Other Lives

Other Lives

Visioni di un pop da camera

Il senso dell'eterno, dell'infinitesimo che si fa universale pervade la musica del gruppo di Stillwater, Oklahoma, terra di tempeste di sabbia e di spazi incommensurabili. L'inesauribile creatività di Jesse Tabish spazia da arrangiamenti e composizioni per pianoforte e chitarra, in un processo di scoperta e ricerca di un suono e di sé che non conosce sosta. Così nasce la plastica, visibile epica dell'anima degli Other Lives

di Lorenzo Righetto

La storia delle varie incarnazioni di Jesse Tabish in una band è la storia di ogni artista e di ogni musicista. Plasmare il mondo in un'impronta musicale, ridurlo e sintetizzarlo, liofilizzarlo in un concetto, guardarlo attraverso lo spioncino del proprio conscio e subconscio per poi magnificarlo a visione universale, attraverso la musica.
Pare tutto estremamente facile, eppure dietro il successo degli Other Lives, ora osannati da più parti - Thom Yorke tra gli altri - e già segnalati nelle prime rivelazioni di festival importanti come il Primavera Sound di Barcellona, c'è il percorso di un'impronta sonora e di un proprio discorso musicale costruiti poco alla volta, attraverso un sottile equilibrio tra introspezione e apertura incondizionata, tra fine cesello e impeto creativo.

Prima degli Other Lives, però, vengono i Kunek, formazione in cui si ritrovano i componenti del gruppo successivo, salvo Eric Kiner, che lascerà la band poco dopo la pubblicazione del suo primo e unico disco.

Nel loro esordio, quasi del tutto passato sotto silenzio, Tabish e soci provano a ridefinire i contorni del "pop in minore" dei Radiohead e Coldplay degli anni 90, ampliandone i confini in paesaggi cameristici e visioni prog di pianeti gassosi e desolati oceani di sabbia. Flight Of The Flynns è in questo senso un disco sorprendente e del tutto inusuale rispetto alla scena circostante; è decisamente il prodotto di un autore fervido, forse di uno dei cantautori ma soprattutto dei "creatori di musica" più importanti della musica contemporanea: Jesse Tabish.
Con un fortissimo senso cinematico e della drammatizzazione in musica, Tabish delinea mondi di un lirismo traboccante, chiamando a raccolta esperienze anche antitetiche, dagli accenti folk di "Bright Eyes" al post-rock di "The Swell". La solitaria passeggiata sul fronte del porto dell'armonica di "All Together", geniale reinterpretazione beatlesiana, intelaiata su passaggi alla Neil Young, cede così il passo alle spirali pianistiche di "Oh Noble Eric", ritratto postmoderno di grigiori suburbani, riaccesi e trasfigurati da improvvisi portali verso altre dimensioni.

Il senso di un flusso musicale inarrestabile, che si propaga senza interruzione da una canzone all'altra, è in Flight Of The Flynns un'impressione inevitabile, nonostante ogni canzone non sembri mai uguale a sé stessa. È una narrazione fatta di rimandi e colpi di scena, con punte apparentemente invalicabili di violenza e desolazione e momenti di estrema dolcezza, come nell'esemplare "Fast Asleep", dove si passa dal sogno all'incubo senza soluzione di continuità.
Flight Of The Flynns è, insomma, un disco frattale, nel quale ritrovare, in ogni sua parte, una figura del tutto, infinitamente scomponibile ma infinitamente distinguibile. La voce di Tabish è schiva, appena increspata dall'emozione che traspare dagli arrangiamenti, sempre raffinati ma potenti. Quando sussurra - nella finale "Good Day" - con ironica saggezza: "Today it's gonna be/ Such a good day", verrebbe quasi da credergli.

In Flight Of The Flynns si trovano a coesistere emozione e intelletto, in una sorta di perfezione leonardesca gli emisferi cerebrali danzano insieme, in una fragile scenografia di fuoco e ghiaccio, pronta a ricomporsi e sfaldarsi all'occorrenza. L'ambiguità dei sogni è la somma delle ambiguità intrinseche del pensiero e del sentimento, ondivaghi e ingannevoli.
La musica di Jesse Tabish si può analizzare o subire, traendone pari ma non uguale piacere. C'è una voluttà, nelle tirate pianistiche del disco, che parla di uno spirito autoriale solo apparentemente sopito, apparentemente dimesso e dissimulato dalla chiara supremazia dello Strumento, alla quale anche la voce docilmente si adegua.

Le "altre vite" del pop

otherlives_viiiDopo l'abbandono di Kiner, i Kunek comunicano, col tono impersonale e laconico che sarà un loro tratto distintivo, delle notizie che mettono in subbuglio la loro piccola nicchia di fan dell'Oklahoma: "Abbiamo deciso di cambiare un po' le carte in tavola. Abbiamo un nuovo nome, e abbiamo completato la transizione da Kunek a Other Lives. Di recente abbiamo finito il nostro nuovo disco, il primo a nome Other Lives, prodotto e registrato da Joey Waronker. Oggi abbiamo postato due tracce da queste sessioni, "End Of The Year" e "Paper Cities". [...] Ce ne saranno altre nelle prossime settimane".
Già il nome di Waronker, produttore di Beck in primis e, poi, di Eels e Lisa Germano, avrà fatto rizzare le antenne. Poi, si aggiunge il fatto che l'album viene prodotto in casa tbd, l'etichetta che distribuisce i Radiohead negli Stati Uniti. E Other Lives, esordio omonimo, non tradisce le aspettative.

Tutto scompare, in Other Lives. Si sfalda, per poi riapparire in nuova forma, come foglie alzate e ricomposte da un turbine di vento. Dinamismo di stampo progressive che si bagna in atmosfere di raffinato e anche coraggioso tradizionalismo sonoro (chitarra acustica, pianoforte, basso, violoncello e batteria), al tempo stesso mirabilmente prodotto e arrangiato. Perfino con aspirazioni, se non di composizione classica (nel caso moderna, nei dintorni insomma di Arvo Pärt e Jóhann Jóhannsson), perlomeno di ariosità da epopea cinematografica hollywoodiana ("Matador").
Il disco d'esordio di questa band dell'Oklahoma non poteva arrivare in un momento migliore, cioè quando la scena americana (alt-folk in particolare) pare assumere un inaspettato pallore, in un vero e proprio contraccolpo d'ispirazione. Che colpisce indistintamente nomi di punta e artisti emergenti.

Un disco, Other Lives, che non vive di sonorità fascinose, e neanche di originalità melodica, in fondo.  Ciononostante, col suo amalgama cristallino e solidamente orchestrato, si intrufola sommessamente in remoti angoli della memoria, tanto che a rimanere non è una canzone, uno strumento, un verso: quello che resta è la musica. Si diceva della produzione: affiancano questa band in erba due personaggi di spicco, ossia il già citato Joey Waronker e Darrell Thorp. Il secondo ha invece curato l'engineering di "Sea Change" dello stesso Beck e di "Hail To The Thief" dei Radiohead. Di conseguenza, il disco degli Other Lives tradisce senza dubbio una certa ambizione verso il "gran mondo", ma senza mai scendere a compromessi con la sua solida proposta musicale.
Nella fattispecie, a Yorke si avvicina l'insinuarsi, nella voce del frontman Jesse Tabish, di una simile sofferenza senza tempo, che viene però addolcita per mezzo di composizioni liberatorie. La stessa composta malinconia,  la stessa cullante nostalgia espressa dalle note di "The Trials Of Van Occupanther" dei Midlake, i cosiddetti Radiohead texani.
La traccia del languido, mellifluo rollio di "Sea Change", invece, trova immediato corrispettivo nel disco in questione, nella pulizia atemporale di questa immota scenografia agreste. I Nostri vanno però oltre, superando con l'esuberanza della forma, spesso in tre quarti, certe fissità e clichè che contraddistinguono invece l'illustre predecessore. Un'esuberanza che si manifesta abbozzando i già citati rimandi prog, attraverso sprazzi di evoluzioni pianistiche à-la Yes ("E Minor", "AM Theme"). E' chiaro però che l'intento degli Other Lives è "paesaggistico", piuttosto che di sperimentazione musicale: lo testimoniano gli scenari di spaziosa solitudine di "Black Tables", gonfia di struggimento.  Il crescendo emotivo non rende sacrilego proporla come novella "Epitaph" (da "In The Court Of The Crimson King" dei King Crimson), con tutti i se e i ma del caso.

otherlives_xiQuesto perché l'anima profonda di Other Lives è quella di un disco di semplice e dolce intimismo, per quanto a volte dall'andamento inafferrabile ("End Of The Year", che si conclude, per l'appunto, con un cambio di tempo). In questo ricorda molto l'innocenza dello spleen giovanile di "Parachutes", l'esordio dei Coldplay, un disco al quale i Nostri si riferiscono anche in certi particolari , come nel britpop di "Don't Let Them". Nonostante l'istinto melodico non sia indubbiamente lo stesso, il respiro epico conferito dall'ariosità di questi valzer, vigorosi e impalpabili come il vento, non fa sfigurare i Nostri.

La rotta intrapresa dagli Other Lives presenta però ancora diverse complicazioni e interrogativi: il loro esordio pare infatti al confine tra mondi dalla burrascosa comunicazione, in quella sorta di agitato limbo che suddivide il cosiddetto mondo alternativo e quello di più vasta diffusione. Non abbastanza elaborato e al passo coi tempi il loro classicismo per gli uni, troppo complessa e compassata la progressione dei loro pezzi per gli altri. Più nella sostanza, a qualcuno potrà venire a noia il molteplice ricorso alla ballata in tre quarti, nonostante permetta loro aperture pianistiche di grande slancio ("Speed Tape", "E Minor"), nonché ritornelli di una certa intensità emotiva ("It Was The Night", "How Could This Be?").

La definitiva (e faticosa) affermazione di un'identità musicale

Solitary motion in the wake of an avalanche
Deer in the headlights, there goes a weaker one
I was listenin to Facades, I don't care enough to see the way
Do you hear the silence, I was far too late.
(da "Tamer Animals")

otherlives_xiii_01È un'inspiegabile violenza, quella che a volte sorge dalle note di Tamer Animals (2011). Un disco che non tenta di ragionare, che non prova a ricondurre i movimenti delle tempeste di sabbia dell'Oklahoma - loro terra natìa - alle leggi fisiche della turbolenza e del trasporto di particelle solide. Puramente contemplativo, il rituale degli Other Lives si sviluppa seguendo sottili increspature di temi, di pianoforte e chitarra, a volte quasi ossessivi, evocando lunghe notti della Ragione attraverso il rifiuto di strutture e convenzioni musicali.
Questa è la portata del secondo disco della band di Stillwater, la quale, dopo il relativo successo dell'esordio, torna attraverso la Tbd con un disco messo a punto nell'arco di ben sedici mesi di instancabile lavoro, una canzone dopo l'altra affastellata come nella progressiva composizione di una guglia gotica.
Davvero sorprendente la scelta degli Other Lives di gettarsi anima e corpo nella costruzione di un disco ancora più radicale del precedente, che comunque aveva dalla sua diversi pezzi pop ben riconoscibili, seppur dilatati ed espansi dalla vena "orchestrale" della band. Virgolette non necessarie per questo Tamer Animals, che, fin dall'iniziale duetto di fiati e archi (geniale la danza di intrecci) di "Dark Horse", tradisce l'ossessione di Jesse Tabish, principale compositore del gruppo, per la musica di Philip Glass, che qualcuno avrà già riconosciuto nel testo citato più sopra e saprà divertirsi a ritrovare per tutto il disco, in una forma o nell'altra. Non manca ovviamente qualche traccia più morriconiana, "Old Statues" e "Desert" su tutte (con Joey Waronker, batterista di Beck, che ancora mette la sua esperienza nel vibrante, spazioso apparato percussivo del disco).
Confermano ancora, se ce ne fosse bisogno, la necessità di una certa scena musicale indipendente di rivendicare una certa libertà d'espressione ("As I Lay My Head Down"), riuscendo in questo modo a sconfiggere sia l'integralismo del "prodotto" melodico che l'estetica, ormai superata, del lo-fi a tutti i costi. Non si cerca più il ritiro materiale e spirituale della propria cameretta, ma, pur nell'isolamento forzato (o no) dai mezzi quotidiani, si tenta di disegnare, attraverso la propria visione, il mondo o una parte di esso. È così che si crea il poderoso ralenti di "Dustbowl III", in cui le forze naturali si scatenano in una progressione che ricorda le più strumentali e cinematiche canzoni dei Kunek, identità precedente degli Other Lives, interrotta dopo il solo Flight Of The Flynns.

Va detto, a scanso di equivoci: non è che le canzoni di Tamer Animals non riescano a soddisfare criteri di classificazione più "classica". Semplicemente li aggirano, incastonando in "For 12" l'etereo di un Bon Iver e una costruzione un po' Fleet Foxes, tornando alla carica con la melodia monolitica della title track, un eterno impasse pianistico, teso allo spasimo fino alla brusca interruzione finale. Anche nelle tracce più cariche di orchestrazioni ("Woodwind Loop" o "Landforms") tutto suona naturale e mai sopra le righe, nonostante le intersezioni di flauto, corni, violini, l'importanza del contributo batteristico.
Sfugge e conquista, Tamer Animals: in questa interminabile guerriglia di sensazioni emerge in fondo la smania tangibile di Tabish e degli Other Lives per la traduzione in musica di ciò che è grande.

Dopo tour da headliner trionfali e ripetuti e uno da band di supporto ai Radiohead, Mind The Gap (2012) fa da chiosa a un periodo eccezionale per gli Other Lives, che li ha proiettati verso gli orizzonti del grande pubblico, indipendente o no che sia, condensando quanto fatto dal vivo e accennando – senza esagerare – a possibili “evoluzioni” della musica del dubbio.

Primo e forse più temuto di questi accenni consta nella perdita di quella corporeità cinematica, quel furore esistenziale che contraddistingueva i ritmi e le incalzanti linee vocali di Tamer Animals, in favore di un più generico e impalpabile riverbero elettronico, un annebbiamento delle sensazioni che trova realizzazione massima nella filastrocca synth-dream di “Dead Can”.
Insomma pare che (e il remix di “Tamer Animals” dello Yorke a nome Atmos For Peace e l’altra nuova, “Dust Bowl”, b-side naturale, non fanno molto per contraddire questa impressione) l’ansia di conoscere e di mutare di Jesse Tabish si stia confondendo con il timore di “non fare abbastanza” per il pubblico, sia sul palco che su disco. Più che canzoni “nuove”, c’è solo da sperare che gli Other Lives si presentino con quello che hanno sempre saputo fare: canzoni belle.

Un disco come Rituals (2015) non arriva inaspettato: la traiettoria della band, fin dall’esordio coi Kunek, prevedeva una sempre maggiore concentrazione sulla “sperimentazione” e sulle sonorità a scapito della scrittura. L’equilibrio era retto fino allo scorso Tamer Animals, ma, allorché la band saliva nella popolarità, anche a seguito del tour di supporto ai Radiohead (che hanno molto influenzato la loro ultima evoluzione), si intuiva che non sarebbero più tornati indietro.
Dopo Mind The Gap si era ben capito dove sarebbero andati a parare Jesse Tabish e compagni, ed ecco “Reconfiguration”, il singolo di lancio, presentarsi in tutto la sua aridità “concettuale” e una ineluttabile povertà sostanziale, con una scrittura sbocconcellata dai resti di Tamer Animals e qualche sonorità robotico-aliena di puro contorno.


Inerte, esangue suona anche “Easy Way Out”, in cui la loro epica interiore si sviluppa meccanicamente, senza gli slanci che li avevano da sempre caratterizzati. Nel lungo sviluppo del disco (quattorddici brani per circa cinquanta minuti di musica) c’è spazio per un po’ di tutto, e senza dubbio l’ascoltatore casuale potrà godere della suggestiva scenografia gothic-western di “Need A Line”, degli sfarfallii elettronici di “Pattern” (che ricordano più che altro una versione “interrotta” degli ultimi Coldplay), degli arrangiamenti cameristici ansiogeni di “New Fog”.

La cosa più ardua rimane decisamente trovare un’anima al di sotto delle composizioni di Rituals, per ora solo delirio astrattamente solipsistico: un ritorno alle origini come “English Summer” fa capire, comunque, che niente è perduto.

A cinque anni da quell’oggetto misterioso chiamato Rituals, la band ritorna sui propri passi con un quarto disco più affine agli intenti iniziali: For Their Love. Dove però l’indie-rock della band vede l’approccio da camera dei primi dischi rigonfiarsi, ricercare toni epici ricorrendo ad arrangiamenti dalla grandeur cinematografica. Al solito Morricone, citato un po’ ovunque (“Lost Day”, “Who’s Gonna Love Us”, ma soprattutto il western di “We Wait”), si aggiungono Ry Cooder (“Sideways”) e addirittura Danny Elfman, il cui tocco viene in mente durante le atmosfere incantate di “Dead Language” e i cori fanciulleschi di “Nites Out”.
Come di consueto, il registro di Jesse Tabish è molto enfatico, sia nei momenti più raccolti e zoppicanti (“Sideways”), cantati come fosse l’ombroso crooner di una bettola jazz in un film noir, che in quelli epici e solenni (“Cops”, che carica com’è a tratti risulta stucchevole, e “Lost Day”). Sempre preciso e ricco, sovente barocco, l’apporto della band dona profondità e dettagli alle canzoni, salvandole in corner quando la scrittura del frontman risulta particolarmente appannata.

Contributi di Michele Corrado ("For Their Love")

Other Lives

Discografia

KUNEK
Flight Of The Flynns (Playtyme, 2006)
7,5
OTHER LIVES
Other Lives (tbd, 2009)
7,5
Tamer Animals(tbd, 2011)
7,5
Mind The Gap(tbd, 2012)6
Rituals(tbd, 2015)5,5
Pietra miliare
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Other Lives sul web

Sito ufficiale
Myspace
Testi
  
 VIDEO
  
 Bright Eyes / The Swell (fan video, da "Flight Of The Flynns", 2006)
  Coma (live, da"Flight Of The Flynns", 2006)
 Black Tables (radio session, da "Other Lives", 2009)
 Paper Cities (radio session, da "Other Lives", 2009)
E Minor (acoustic version, da "Other Lives", 2006)
AM Theme (da "Other Lives", 2009)
For 12 (da "Tamer Animals", 2011)
Tamer Animals (radio session, da "Tamer Animals", 2011)