De André. "Nel Paese che sembra una scarpa", traccia numero uno, apertura di gran carriera, ha la stoffa del grande classico live. Quanto al finale, un po' come in "Andate tutti affanculo" con "Canzone di Natale", gli Zen Circus la buttano sul sarcasmo: la bolla finanziaria, l'equivoco indotto per cui mezzo mondo s'è convinto di poter vivere per sempre al di sopra delle prossime possibilità, si può raccontare anche con il tocco dissacratorio di "Cattivo pagatore". Folta la pattuglia di amici e colleghi chiamati a dare una mano. Qua e là si scorgono incursioni, mai invadenti, di Ministri, Dente, Enrico Gabrielli, Giorgio Canali, Il Pan del Diavolo, Alessandro Fiori. Forse la qualità dei pezzi si dimostra lievemente inferiore rispetto ad Andate tutti affanculo, ma tutti, sia le marcette che le ballate, gli esercizi di low-fi e quelli di college-rock, restano in testa dopo due o tre ascolti. Considerando le parole che si portano appresso, è la cosa migliore che ci si potrebbe aspettare da loro.

Nel 2012 la Black Candy pubblica un energetico Ep di sei tracce, intitolato Metal Arcade, Vol. 1, nel quale il trio si diverte a registrare nuove versoni più sostenute delle già note "Mexican Requiem" e "Vent'anni", inserisce la demo di "Hillybilly Cabdriver" e la precedentemente diffusa come ghost track "Punk-Oi Puppy Sex 2001", più le cover di "Polisii Pamputataas" dei finlandesi Eppu Normaali e di "Where Eagles Dare" dei Misfits, cantate rispettivamente da Ufo e Karim.  
Sulla scia di un consenso in costante crescita, il trio viene chiamato nell'estate successiva a svolgere il ruole di backing band per un fortunato tour di Nada, situiazione che allarga ancor più il seguito del gruppo, alle prese con la rivisitazione di un repertorio per gran parte nazional-popolare. 

Il 2013 viene invece speso per dare libero sfogo alle carriere soliste dei tre. Karim Qqru a gennaio, sotto la ragione sociale "La notte dei lunghi coltelli", pubblica l'apprezzato album Morte a credito, miscelando hardcore-punk, rock ed elettronica. Ufo si concentra invece su apprezzati dj set.

Ma l'evento è senz'altro l'esordio solista di Appino, Il testamento. Lo accompagnano Giulio “Ragno” Favero (basso e co-produzione), l’altro Teatro degli Orrori Franz Valente (batteria), Enzo Moretto degli …A Toys Orchestra (chitarre), Rodrigo D’Erasmo (violino). Appino canta, scrive, suona la chitarra, travasa nei testi tutto il proprio mondo interiore, frullando in ben quattordici tracce una ricca varietà di stili, passando dalla ballad folk impegnata a metà strada fra Dylan e Guccini (“La festa della liberazione”) ad una sorta di light hardcore tricolore (“Solo gli stronzi muoiono”, “Schizofrenia”), dall’indie pop rotondo e cristallino di “Passaporto" e “Fuoco!” al più tradizionale dei guitar rock in “Fiume padre”, fino alle derive electro nella seconda parte della conclusiva “1983”. Appino dimostra di saper graffiare (“Che il lupo cattivo vegli su di te”, “Specchio dell’anima”) ed elargire carezze (“I giorni della merla”, “Godi adesso che puoi”), affidandosi a liriche sempre tese e intrise di crudo realismo.
Emerge chiara la voglia di scrivere, di confessarsi, di esprimere le proprie idee e sensazioni, di aprirsi completamente, tanto che il disco risulta fin troppo denso di parole, a tratti quasi logorroico, lì dove in alcuni frangenti scelte più sintetiche sarebbero forse state più efficaci. Spicca l’omaggio al drammatico epilogo della vicenda di Mario Monicelli, che caratterizza la sentita title track. Il grande regista scelse una sorta di eutanasia volontaria, gettandosi da una finestra dell’ospedale dove era destinato a morire, affetto da un male incurabile: da questo gesto scaturisce un immaginario testamento sull’importanza della scelta, anche quella di morire, ma soltanto dopo aver terminato di scrivere liberamente la propria storia. Il testamento riscuoterà un grande successo di critica, tanto da aggiudicarsi la Targa Tenco come Miglior Esordio 2013, e la nomination nella cinquina delle Targhe MEI come Miglior Album dell'anno.

Ma il 21 gennaio 2014 è già il momento per un nuovo capitolo firmato Zen Circus: Canzoni contro la natura. Il pezzo chiave è “Albero di tiglio”, l’episodio più strutturato e maturo, forte di una trascinante coda strumentale. Trattasi della riflessione suprema (e severa) indirizzata al mondo da un dio che si manifesta sotto forma di una pianta per rimproverare gli uomini, rei di aver colpevolmente travisato troppe cose (“Voi credeste io fossi fatto/ A vostra immagine e somiglianza/ Perché lo avete letto sul libro/ Che vi siete scritti da soli / Io non ho mai avuto un figlio/ Come potrei io che sono un tiglio”). Nonsense e sarcasmo, conditi da ulteriori spunti atti a sancire la non secondarietà del mondo vegetale per la sopravvivenza di qualsiasi ecosistema (“Guardate questa vecchia quercia/ distrutta dalla vostra guerra/ Voi piangeste mille figli morti/ Ma questa pianta ne vale altrettanti”). Una sorta di resa dei conti della natura nei confronti dell’uomo e del progresso, ribadita in maniera forte nella title track, dove si ipotizzano le conseguenze di una ribellione animale e vegetale contro l’essere umano. Un intervento dell’indimenticato poeta Giuseppe Ungaretti sottolinea l’anormalità dell’essere umano, ed il suo perenne contrasto con la natura. In tutto l’album, considerabile pertanto una sorta di concept, è la natura umana ad essere analizzata: madre natura è soltanto un pretesto fatalista per meglio sviscerare il complesso animo dell’uomo. L’analisi parte diretta e convinta sin dall’iniziale “Viva”, un folk-rock barricadero sul deterioramento interiore ed esteriore delle persone comuni nei difficili tempi che stiamo vivendo. E prosegue con la successiva “Postumia”, inno sulla confusione intergenerazionale e sull’incomunicabilità: scendiamo tutti in piazza vestiti a puntino ma “ci guardiamo in faccia sempre raramente/ perché il risultato spesso è deludente”.
A regnare sono la disillusione e le difficoltà dei trentenni di oggi. La band dimostra di voler proseguire il felice matrimonio fra songwriting illuminato e attitudine rock, rifacendosi apertamente all’atteggiamento che venne tracciato per la prima volta in maniera stupefacente da Fabrizio De André nello storico tour con la Premiata Forneria Marconi. Non a caso “L’anarchico e il generale” tende volutamente ad assomigliare a “Il pescatore” che di quell’avventura divenne uno dei principali simboli. Lo stesso piglio da moderni menestrelli è presente in “Vai vai vai!” ed in “Mi son ritrovato vivo”, perennemente mediato con le istanze rock-wave ben celebrate attraverso il basso pulsante e le chitare affilate che caratterizzano “No Way”, pronta ad esplodere nel solo ritornello da stadio del disco. Rino Gaetano è senz’altro un ulteriore punto di riferimento, vuoi per il suo essere nazional- popolare, vuoi per l’irriverenza nei confronti dell’establishment precostituito. La ballata molto americana “Sestri Levante” chiude i giochi portandoci tutti intorno al fuoco a contemplare l’unico episodio rilassato dell’album. Un lavoro attraverso il quale Appino, Karim e Ufo non intendono ergersi a paladini o rappresentanti di una generazione, non intendono fornire risposte assolute al proprio pubblico, ma semplicemente constatare lo stato dell’ambiente circostante, osservato attraverso la propria prospettiva. Spesso descritto in prima persona, altre volte attraverso l’utilizzo o la creazione di personaggi in grado di riflettere la propria poetica, come nel caso di “Dalì”, non il celebre artista, bensì un dissidente destinato alla persecuzione. Sono tempi difficili, ed all’orizzonte non si scorgono spiragli rassicuranti, ma a volte una canzone può aiutare a migliorare la vita, o almeno illuminarla per una manciata di minuti.

Nel 2015 Appino trova lo spazio per realizzare la seconda opera solista, Grande Raccordo Animale, meno riuscita della precedente e più incentrata su atmosfere pop, con una scrittura focalizzati sull'esperienza del viaggio e sul cambiamento, parlando più di sè stesso che del mondo che lo circonda. Via le chitarre furiose, via ogni accenno di elettronica, via la ferocia dell’hard metal, Appino si spoglia di tutto quello che aveva contraddistinto la sua prima pubblicazione, in favore di melodie più affabili che possano trovare un’accettazione trasversale

A fine settembre 2016 è la volta di La terza guerra mondiale. Nel nono lavoro in studio, gli Zen Circus dimostrano un’idea di fondo ben precisa: suonare come un classico trio chitarra, basso e batteria, e basta, senza sovrastrutture, selezionando il meglio delle circa quaranta tracce scritte negli ultimi due anni. Il risultato è l’album più immediato e diretto fin qui realizzato da Appino, Karim e Ufo: dieci canzoni pensate come dieci potenziali hit, in grado di confermare il Circo Zen fra le realtà di spicco nell’affollato circuito indipendente italiano. Dentro La terza guerra mondiale permane il combat-folk barricadero che li ha resi celebri, a volte intriso di echi wave, soprattutto nei giri di basso di “San Salvario”, altre volte saturo di epicità, come accade nell’iniziale title track, febbrile mix di disillusione e voglia di dar vita ad una nuova era. Ma questa volta, molto più che in passato, emerge una decisa (e decisiva) vena alt-rock, sprigionata attraverso l’uso spinto delle chitarre e i ritornelli facilmente canticchiabili, come accade nell’efficace “Ilenia” (il primo singolo estratto) e nella più telefonata “Terrorista".
Non mancano gli episodi candidati a diventare nuovi inni generazionali, e stavolta ce ne sono almeno due, “Non voglio ballare” e “L’anima non conta”, una coppia di mid tempo destinati a posizionarsi fra le migliori canzoni scritte da Appino e compagnia. E come al solito il Circo Zen non te le manda certo a dire, “La terza guerra mondiale” è anche un disco che farà discutere, perché Appino è bravo nel prendere posizione e scrive senza timori, gettando nella mischia il bieco campanilismo da provincia cronica messo a nudo in “Pisa merda” (il rischio di far arrabbiare chi non saprà leggerla è altissimo) e le liriche antibuoniste della scarica electro “Zingara”, perfetta per dar vita a lunghi (e presumibilmente sterili) dibattiti. Mai lavoro degli Zen Circus è risultato più completo, e anche se la seconda parte potrebbe risultare meno efficace, c’è un sontuoso finale servito sulle note di “Andrà tutto bene”: oltre dieci minuti rafforzati da una coda strumentale dove negli ultimi secondi la band chiede - sussurrando - il silenzio, al cospetto delle macerie lasciate dal terzo conflitto mondiale. Cosa resterà in piedi? A guardare la copertina, resteranno tre ragazzi che, insensibili alla distruzione che li circonda, metteranno in scena l’ennesimo selfie scattato con il sorriso sulle labbra mentre consumano l’agognato aperitivo. Perché oggi l’importante è dimostrare di esserci: tutto il resto importa poco.

E' uno dei momenti più brillanti nella carriera del Circo Zen: i ragazzi non fanno in tempo a concludere il tour che già annunciano un nuovo lavoro che sarà pubblicato all'inizio di marzo del 2018: Il fuoco in una stanza, anticipato qualche settimana prima dal singolo "Catene", è un puzzle di quadretti familiari innestati in ambienti di provincia: mamme, padri, nonne, fratelli, sorelle, ex fidanzate, amanti, e una narrazione che dona all’insieme l’aspetto di un concept. Nulla di tutto ciò è considerabile una novità, né i racconti familiari né il filo conduttore che lega le canzoni fra loro, entrambi una costante nella poetica degli Zen. Lo scatto di Ilaria Magliocchetti Lombi scelto per la copertina immortala bene l’atmosfera, con tanti particolari ben studiati, le mani, gli occhi, i quadri appesi alla parete e quel fuoco in una stanza che idealmente potrebbe rappresentare un rassicurante focolare domestico oppure, al contrario, un incendio che divampa nell’animo dei protagonisti, questione che le liriche non intendono chiarire. Il fuoco in una stanza è un lavoro meno immediato del solito, nuova tappa della graduale trasmutazione del combat folk-punk degli esordi in un più elettrico (ed eclettico) alt-rock multicolore. Ma è anche un disco che in qualche modo segna un ammorbidimento dei temi, nel quale si parla di sentimenti per lasciare quasi del tutto da parte politica o istanze ecologiche, nel quale l’impegno sociale della band - divenuta un quartetto con l’ingresso ufficiale del Maestro Francesco Pellegrini – riguarda in particolare i rapporti interpersonali e il relazionarsi delle persone con il mondo esterno.
Meno immediato sì, ma con il passare degli ascolti queste tredici tracce si infilano dannatamente sotto pelle, tracciando un solco ancor più netto rispetto a quanto accadeva in passato: dovendo trovare una parola per descriverlo potremmo scegliere “infettivo”, sì, è un album che crea dipendenza, che cattura, con tante piccole trovate nascoste dietro ogni angolo. Prendete “Questa non è una canzone”, la traccia più strutturata del disco, oltre otto minuti suddivisibili idealmente in tre parti, forse il brano chiave: nella sezione centrale, quasi nascosto, quasi a volerlo proteggere, si staglia un crescendo epico che parte con una linea di basso, sulla quale a ogni giro viene aggiunto uno strumento o una linea vocale, dando vita a un giro armonico circolare che diventa via via maestoso, richiamando certo pop anni 60. Il decimo disco firmato Zen Circus è anche il loro più variegato, con dentro molte più influenze del solito: dall’inarrestabile flusso di rime e assonanze de “Il mondo come lo vorrei” alle ballad in odore di Sanremo (“La stagione”, la title track), dalle introspezioni di “Catene” ai chitarroni Marilyn Manson style de “La teoria delle stringhe”, dai brani che faranno saltare il pubblico in aria durante il prossimo tour (“Low Cost”, “Quello che funziona”, un omaggio alla capitale) a una “Emily” che rilancia la tradizione delle figure femminili, fino alla sentita chiusura per voce e piano “Caro Luca”. E poi gli insospettabili baustellismi innestati fra le pieghe di “Sono umano” (sentite un po’ il solo finale), “Panico” (dove ci sono anche gli anni 80 dei Cure) e soprattutto “Rosso o nero”, che contiene forti similitudini con l’attitudine eighties pop rilanciata con “L’amore e la violenza”. I testi di Appino spesso trovano soluzioni irresistibili (“Vieni a trovarci all’obitorio / Ti abbiamo prenotato un tavolo / Il dj set qui è fantastico / Salvati da questo mortorio” canta in “Sono umano”), il risultato di una foga compositiva che ha fatto allungare il minutaggio del disco sempre più, portando la band ad aggiungere ulteriori tracce e frammenti fino a lavori praticamente conclusi.

Dopo tanti dischi apprezzati sia da pubblico che critica, ma a loro modo “normali”, il Circo Zen realizza con Il fuoco in una stanza il proprio lavoro migliore, il più completo, il più eterogeneo, reso ancor più forte da un’idea centrale nitida e caratterizzante, e per la prima volta senza alcun riempitivo. Non si tratta più di raggiungere la maturità compositiva, quella è stata conseguita da tempo, si tratta piuttosto di porre il sigillo al completamento di un percorso che li pone sullo stesso livello delle più importanti band del circuito indipendente italiano degli ultimi trent’anni.

A suggellare la loro avventura musicale, giunge la partecipazione all'edizione 2019 del Festival di Sanremo, con il brano "L'amore è una dittatura", incluso nella raccolta Vivi si muore 1999-2019, pubblicata l'8 febbraio per festeggiare i vent'anni di carriera. Nell’edizione del Festival più “indie” di sempre gli Zen Circus non hanno vinto, ma hanno convinto tutti: anche sul palco del Teatro Ariston hanno confermato una coerenza e uno spessore fuori dal comune, senza snaturarsi e presevando la propria integrità artistica. Dal combat-folk degli esordi al mai scontato songwriting miscelato ai suoni alt-rock dei recenti lavori, Vivi si muore vuole essere una retrospettiva lucida e sincera, che accanto alle piccole hit del circuito alternativo non evita di lasciar spazio al lato più irriverente della band, quello grazie al quale si è ritagliata negli anni un importante spazio vitale, divenendo una delle più acclamate della propria generazione.

Passano poche settimane e il 23 aprile 2019 viene rilasciato un nuovo singolo, "Canta che ti passa", brano che dà il titolo anche ad un nuovo giro di date programmate per l'estate successiva, che si chiuderà in settembre con una festa sul roof del Lanificio 159 di Roma. I cori di "Canta che ti passa" sono affidati alle voci di Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, meglio noti come La Rappresentante di Lista. Ma i ragazzi non si fermano: promozionato attraverso un lungo tour per le librerie della penisola, il 10 settembre dello stesso anno esce il primo anti-romanzo del Circo Zen, "Andate tutti affanculo", edito da Mondadori e scritto dalla band assieme all'autore Marco Amerighi.
Nel 2020 tutti fermi, causa restrizioni da Covid-19, ma a inizio ottobre esce un nuovo singolo, "Appesi alla luna", mentre alla fine dello stesso mese il Maestro Francesco Pellegrini pubblica il proprio esordio solista, Fragile, anticipato nelle settimane precedenti da due Ep che avevano svelato otto tracce sulle nove complessive. Nel disco si segnalano le partecipazioni di Motta, Appino, Giorgio Canali e Lodo Guenzi de Lo Stato Sociale.

A inizio novembre 2020 esce L’ultima casa accogliente, lavoro inevitabilmente rallentato, dall'emergenza Covid. Quando tutto era pronto per iniziare le registrazioni, che questa volta avrebbero dovuto svolgersi negli Stati Uniti, Appino, Ufo e Karim (più Francesco Pellegrini che ha contribuito con le sue chitarre) si sono ritrovati costretti nelle proprie case. Ma l’innato spirito di adattamento degli Zen Circus ha fatto sì che la situazione fosse trasformata in un’opportunità, quella di potersi dedicare all’affinamento delle singole canzoni senza fretta, curandole sin nei più piccoli dettagli. Nonostante il plus temporale a disposizione, il risultato finale non ha perso un grammo dell’urgenza espressiva, della veracità che da sempre contraddistingue l’attività del trio. Anche questa volta le pareti domestiche ospitano dinamiche non di rado complicate e autobiografiche (“Catrame”), un rifugio a volte ostile, ma nel quale si è circondati da elementi cari e personali (“Ciao sono io”). Il lockdown non ci ha dato scelta: tutti abbiamo cercato di rendere le nostre abitazioni più calde e accoglienti, nella consapevolezza che vi avremmo trascorso in quasi totale isolamento diverse settimane. Case dalle quali poi magari si è costretti a fuggire, perché diventate troppo strette, o troppo scomode, come nel caso della vicenda narrata in “Bestia rara”, canzone sull’inevitabilità di certe scelte che restano stampate sulla pelle per sempre.
E’ uno dei momenti chiave di questo album, sia dal punto di vista testuale che da quello musicale, arricchito da una di quelle code strumentali che contraddistinguono il Circo Zen quando ama osare di più. E l’affare si ripete nella conclusiva title track, oltre sei minuti che alzano ulteriormente l'asticella qualitativa, nei quali si rintraccia l’influenza degli ascolti formativi del trio, dai Pink Floyd ai Radiohead, con il basso di Ufo in grande evidenza e le ultime note affidate al solo pianoforte, suonato da Francesco Pagni. Gli altri momenti topici de L’ultima casa accogliente li scoviamo nel crescendo emozionale di “Non” (chiusa da un assolo di chitarra dal sapore vintage), nella poetica ambientazione lusitana della morbida “Appesi alla luna” (con la chitarra elettrica di Francesco Motta e i cori di Andrea Pachetti) e nella sentita invocazione di “Come se provassi amore”, uno dei prossimi inni live degli Zen Circus. L’ultima casa accogliente è un disco liberatorio, e al tempo stesso introverso, nel quale Andrea Appino si mette spesso a nudo, inserendo anche dolorosi riferimenti molto personali, come la recente malattia del padre. Un talento autorale, quello di Andrea, che questa volta trova nel confinamento pandemico (anche se molte liriche sono precedenti all’emergenza Covid) lo spunto per raccontarci di complesse relazioni interpersonali e di rifugi accoglienti che possono trasformarsi in prigioni. Rifugi interpretabili come una casa, sì, ma anche come il mondo intero, o ancor più semplicemente come il nostro stesso corpo. Così fragile e vulnerabile.

Il passo successivo, Cari fottutissimi amici, pubblicato a maggio 2022, è il lavoro più corale dei Zen Circus. Dieci tracce inedite registrate con amici vecchi e nuovi, attraverso le quali AppinoUfo e Karim Qqru dimostrano l’innata capacità di sapersi plasmare, adeguandosi alle caratteristiche di ogni singolo ospite, scelto sulla base del principio dell’affinità personale, più che artistica. Dalle sperimentazioni kitchen-ambient condotte con Musica da Cucina all’incazzatura urban-trap condivisa con Speranza, da una “Johhny” che si posiziona davvero a metà strada fra Zen Circus e Fast Animals & Slow Kids alla strutturata mini suite cantata assieme al caro Francesco Motta. Vecchie conoscenze e incontri più recenti, per un lavorto nato all’insegna della libertà, ben sintetizzato dall’autoscontro immortalato nell’immagine di copertina.
Un grande luna-park nel quale si susseguono cantautori di spessore (Brunori Sas, Luca Carboni) e più giovani rivelazioni del pop e del rock indipendente, con gli Zen che restano completamente legati al proprio suono nel caso di “118”, brano esegito con l’attore Claudio Santamaria. Il momento più sorprendente, e al contempo anche più “pop” (ma pop come può intenderlo il trio toscano), è invece “Meravigliosa”, confezionata assieme a Ditonellapiaga e prodotto da Tommaso Colliva, nella quale Appino cerca e trova una linea vocale più “aperta” del solito. Fra i temi ricorrenti di “Cari Fottutissimi Amici” ci sono nostalgia, disillusione, la consapevolezza di essere alla ricerca di un mondo che oramai non esiste più, quello degli anni andati. E ancora le difficoltà comunicative con le nuove generazioni, ma allo stesso tempo la certezza che gli estremi finiscono sempre per toccarsi, prima o poi. Tutto un bel diverttissement, che sottolinea la rinnovata voglia di condivisione presente fra colleghi musicisti, che dalle nostre parti non percepivamo in maniera tanto spiccata dall’età dell’oro dell’alternative italiano, parliamo oramai di quasi trent’anni fa…

Scollata definitivamente di dosso l'etichetta di “folk warriors” da centro sociale occupato, gòi Zen Circus si sono guadagnati un ruolo ben più ampio nell’ambito del cantautorato rock italiano più impegnato, rigorosamente svincolato da qualsiasi logica di compromesso. In particolare, i lavori più recenti hanno fotografato il definitivo salto in avanti nel processo di maturazione della band toscana.

Contributi di Giovanni Dozzini ("Andate tutti affanculo", "Nati per subire"), Francesco Nunziata ("Vita e opinioni di Nello Scarpellini, gentiluomo") e Simone Coacci ("Villa Inferno")

Zen Circus

Discografia

THE ZEN
About Thieves, Farmers, Tramps and Policemen (Autoprodotto, 1998)
ZEN CIRCUS
Visited by the Ghost of Blind Willie Lemon Juice Namington IV (Iceforeveryone, 2001)

5

Doctor Seduction(Venus, 2004)

6,5

Life and Opinions of Nello Scarpellini, Gentleman (I Dischi de L'Amico Immaginario, 2005)

6

Villa Inferno (con Brian Ritchie, Unhip Records, 2008)6,5
Andate Tutti Affanculo (Unhip, 2009)7

Nati per subire (La Tempesta, 2011)

6,5

Metal Arcade Vol. 1 (Ep, Black Candy, 2012)

6,5

Canzoni contro la natura (La Tempesta, 2014)

7

La terza guerra mondiale (La Tempesta, 2016)7
Il fuoco in una stanza (Woodworm / La Tempesta, 2018)7,5
Vivi si muore 1999-2019 (antologia, Woodworm / La Tempesta, 2019)7,5
L'ultima casa accogliente (Polydor/Universal, 2020)7
Cari fottutissimi amici (Capitol/Universal, 2022)6,5
APPINO
Il testamento (La Tempesta, 2013)6,5
Grande Raccordo Animale (La Tempesta/Sony, 2015)6,5
Humanize (Woodworm, 2023)
LA NOTTE DEI LUNGHI COLTELLI
Morte a credito (Black Candy, 2013)6
MAESTRO PELLEGRINI
Fragile (Black Candy, 2020)7
Pietra miliare
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