Goldfrapp

Goldfrapp

La regina dei boschi

"Felt Mountain", registrato in un bungalow in mezzo ai boschi, è l'album che ha lanciato i Goldfrapp, una delle nuove rivelazioni del laboratorio trip-hop di Bristol. Merito soprattutto della cantante Alison, che con la sua voce da sirena evoca paesaggi sonori e visioni da un futuro inquietante. Poi, però, è arrivata la svolta sexy-electroclash a complicare le cose. Fino al "ritorno a casa"

di Claudio Fabretti

Prendete arrangiamenti dimessi e spettrali alla Portishead, conditeli il gusto etereo-onirico dei Cocteau Twins e con il lato più sensuale di Bjork, immergete il tutto in paesaggi sonori morriconiani e in atmosfere jazzy da colonne sonore anni Sessanta, e avrete l'essenza sonora dei Goldfrapp, una delle rivelazioni di questo scorcio di nuovo millennio.

La band guidata dalla bionda cantante, compositrice e tastierista Alison Goldfrapp è l'ennesimo frutto della fertile scena di Bristol, dove deejay, musicisti e maghi degli studi di registrazione hanno costruito quel formidabile laboratorio trip-hop che ha già sfornato personaggi come Portishead, Massive Attack e Tricky. E proprio insieme a quest'ultimo inizia la carriera di Alison, un'artista eclettica che, durante i suoi anni di studio presso il dipartimento di arte della Middlesex University, aveva già realizzato performance e installazioni, combinando suoni e immagini. Mentre è ancora al college, Alison collabora all'album d'esordio di Tricky, "Maxinquaye", e lo accompagna in tour. Nello stesso periodo partecipa anche alla realizzazione di "Snivilisation" degli Orbital.

Nel frattempo, la cantante inglese inizia a scrivere proprie composizioni, fino a quando una sua cassetta arriva a Will Gregory, compositore di colonne sonore per film, che resta colpito dalle sue qualità vocali e di scrittura. Tra i due comincia così un sodalizio sotto il nome di Goldfrapp. I primi progetti sono alcune composizioni ispirate alla musica classica, alle colonne sonore anni Sessanta, al pop francese.

Temi delicati che, riadattati con droni elettronici, propongono ballate malinconiche e pervase da una tensione drammatica. Un repertorio che non sfugge alle attente orecchie della Mute Records (l'etichetta di Nick Cave e Depeche Mode) che li scrittura, pubblicando il loro album d'esordio, Felt Mountain (2001), realizzato anche con l'aiuto di Adrian Utley dei Portishead e John Parish, il produttore di PJ Harvey.
L'album ottiene subito un buon successo di critica e di pubblico, grazie anche al traino pubblicitario del singolo "Lovely Head" (colonna sonora dello spot Bmw): è una ballata dalle tinte "noir" degna d'una colonna sonora di un film di David Lynch. Un saggio di bravura di Alison Goldfrapp, il cui canto straziato da sirena si libra, sensuale ed etereo, in un vortice di tastiere elettroniche e fischi campionati, regalando uno straordinario effetto visionario. La voce di Alison risalta per la sua incredibile versatilità, che riesce a unire fragilità e potenza, estensione e passione.
"Abbiamo registrato 'Felt Mountain' in un bungalow in mezzo al nulla - racconta Alison -. Era tutto molto tetro, e la notte era piena di strani rumori degli animali nel bosco". Uno scenario che i Goldfrapp hanno voluto riprodurre in copertina, con le immagini di una foresta tedesca. "Serviva a dare l'idea di dove il disco era stato concepito. Mi sono occupata personalmente della grafica e ho scelto le immagini. Volevamo esprimere il senso di un viaggio che parte attraverso i boschi". Tra le influenze della band, non solo la scena di Bristol: "Ci interessiamo molto anche di musica classica - spiega Alison - specie Wagner, Strauss e Bach, e poi amiamo molto artisti come Ennio Morricone, Françoise Hardy, Beach Boys, Add N To X, Michel Legrand".
Le nove tracce di Felt Mountain alternano emozioni, passioni, armonia, riuscendo a mescolare le sonorità cineamatiche di John Barry ed Ennio Morricone con il battito moderno di Bristol. A partire dai possenti arrangiamenti di "Human" fino alla vena malinconica di "Deer Stop" o alla commozione di "Horse Tears". Ma - oltre a "Lovely Head" - a incantare è soprattutto "Utopia", un'altra melodia struggente condotta dal dolce soprano di Alison attraverso un mare di effetti elettronici, riverberi e dissonanze.

Le atmosfere dei Goldfrapp (ben rese anche dal vivo, come testimonia la loro esperienza di band supporter di Nick Cave) riescono ad ammaliare anche per la commistione tra elementi classici e moderni, batterie e loop sintetici con drammatici mellotron, violini e percussioni tribali. E anche dal vivo Alison - che si presenta in uno sgargiante look oro - si dimostra una front-woman di tutto rispetto, capace di attrarre l'attenzione del pubblico con i suoi vocalizzi stranianti e i suoi sussurri mesmerici.

Le storie firmate Goldfrapp sono popolate di visioni da un futuro desolato e inquietante: folli amori, terrificanti società abitate da sinistri androidi celati sotto sembianze umane, disperazione e redenzione. Come scrive Valeria Rusconi su Rockol a proposito di Felt Mountain, "è come se il pungente odore del sottobosco si svelasse insieme alla musica, con la sua terra scura di humus, gli aghi lucidi delle conifere e le loro cortecce resinose; come se la musica straniata fatta di sogni perversi si intrecciasse con i suoni di una foresta montana misteriosa e inquietante, dove mille creature si muovono notte e giorno". Un'atmosfera incantata, insomma, "come se Alison Goldfrapp, severa dama dallo sguardo assente e dai folti boccoli biondi, non fosse umana, ma creatura mitologica regina delle montagne e dea dei boschi. Una regina dei ghiacci che si aggira per valli sconfinate, monti innevati, distese accecanti di neve, sospesa in aria da ali invisibili; con la sua voce leggera e malinconica che sussurra parole che percorrono spazi infiniti, fino a conquistare la mente, come il canto stregato di una sirena". Un talento vero che non poteva sfuggire a un attento osservatore del rock mondiale come Peter Gabriel, che ha voluto Alison accanto a sé in "Ovo".

Nel 2003 i Goldfrapp tornano con Black Cherry, virando verso un elettro-pop saturo e sensuale, parente neanche troppo lontano dei Garbage (e quindi, indirettamente, dei Blondie). Ma la conversione di Alison Goldfrapp da oscura vestale dei boschi a performer languidamente sexy riesce solo in parte. E nella metamorfosi della "Ciliegia Nera", purtroppo, si perdono le tracce di quell'aura tetra e arcana che aveva reso magico "Felt Mountain". La bionda Alison resta una cantante coi fiocchi, intendiamoci. Un soprano cristallino, capace di inerpicarsi in sontuosi vocalizzi da sirena. Ma nei panni dell'incantatrice sexy di "Black Cherry" sembra non riuscire più a trasmettere lo stesso fascino onirico che canzoni come "Lovely Head", "Human" e "Utopia" ci avevano saputo donare.
L'iniziale "Crystalline Green" riesce ancora a mantenere per qualche attimo quel pathos fatale, seppur incastrato in un solido muro di synth e di battiti robotici. Ma già a partire dalla successiva "Train" si svela il vero volto del disco: un pop iper-meccanizzato, dominato da moog ossessivi, in cui Alison sembra trovarsi a disagio, come se la Kate Bush di "Wuthering Heights" fosse rimasta intrappolata in un tormentone techno dei Prodigy. La title track fa filtrare attraverso l'opacità del suono qualche raggio di sole, specie per merito di Alison, i cui vocalizzi ritrovano a tratti il lirismo di "Felt Mountain". Gli scratch alla Portishead e il battito cupo non riscattano, invece, "Tiptoe", che ha il torto di banalizzare il canto prodigioso di Alison (qui sdoppiato in due voci diverse) immergendolo una melodia insipida.
E' semmai "Deep Honey" a restituirci la chanteuse maliarda e sensuale di "Utopia" e "Lovely Head", ma è solo una breve parentesi. Con "Twist", infatti, si scade subito in uno sguaiato synth-pop degno degli ultimi Garbage, condito da qualche sprazzo di house e da un testo sessualmente esplicito ("Metti la tua sporca faccia da angelo/ tra le gambe e il pizzo delle mie mutande".) che stona tragicamente in bocca all'angelica Alison. In "Strict Machine" sembra perfino di intravedere lo spettro della Donna Summer di "Love To Love You Baby" dietro una muraglia di synth e percussioni, ma è una visione effimera e tutto sommato disturbante. A risollevare un po' il morale provvede "Slippage", fusione "satura" di battiti industrial e sospiri sensuali: ottimo esercizio di stile, ma, ancora una volta, a mancare è l'anima.
I suoni sono ricercati, la produzione è superba, ma da un talento nato come Alison Goldfrapp c'è da aspettarsi molto di più, specie dopo averne intravisto le grandi potenzialità lungo i sentieri spettrali di Felt Mountain.

Nel 2005 Supernature completa la parabola discendente di Alison Goldfrapp.
Il singolo "Ooh La La" è un tormentone techno-pop imbevuto di electroclash, commerciale, prevedibile, arretrato negli arrangiamenti. Il fatto che l'electroclash stia finendo il suo ciclo vitale non aiuta, ma l'errore si reitera con fastidio per tutto il disco. "Lovely 2 C U", "Ride A White Horse", "Satin Chic" sono canzoni senza mordente, senza fascino. Sarebbero, se esistesse, autoplagio. Quel poco di sanguigno electroclash che c'è viene evirato da ballate prive di fantasia e significato, come "Let It Take You" e "Time Out From The World".
Si salvano la numaniana "Koko" e soprattutto la solenne, elegantissima "U Never Know", dove un esercito di pipistrelli-lucciole recapita ad Alison un grammy per la voce più bella dell'anno; ma non il pallido synth-pop di "Number 1", per la quale non me la sento di scomodare né Moroder né lo Studio 54. La canzone più carina è, crudele ironia, la bonus track della versione giapponese.

A sorpresa, però, Seventh Tree (2008) torna alle origini. Dieci tracce per una quarantina di minuti nei quali si alternano melodie fatate in costante bilico tra pop sognante, rimandi elettronici ai Portishead e spruzzi di pioggia. E la sensazione è che dopo le incerte divagazioni electro, i Goldfrapp siano finalmente tornati a casa. L'iniziale "Clowns" illumina la via come con una melodia radiosa tra cinguettii e un canto da lasciare a bocca aperta. Ma c'è anche spazio per la giocosa perfezione della raffinata e beatlesiana "Happiness", in bilico fra elettronica rarefatta e pop d'autore. Con "Eat Yourself" l'aria si fa improvvisamente seventies, tra riverberi à-la Kate Bush, e un finale strappalacrime. Pare d'improvviso di trovarsi immersi in un tramonto autunnale: foglie secche, brezza leggera e romantica tristezza. I morbidi saliscendi di "Cologne Cerrone Houdini" sono forse il vertice del disco.
Sull'altro piatto della bilancia vanno annotate tracce un po' meno memorabili. A cominciare dal singolo "A&E", che rappresenta il lato radio-friendly del progetto: 3 minuti e 19 secondi piuttosto piatti. E se c'è forma e sostanza hippie in "Caravan Girl", accompagnata da tastierine old style, l'orecchiabile "Some People", condotta magistralmente da una performance vocale di assoluto livello, fa tuttavia storcere il naso per un eccesso di barocchismi.
Nonostante le sbavature, però, una decisa inversione di tendenza.

Con Head First (2010), tuttavia, il duo di Bristol ancora una volta sterza bruscamente, fuggendo verso un forse troppo facile (e prevedibile) revival eighties, come i tempi pare quasi richiedano per legge.
Si naviga in un mare chiarissimo, nessuna nube e un sole che splende. Su Mtv imperversa il video di "Rocket", singolo di lancio, nel quale Alison Goldfrapp percorre la sua Route 66. Revival a manetta, colori fluo in ogni dove, synth che spazzano via ogni cosa e la solita calibratissima voce della angelica miss di Bristol. E pure la successiva "Believer", nella sua banalità dream-danzereccia, sbanca, imprimendosi subito nella memoria.
Motivetti da cantare sotto la doccia? Per il momento sì; "Alive" infila la terza potenziale hit fra tastiere limpidissime e pailettes. Il synth-pop vecchia scuola si stende sulle note di "Dreaming", forse la vetta dell'album, e nell'etereo gorgeggiare della title track. Ma è un fuoco di paglia, perché nel prosieguo dell'ascolto la buona Alison riesce a inanellare una serie di tracce non brutte, ma piuttosto banali. Ci si spegne sull'irruenza pseudo sensuale di "Shiny And Warm" o nell'animalesca "Voicething" (vedi Fever Ray).
Insomma, un disco che, nonostante qualche sussulto, appare un nuovo buco nell'acqua.

Il 2012 è un anno di bilanci: la Mute pubblica The Singles, una scintillante antologia con due inediti ("Melancholy Sky" e "Yellow Halo"). Le raccolte di singoli non sono precisamente il punto di approdo di una band trip-hop, quindi qualcosa dev'essere cambiato per forza: si aggiunga a questo la costante copertura mediatica della carriera di Alison Goldfrapp. "Ooh La La", vezzo audiovisivo da sfilata di moda, è posta in prima fila a segnare il passaggio di consegne tra il passato di Bristol e la nuova mondanità.
Oltre alle vette di "Rocket" e "Lovely Head", la produzione artistica del duo pare arenata su spunti emozionali e stilistici ambigui - troppo patinati per il pubblico "duro e puro" quanto manieristici per gli appassionati del genere. Anche se il vero blocco, nello scorrere delle tracce di "The Singles", sembra essere la vena compassata e introspettiva (ma fino a che punto?) di questo pop a basso voltaggio.
Non tutti i singoli sono stati presi in considerazione: i brani esclusi dalla scaletta sono "Caravan Girl" (Edit), "Clowns", il "radio mix" di "Pilots (On A Star)", la single version di "Human", il single mix di "Twist" e il "radio edit" di "Fly Me Away".

Anche la raccolta però, così come Head First, non ottiene i riscontri sperati e un anno dopo i Goldfrapp ritornano quindi al linguaggio più intimista e onirico degli esordi, cercando nuovamente di rassicurare il loro pubblico, innamorato dell’algida perfezione di Felt Mountain ma messo a dura prova dagli sbalzi d’umore di Alison e dalla sua insaziabile fame di diventare una glamorous diva del pop, e ricordargli che sotto i lustrini e le mire da classifica loro sono sempre rimasti gli stessi.
Impossibile scoprire cosa si celi dietro il loro dualismo stilistico, se vi sia mero calcolo o imprevedibile istinto, ma con Tales Of Us (2013) i dubbi possono essere rimandati perché finalmente appagati da un album del tutto riuscito e sorretto da una buona dose d'ispirazione. Le storie qui raccontate mostrano tutte la consapevolezza di essere quanto di meglio Will Gregory e Alison Goldfrapp possono offrire a questo punto della loro carriera, infischiandosene dei riscontri commerciali e di suonare à la page, e meritano davvero il plauso che sicuramente i loro primi sostenitori gli tributeranno.
Agli appassionati del genere non sfuggirà poi il vezzo di aver intitolato con nomi propri i pezzi del disco, proprio come quel caposaldo dream-pop che è "Treasure" dei Cocteau Twins. Le similitudini col capolavoro degli scozzesi si fermano però qui, le atmosfere di “Tales Of Us” potrebbero in effetti ricordare più quelle di Victorialand, seppur meno iridescenti e in veste notturna. E’ un lavoro pacato, riflessivo, in cui viene quasi del tutto accantonata ogni velleità electro-dance a favore di un folk-pop vintage e rigoroso, e di un'elettronica così minimale da risultare quasi impercettibile. E se il risultato finale è addirittura austero, i delicati ricami acustici dell’ammaliante singolo “Drew” o di brani come “Simone” meglio non potrebbero avvolgere l’interpretazione morbida e sussurrata della Goldfrapp, stavolta più contenuta anche vocalmente.
Eccezion fatta  per la clamorosa “Thea”, che spezza letteralmente e inaspettatamente l’album, e in cui l’ugola celestiale di Alison viene sopraffatta da oscuri gorghi elettronici proprio come ai tempi di Black Cherry (ma senza perdere la delicatezza d’intenti), Tales Of Us suona compatto, come un lento continuum che richiede ascolti e dedizione per poter cogliere le comunque sostanziali sfumature tra i vari pezzi.  
Solo così si rimarrà conquistati dalla nenia al retrogusto orientale di “Jo”, dalle melodie dreamy più malinconiche di “Annabel” e “Ulla” o dalla circolare cupezza dark-wave di “Alvar”. Unico raggio di (fioca) luce che il duo di Bristol regalerà all’ascoltatore sarà evocato dalla conclusiva e placida “Clay”, non prima però di averci riportato alla mente quell’irripetibile alchimia del loro esordio con l’apertura per archi (da brividi) di “Stranger” e col tetro cabaret di “Laurel”.

A 15 anni dall'esordio, arriva la nuova svolta con Silver Eye (2017). Che il nuovo album potesse segnare un ritorno alle sonorità abrasive ed electro-clash proprie del controverso Black Cherry lo si era in fondo intuito sin dall’ascolto del non troppo appariscente singolo “Anymore”. Eppure affascina il modo in cui i due impediscono al loro pubblico di crogiolarsi con una proposta sempre sicura e confortevole, pungolandolo a ogni nuova pubblicazione, incuranti del riscontro e delle immancabili delusioni.
Perdete ogni speranza, o voi che cercate ariosi panorami montani, bucoliche poesie acustiche o suggestioni morriconiane. Provate al massimo a trovare rifugio nell’algida malia della notevole “Moon In Your Mouth” e nella spettrale “Faux Suede Drifter” o a farvi rapire dal tenue tribalismo di “Tigerman” e “Beast That Never Was”. Perché il cuore di “Silver Eye” è claustrofobico e debordante di stratificazioni industrial, complice anche il contributo di The Haxan Cloack (alla seconda collaborazione prestigiosa dopo quella con Bjork) in brani come l’oscura “Zodiac Black” e la passivo-aggressiva “Ocean”, tra i loro pezzi migliori. Anche stavolta Alison Goldfrapp riduce al minimo i cristallini vocalizzi per indugiare su un registro sussurrato (e filtrato) alle prese con melodie talvolta fin troppo impalpabili, spesso affogate dalla roboante produzione in maniera non dissimile dagli ultimi Depeche Mode. Per la prima volta nella loro carriera sembra quasi che Will Gregory abbia voluto porre freno all’ingombrante collega e non puntare sulla di lei vocalità ed esuberanza quali elementi principali della nuova proposta.
Solo in una manciata di episodi i due cercano di alleggerire i toni e di ritrovare quella vena pop che accompagnava i loro lavori più elettronici. Ci riescono vagamente, senza però intaccare la cupezza di fondo o scadere nel kitsch di “Head First” con una non irrinunciabile “Become The One” e, soprattutto, con la spedita “Everything Is Never Enough”. Soltanto “Systemagic” però, con le sue fascinazioni anni 80 à-la “Pop Muzik”, sembra possedere il giusto appeal per solleticare davvero la fantasia di pubblicitari e stilisti.

In passato Goldfrapp e Gregory sono stati spesso accusati di covare mire commerciali ogniqualvolta si addentravano in territori più electro, ma l’austerità con cui hanno permeato questo “Silver Eye” (in maniera non troppo distante da “Tales Of Us”, che ne diventa quasi l’acustica controparte) è una secca smentita. Stavolta hanno solo avuto voglia di aggiungere nuovi, tetri colori al loro sempre mutevole affresco.


Nel 2023 la bionda metà del duo elettronico decide di produrre The Love Invention in autonomia. In questa sua nuova avventura decide di farsi affiancare dal talentuoso James Greenwood e dal producer britannico Richard X con cui aveva già lavorato ai tempi di "Head First". Probabilmente è proprio dal lavoro del 2010 che riprende l’idea di esplorare la dance eighties e di ricreare atmosfere scintillanti e spensierate da ballare nei live club. La voce di Goldfrapp fluttua irresistibilmente in un raffinato tappeto di synth indossando un luminoso abito elettro-pop nella opener “Never Stop” o facendosi più soffusa e sensuale alla Kyle Minogue nella title track, un inno al potere della seduzione e dell’attrazione. L’obiettivo dichiarato è farci immergere in un mondo lussureggiante dove lasciarsi trasportare dai groove dancefloor  è l’unica strada percorribile. Ogni tentativo di abbracciare tematiche più serie (“So Hard So Hot”) appare maldestro. La cantante inglese è molto più a suo agio mentre evoca notti piene di passione (“Hotel (Suite 23)”) o intona eclettiche ballate in stile dream-pop (“Electric Blue “).
Certamente, il livello di The Love Invention sarebbe salito vertiginosamente se Goldfrapp fosse riuscita in ogni brano ad associare ai suoi beat ricercati anche degli hook travolgenti. Facile innamorarsi in questo senso di "Fever (This Is the Real Thing)"  che con i suoi gorghi sinuosi di synth rappresenta uno dei punti apicali dell’album. I rimandi a Róisín Murphy sono talmente sfacciati che l’intera traccia potrebbe essere intesa come un omaggio all’arte della songwriter irlandese. D’altronde di citazioni non mancano in “The Love Invention”. In certi casi risultano anche più convincenti dell’originale. Un esempio su tutti è “Gatto Gelato” che già dal titolo rimanda alla disco music italiana.
In definitiva, si tratta di un lavoro decisamente confortante che risulta convincente anche nei momenti più riflessivi, come la traccia finale “SloFlo”, tenuta solo da una voce che sembra provenire da una dimensione ultraterrena e da scie soffuse di synth.

 

Contributi di Veronica Rosi ("Supernature"), Alberto Asquini ("Seventh Tree", "Head First"), Matteo Monaco ("The Singles") e Stefano Fiori ("Tales Of Us", "Silver Eye"), Fabio Ferrara ("The Love Invention")