Anathema

Anathema

L'enigma silenzioso

Tra i pionieri del death-doom-metal dei primi anni 90, gli Anathema da Liverpool, capitanati dai fratelli Cavanagh, sono testimoni di una stupefacente quanto naturale evoluzione stilistica. Attraversando scenari gotici fra alternative-rock e psichedelia, essi hanno gradualmente stemperato i tratti del loro sound, fino alle aperture "celestiali" degli ultimi anni culminate nella trasformazione in uno dei cuori pulsanti del neo-prog

di Michele Bordi e Matteo Meda

Prologo

L’obiettivo primario nel nostro approccio compositivo è quello di comunicare forti emozioni. Siccome nella vita gli eventi emozionali possono essere movimentati come una tempesta, luccicanti come una meravigliosa giornata di sole o grigi e tristi come uggiosi pomeriggi d’inverno, è stato automatico e facile trovare questa metafora nelle nostre canzoni. Abbiamo cercato di trovare un sottile legame tra i sistemi emozionali interiori dell’uomo con quelli esterni legati ad eventi della natura

(Vincent Cavanagh)


Basterebbero queste parole pronunciate da Vincent Cavanagh, cantante e secondo chitarrista nonché componente assieme al fratello Daniel e al tuttofare (batteria, percussioni, synth, elettronica) John Douglas del nucleo storico ancora in attività del gruppo, per sdoganare a fondo gli Anathema. L'"enigma silenzioso" non è soltanto il titolo del primo capolavoro della band, il vertice della prima di tre fasi che avrebbe attraversato nel corso della sua carriera, ma una definizione perfetta per racchiudere in breve una delle mutazioni più straordinarie che il rock ricordi. Perché partire mescolando due direttrici metal (già di per loro piuttosto slegate) come doom e death, evolversi nel solco della psichedelia floydiana e del brit-rock e ritrovarsi a essere una delle realtà progressive di maggior spessore del Nuovo Millennio è davvero qualcosa di incredibile, nel senso letterale oltre che in quello enfatico della parola. Qualcosa che potrebbe essere oggetto di studi di ogni genere. Un enigma, dunque, sviluppatosi però in maniera talmente graduale e naturale da risultare silenzioso. Ma il segreto nascosto degli Anathema sta proprio nel loro aver sempre messo il cuore davanti a tutto: agli artifici estetici nei quali la loro musica avrebbe potuto portarli a rifugiarsi comodamente, ai (tanti) fan che avrebbero voluto continuare a stordirsi con le violente distorsioni degli esordi o che erano pronti ad affiancarli ai big del brit-rock dei tardi Novanta, a una critica che li ha (come di consueto) incoronati e abbandonati a tratti alterni, a etichette che su di loro avevano preventivato un business, addirittura a loro stessi e alle molteplici difficoltà incontrate sul loro cammino. Il cuore, o se vogliamo il trionfo dell'emotività, è la vera chiave dell'enigma silenzioso, che qui si cercherà di ricostruire ripercorrendo le dinamiche e gli aneddoti della sua perenne e instancabile evoluzione.


Serenate doom

Ho sempre pensato che essere un musicista sarebbe diventato il mio lavoro, ma in verità non immaginavo che lo avrei fatto insieme a questi altri ragazzi. Erano i primi tempi, quando iniziavamo a fare sul serio, a scrivere canzoni serie e a fare il nostro primo demo; penso fu lì che realizzai di essere alla svolta. O forse la svolta fu il tour con i Paradise Lost. Era in quel periodo, nei primissimi anni 90, che cominciammo a dire 'proviamoci e facciamolo per bene!'
(Daniel Cavanagh)



Penso che il mio ricordo più bello degli Anathema sia il nostro primo tour europeo, nel 1994. Suonavamo con gli At The Gates e i Cradle Of Filth. Era una situazione selvaggia, un bus pieno di giovani delinquenti con free drinks ogni sera. Eravamo tutti giovani e (in buona parte) irresponsabili
(Duncan Patterson)


Liverpool. Anno 1990. Il cantante Darren White, il batterista John Douglas e i tre fratelli Daniel, Vincent e Jamie Cavanagh, addetti a chitarre e basso, formano la band Pagan Angel e nel novembre dello stesso anno registrano il loro primo demo: An Iliad Of Woes. Prima di pubblicarlo, nel gennaio dell’anno successivo, decidono quindi di cambiare il loro nome nel programmatico Anathema. Il demo attira le prime attenzioni nella scena metal e la band inizia a esibirsi, ottenendo visibilità come supporter del tour degli emergenti Paradise Lost. Segue quindi un altro demo, All Faith Is Lost, e un singolo, “They Die”, venendo quindi notati dalla Peaceville Records che decide di produrre il loro primo Ep, non prima che il talentuoso Duncan Patterson sostituisse il già uscente Jamie al basso, ancora poco incline a intraprendere una vera e propria carriera da musicista professionista.
Nasce così, nel 1992, il primo Ep della band: The Crestfallen. Lo sguardo spiritato della fanciulla in copertina è un ammonimento di ciò che avverrà già in “...and I Lust”: chitarre abrasive e distorte affondano i loro artigli, trascinandosi lungo scenari apocalittici, avvolti dalle lunghe ombre di alberi che salutano il crepuscolo. “The Sweet Suffering”, un titolo che dice tutto, introduce l’ascoltatore nell’agonia nera del platter, triturando le sue ossa fino al terrificante epilogo di “They Die”, qui riproposta. Solo una manciata di minuti di respiro vengono concessi dall'aulica cantilena all'acustica dell'ospite Ruth Wilson.
The Crestfallen segna l’uscita dal guscio e una prima dimostrazione di intenti della band. Un prodotto sicuramente molto acerbo, dalle soluzioni ancora grezze e con qualche ingenuo eccesso di troppo, ma primo specchietto di un potenziale ancora tutto da esprimere.


Anathema - The CrestfallenUn anno dopo, infatti, sempre tramite l'ormai fida Peaceville i cinque inglesi pubblicano il loro primo full-length Serenades, il quale diventa di diritto il biglietto di ingresso da protagonisti verso quel nuovo sotto-genere in via di sviluppo: il doom-death-metal. Ereditando le pachidermiche movenze del doom - anticipate da Black Sabbath e Pentagram prima, sviluppate e attualizzate dagli svedesi Candlemass poi - gli Anathema decidono di sposarle con il cantato growl tipico del death-metal, incarnato nei gutturali ruggiti di Darren White. La prolissità delle composizioni, principale punto debole dell’Ep di esordio, viene ridotta, seppur non annullata, con tracce più incisive e a fuoco. Si inizia a intravedere quindi, proprio nei brani più riusciti, ciò che diventerà un tratto distintivo della band nel futuro immediato: le orchestrazioni solenni nel finale di “They (Always) Die”, azzeccato remake dell’omonimo brano di The Crestfallen; gli arpeggi riverberati di “Sleepless” che addirittura omaggiano, insieme al tradizionale giro di basso, la new wave dark ottantiana dei Cure; i sinistri fraseggi chitarristici dei fratelli Cavanagh, conditi da episodi inaspettatamente groovy.
Serenades sembra quindi una prima concretizzazione degli esperimenti fatti fino ad allora, con la personalità della band che inizia a farsi strada, mantenendo comunque un’uniformità stilistica di fondo. Anche i testi insistono sul canovaccio inaugurato, inseguendo tematiche relative a sofferenza e disperazione, in un romantico lamento dell’insopportabile perdita della propria amata metà: “I loved her... but now she's gone (It's so hard to face)”.
Non mancano tuttavia sorprese, quando l’atmosfera cupa e opprimente dell’album viene diradata nel finale a sorpresa, dispersa nei 20 e passa minuti di placide evoluzioni ambient di “Dreaming: The Romance”. L’importanza dell’album nella storia della band viene ribadita dalla visibilità ottenuta dall'ottimo singolo, la ciclopica marcia “Sweet Tears”, il cui video raggiunge anche Mtv.

Già nel 1994 gli Anathema realizzano la loro opera successiva, la quale, per problemi vari con la Peaceville Records, vedrà la luce solo nel 1995. Disco un po’ dimenticato, probabilmente anche a causa del limitante status di Ep (per quanto corposo nei suoi abbondanti 40 minuti), Pentecost III è un lavoro interessante più che altro per delineare la strada della band verso la completa maturazione. Salta all’orecchio il cambio di approccio di White, il quale accantona le ruvidità degli episodi precedenti aprendo a un cantato lamentoso, senza perdere la cavernosità che lo caratterizza. Qui il frontman fa più di qualche passo indietro, mescolando la sua voce nell’amalgama sonoro e lasciando più spazio ai fratelli Cavanagh rispetto al passato, come in buona parte di “Mine Is Yours To Drown In”.
La scelta è felice e premia l’evoluzione compositiva del gruppo, con tracce articolate che tornano ad avere minutaggi importanti, riuscendo a mantenere l'attenzione con discreta efficacia. E’ la conseguenza di un primo timido, vago contatto - che nel futuro diverrà vero e proprio dialogo - con il progressive rock, in particolar modo amato dal bassista Duncan Patterson. Un lampante esempio è “We, The Gods”, divisa tra atmosfere malinconiche brutalmente rovesciate da plumbee tempeste sonore. Nel finale viene raccolto senza tanti complimenti ciò che gli Iron Maiden - altra band fondamentale per la crescita degli inglesi - seminarono soprattutto nella fine degli anni 80.
Gli scenari dipinti in questo album sono ancora apocalittici ma vengono qui spezzati da mutamenti continui che vanno dall’epico alla pura violenza death del finale di “Memento Mori”. Ma il meglio deve ancora venire, perché con il senno di poi Pentecost III non è altro che l’anticamera per il lavoro che renderà immortale la band nell’universo del doom e oltre.


Una visione di un abbraccio morente

Noi conosciamo bene il pensiero dei nostri fan e sappiamo che ci sono tanti di loro, soprattutto quelli della vecchia guardia, che vorrebbero rivedere Darren White alla voce. Ma il discorso è che noi ci evolviamo come ci viene di farlo. E, per restare su Darren, lui al tempo scelse di non seguirci. Noi siamo contenti di come vanno le cose per gli Anathema, a prescindere dalla scena in cui ci muoviamo
(Vincent Cavanagh)

Newcastle, Lynx Studios, 1995. Nel momento cruciale dei lavori per il loro secondo full-length, divergenze artistiche portano all’addio di Darren White. Perdere proprio in quella fase - mixer alla mano - voce, testi e parte predominante della fonte creativa delle sue composizioni poteva essere la peggiore delle sventure per la band di Liverpool. Tuttavia, proprio questa spaccatura farà la fortuna del gruppo che, preso alla sprovvista, troverà in sé stesso la chiave per risolvere - e addirittura far svoltare - la sua carriera. Il vuoto compositivo creatosi viene colmato dalla coppia Daniel Cavanagh e Duncan Patterson, il cui talento era stato preservato fino ad allora sotto l’ombra di White, mentre i quattro decidono di promuovere Vincent Cavanagh al ruolo di voce principale.

anathema2Da questi sconvolgimenti vede la luce, nell’ottobre dello stesso anno, The Silent Enigma, che si consacra subito come pietra miliare nel mondo del metal. Gli Anathema compiono il salto definitivo verso un sound maturo e consapevole, frutto di uno sforzo dato dall’unione dei suoi elementi. Patterson trae particolare giovamento dalla nuova situazione, iniziando a dare i suoi contributi al songwriting. Il risultato è una ulteriore crescita nella direzione del progressive rock, seppur ancora tenuto a distanza dalla vena death ancora ben radicata nei componenti. Veri e propri gioielli come “Restless Oblivion”, “Sunset Of Age” o “A Dying Wish” si snodano lungo molteplici mutamenti, da tetri guadi nella melma a flagelli sonori carichi di furia e tormento, scatenati dal basso finalmente nitido e pulsante di Patterson e scanditi dai tuoni secchi e perentori di John Douglas alla batteria.
La magnificenza delle composizioni è frutto del riuscito tentativo di prendere il meglio dalle nuove influenze senza perdere in coerenza con il proprio passato. Ciò che la band ottiene non è quindi una frammentaria raccolta di idee sparse, The Silent Enigma è un mosaico di tasselli che compongono un muro di granito, sul quale speranze e illusioni si infrangono per cadere straziate e agonizzanti al suolo. Tanta vertiginosa crescita dei loro brani, ora maturi e concreti e mai persi in verbose velleità, sarebbe inutile senza un messaggio lirico altrettanto efficace ed elevato. A dispetto delle sonorità gotiche, tipiche nel mondo del doom, i riferimenti mitologici presenti negli scritti degli esordi lasciano il passo a tematiche chiaramente romantiche: la ricerca ossessiva della pace; la fuga da una realtà inaccettabile; la perdita dell’amore, il conseguente patimento e la morte come unico antidoto, fino al ghignante inganno che attende sadico nell’aldilà.

In tutto ciò, Vincent Cavanagh, a dispetto della sua condizione di vocalist “di scorta”, offre interpretazioni di disarmante efficacia. Adottando uno stile duttile a cavallo tra growl, screaming e timbriche pulite, pur nella loro costante cupezza, si dimena nell’orrore descritto dai versi con teatralità sconosciuta al suo predecessore: gutturale, strozzato in “Shroud of Frost” (“aiutami a fuggire da questa esistenza (...) sto affogando in un mare di visioni abusate e sogni infranti”); laida mostruosità nella licantropica “Nocturnal Emission” (“prenderti ora, nel mio sonno voglio toccarti, per lacerarti nel profondo”); ieratico profeta di sventura in “Cerulean Twilight” (“un’anima morirà…”); martire gemente, con la voce spezzata dalle lacrime in “A Dying Wish” (“in the solitude of a broken promise, I cried alone…”). Senza dimenticare l’ormai collaudato episodio melodico-acustico del disco, stavolta un mesto stillicidio di corde pizzicate che accolgono il biasimo di un’anima perduta, consegnato dall’angelica voce di Rebecca Wilson: "Ti ho dato la mia anima, mi hai lasciato morire all'interno delle mura della mia mente ... da sola”. E qui è possibile accorgersi delle ponderate orchestrazioni dirette da Daniel Cavanagh, decisive in generale nel donare un’aura imponente all’opera tutta, elevandola a un mastodontico rituale - sacrale e barbarico allo stesso tempo - premonitore di un fato tetro e ferale. Il tutto evitando certe pomposità tipiche di altri colleghi attivi nella loro stessa scena. Tutto questo miracolo di equilibri consegna un lavoro raffinato di lucida ma sbraitata glacialità.


Destino, infinità, eternità

Scegliemmo proprio 'Hope' per realizzare un videoclip da 'Eternity' - il che è insolito, essendo essa una cover - per via del concept che porta con sé: forse non siamo spiriti destinati a scomparire, forse c'è qualche sorta di luce in fondo al tunnel. Forse le cose andranno meglio un giorno, forse saremo morti; insomma, un po' tutte queste cose a cui si è soliti pensare
(Vincent Cavanagh)



Diverse persone continuano a dirmi cose come 'vorrei che tu fossi ancora nella band, così tornerebbero a essere heavy e la smetterebbero di cercare di suonare come i Pink Floyd'.
E' buffo cercar di spiegare loro che è tutta colpa mia! Proprio io volevo un suono floydiano,
io ho fatto scoprire i Pink Floyd agli altri componenti e non scrivo un brano metal dai tempi di 'A Dying Wish'; e pure quest'ultima è bella floydiana!
(Duncan Patterson)

Dopo l’exploit appena raggiunto, per la prima volta dall’addio di White i quattro inglesi si trovano di fronte a un foglio bianco dal quale partire. Il risultato si può subito apprezzare con Eternity, che vede la luce nel 1996 e segna uno storico passo con il quale la band abbandona completamente le sonorità death del passato, abbracciando nuovi spunti psichedelici e ambient fortemente influenzati da quei Pink Floyd tanto amati dal collettivo. Gli Anathema tagliano quindi progressivamente i ponti con l’aggressività del passato e il primo testimone ne è proprio il frontman. Vincent decide di esplorare altre vie, lasciando il growl e adottando uno stile pulito, scoprendo le notevoli possibilità del suo timbro profondo e baritonale. La transizione si rivela comunque metodica e diligente, mantenendo con coerenza il patetismo doom dell’epoca precedente. Le roboanti chitarre dei fratelli rimangono monolitiche ma vengono smussate, dilatate.

La combinazione di elementi si rivela entusiasmante per tutta la prima metà dell’opera: dalle placide onde sonore dell’apertura “Sentient”, distese come schiuma marina in una spiaggia desolata, al futuro highlight della band, “Angelica”, il cui nome predice gli scenari celestiali nei quali si librano progressioni maestose, scevre da orpelli e forzature di sorta. Patterson acquisisce ancora più spazio nella scrittura dei brani, grazie al suo secondo strumento: il suo tocco è evidente nei discreti accompagnamenti pianistici che donano un sapore classico all’opera, uniti agli arrangiamenti enfatici con i synth, eseguiti poi dal consueto Daniel. Ecco quindi che le prime due parti della title track evocano le atmosfere oniriche e “cosmiche” rappresentate nella copertina del disco.

anathema3I testi insistono su temi romantici pur perdendo la componente orrorifica, animalesca e violenta presente in The Silent Enigma, sostituita da una sorta di impotente rassegnazione al fato. “The Beloved”, esprime concetti che diverranno primari negli Anathema del futuro. Al riguardo Vincent dirà: “La sensazione di arrivare alla fine della vita, con ogni sorta di rimpianto per come l’hai condotta mentre ne hai avuto la possibilità, senza lasciare che qualcuno potesse entrarvi con l’amore che portava con sé”. Anche “Cries On The Wind” trasmette impotenza verso l’inevitabile crudo destino: “Non mi soffermo sull’avvenire, perché so che esso non arriverà. Lo sapete, quando me ne sarò andato, udirete le mie grida nel vento”. Inoltre, come il titolo dell’album lascia presagire, l’eternità e l’infinito giocano un ruolo centrale nell’opera: dalle riflessioni di Patterson trascritte nel brano "Eternity", alla suggestiva “Destiny… infinity… eternity…” pronunciata dall’aulica voce femminile di turno, Michelle Richfield, per arrivare all’inaspettata e non casuale cover, “Hope”, brano di Roy Harper in collaborazione con, guarda caso, un certo David Gilmour.
Nonostante le novità di grande interesse, oltre all’innegabile rilevanza dell’opera nell’evoluzione della band, Eternity è tuttavia lontano dalla perfezione del suo predecessore. L’aspetto che salta all’occhio è il mancato ottenimento di un’opera omogenea e compatta in tutte le sue fasi e idee, che lascia trasparire la natura di disco di transizione del lavoro.

Un minore senso della misura emerge nella seconda parte dell’opera, minata da qualche ampollosità di troppo e perdite di coesione, smembrata tra le ostinazioni teatrali di “Suicide Veil” (dove Vincent Cavanagh segue alla lettera gli insegnamenti di un altro gigante floydiano, Roger Waters), atmosfere che faticano a ripetersi con altrettanta efficacia nel terzo atto della title track e sfoghi di matrice maideniana - decisamente dissonanti nel contesto - nel finale composto da “Cries in The Wind” e “Ascension”. Sono composizioni che, prese singolarmente, risultano in buona parte apprezzabili, ma che faticano a inserirsi nella dimensione sviluppata dall’eccellente primo atto di “Eternity”. Resta comunque memorabile il nervoso lamento “Far Away”, composizione progressive a tutti gli effetti e apripista verso quel rock “emotivo” nel quale la band entrerà a breve in pianta stabile. L’impressione finale è comunque che si sia voluta mettere un po’ troppa carne al fuoco, diluendo un’opera dal potenziale altresì indiscutibile. Ma la curiosità verso gli sviluppi futuri del collettivo è di certo a questo punto innegabile.


Celebrando l'olocausto

Devi essere un critico spietato di ciò che fai per capire esattamente ciò che è buono e cosa no. Beh, con 'Alternative 4' raggiungemmo più o meno questo stadio. Eravamo delusi da alcune cose di 'Eternity' perché avevamo messo troppa carne al fuoco e ne eravamo consapevoli.
Nel disco successivo abbiamo ridotto all'osso le cose e abbiamo puntato sull'essenziale.
Penso sinceramente che sia il primo vero disco degli Anathema. Il primo disco davvero onesto
(Vincent Cavanagh)


Sì, 'Alternative 4' è un gran disco. Ci sono tanti grandi episodi lì dentro. Io e Vincent scrivemmo quattro canzoni e Duncan compose il resto, quindi immagino si possa dire che sia di fatto il suo disco. Duncan è un genio e ha portato davvero tanto in ciò che abbiamo fatto. Dopo che se ne andò nulla sarebbe stato lo stesso per noi, resterà sempre una forza dominante nella nostra storia. Ma, di fatto, aprì una sorta di porta per noi. John Douglas tornò e tutti noi entrammo in questo giro di jam e scrittura di brani. Oggi siamo molto diversi senza di lui, ma lo apprezzo ancora enormemente come amico e come musicista
(Daniel Cavanagh)

La nuova creatura degli Anathema tarda ad arrivare. Alcune dinamiche infelici si insinuano nella band: John Douglas inizia prima ad accusare problemi con l’uso di droghe che rendono i suoi contributi non più attendibili. In seguito al suo inevitabile ritiro, nella speranza di un suo recupero, la band decide quindi di rivolgersi al batterista Shaun Steels (futuro membro dei My Dying Bride). Nel frattempo i rapporti tra Duncan Patterson e il resto della band iniziano a scricchiolare, indeboliti dal suo integralismo artistico che pone sempre più distanze con l’altra fonte creativa del gruppo, Daniel Cavanagh.
In questo scenario nasce, nel 1998, Alternative 4. Patterson conferma il suo ruolo decisivo facendosi carico di buona parte dell’opera, ben sei brani su dieci. Le conseguenze sono evidenti, in linea con la manifesta passione del bassista per composizioni progressive e classiche. Il passato viene sempre più allontanato, lasciando per strada anche gli ultimi residui doom presenti in Eternity, diretti verso un alternative-rock che strizza l’occhio, oltre ai già citati Pink Floyd, ai Radiohead, veri e propri mattatori della scena di quel periodo. Sorprende anche l’estrema cura in fase di produzione, passando dall'iper-produzione plastificata del predecessore (la quale però aveva l’effetto collaterale di donare un’aura di sospensione spazio-temporale non più replicata in futuro) a un suono nitido e scarno, in un mix ben riuscito di momenti acustici, fortemente incisivi, e passaggi stranianti e ipnotici, come nell’inquietante title track. Le distorsioni del passato vengono scrollate via per fare spazio a un inedito minimalismo. Vincent Cavanagh lo definirà a ragion veduta un disco particolarmente diretto, meno costruito e stratificato rispetto ai passati, dichiarandolo portatore di una musica più onesta e trasparente, rappresentando addirittura per lui il primo vero album della band.

anathema4Al di là delle considerazioni, Alternative 4 porta nuovamente la band su livelli alti, mostrando una maggior consapevolezza rispetto le sperimentazioni fatte con il disco precedente. Nonostante la natura bipolare del disco, dovuta alla scissione in corso tra Patterson e Daniel Cavanagh, esso presenta un messaggio che resta coerente in tutto il suo svolgimento. La doppia faccia del disco è comunque verificabile nella contrapposizione tra i brani di Patterson, ricchi di intuizioni pianistiche e sfoghi psichedelici, e quelli dei Cavanagh, ariosi e sbilanciati verso l'approccio melodico-chitarristico. Ironia vuole che nel futuro prossimo degli Anathema, quando Patterson non sarà più da tempo parte di essa proprio per le suddette divergenze artistiche, verrà intrapresa una strada proprio in linea con la volontà di quest'ultimo, inclusa la presenza stabile di una voce femminile, per la prima volta assente in Alternative 4.
Qualche pretenziosità è ancora presente nelle fasi conclusive dell’opera, in occasione delle lunghe evoluzioni che vanno da “Regret” a “Feel” che rischiano un’eccessiva prolissità. Tuttavia, la grande presenza di molti dei classici della band porta l'album dritto tra i più amati dai fan, in particolare grazie a “Fragile Dreams”: deliziosa dall’introduzione al violoncello al muro di suono che introduce il riff portante, orecchiabile e tirato in modo disarmante. Il brano diverrà fiore all’occhiello di gran parte delle scalette live del futuro, contenendo in esso tutti gli elementi che caratterizzeranno le successive decadi della band e la porteranno alla definitiva fortuna.

Infine, altro mutamento sta nei testi. Il tema è ispirato dal libro "Alternative 3" di Leslie Watkins nel quale, tra misteriosi viaggi spaziali - richiamati dall’ ”angelo lunare” in copertina - e una Terra sempre più arida e inabitabile, la salvezza dell’umanità oscilla da alternative quali la fuga su un nuovo pianeta allo sterminio calcolato di gran parte di essa. Il tema esalta Patterson e soci e viene riversato nei versi, pregni di malinconia che si sposa alla perfezione con il mood del disco. “Empty” con ritmiche sostenute da un groove tiratissimo, lancia una frenetica invettiva: “Ricordo una notte dal mio passato quando venni pugnalato alle spalle. E tutto ciò sta ritornando, sento ancora quel dolore”. La pacifica resa di “Lost Control” commuove: “La vita… mi ha tradito ancora una volta. Accetto che alcune cose non cambieranno mai”. “Inner Silence”, altro gioiello celebrato dai fan, esprime un'imminente perdita, troppo grande da metabolizzare: “Quando la luce della tua vita spirerà, e l’amore morirà nei tuoi occhi, solo allora potrò realizzare cosa significavi per me”. La psichedelia ereditata da Eternity trova sfogo quindi nella title track, straniante marcia marziale (dal vago retrogusto doom, in verità) diretta verso il genocidio come estrema soluzione: “Danzerò con gli angeli per celebrare l’olocausto e, molto oltre, il mio orgoglio da tempo deceduto sa che presto ce ne andremo tutti”.
Purtroppo, il successo di critica del nuovo album poco può contribuire a rallegrare gli animi degli inglesi. I tristi presagi di "Inner Silence" svelano la loro stretta attinenza con la realtà e pochissimo tempo dopo l'uscita di Alternative 4 i fratelli perdono la madre Helen a soli 49 anni, dopo una lunga malattia. Di lì a poco la band si separa da Duncan Patterson, sostituendolo con Dave Pybus (vecchia conoscenza del gruppo, nonché collaboratore alla realizzazione delle copertine dei primi album), con il quale il rapporto purtroppo non decollerà mai. Nel frattempo una consolazione è concessa ai Cavanagh i quali ritrovano nei loro ranghi il loro compagno John Douglas, uscito dal tunnel della tossicodipendenza. Comunque, la terribile perdita familiare rinforza il rapporto tra Vincent e Daniel e influenza pesantemente l'opera successiva, che più di ogni altra avvicinerà il picco di The Silent Enigma.


Il grande giudizio

Realizzare 'Judgement' non fu in realtà difficile, nonostante la perdita che subimmo. Duncan ebbe la gentilezza e il tatto di lasciare la band nel momento in cui perdemmo nostra madre, facendo sì che io e Vincent potessimo ricostruire le nostre vite insieme. Non stava funzionando più. Duncan non è un gran uomo di squadra, ma è un grande amico e musicista. Capì il momento giusto per farsi da parte. Io e Vinny eravamo già pronti a ripartire. Avevamo diversi riff pronti, chiamammo immediatamente John Douglas e gli chiedemmo di tornare, per ricostruire la nostra identità.
Oggi siamo migliorati molto: il ruolo di Vincent nella produzione è cresciuto,
ci troviamo meglio ora, lui è più consapevole. Anche John è maturato nella scrittura, e continuerà a farlo
(Daniel Cavanagh)


Nel 1999, negli studi italiani “Damage Inc. Studios” situati a Ventimiglia, viene registrato Judgement. Nonostante l'importante addio di Patterson, l'ispirazione della band, unita al ripristino dei sempre importanti contributi di Douglas, resta altissima. E' così che, dopo aver abbandonato le componenti death e doom con i lavori più recenti, gli Anathema fanno il salto definitivo verso un alternative-rock sempre più sbilanciato verso la componente melodica. Eppure questa evoluzione verso un sound più accessibile stavolta non va di pari passo con un ulteriore addolcimento delle atmosfere, le quali fanno anzi ritorno a trame cupe e gotiche, con spesse e fosche nubi che tornano a radunarsi sopra i nuovi brani. Le colorazioni non sono tuttavia nere e funeree come nella prima era. Esse richiamano anzi le sfumature bluastre e porpora impresse con grande efficacia sulla copertina dell’album: una sorta di nebulosa, un crepuscolo pulsante energia che abbraccia con un ossimorico gelido calore l’ascoltatore.
Dopo soli quattro anni le strillate e scomposte disperazioni di The Silent Enigma vengono assorbite e metabolizzate in una placida, lucida contemplazione del dolore. La personalità di Daniel Cavanagh, trovatosi solo nel ruolo di compositore primario, finalmente esplode e la sua chitarra, spalleggiata dal fratello, diventa protagonista assoluta con assoli taglienti, laceranti come lame che squarciano la calma apparente in "Pitiless" e "Forgotten Hopes", o con emozionanti striature melodiche su "One Last Goodbye". Gli strumenti tornano a esplorare le zone più gravi delle loro estensioni, costellando però i brani di continue finezze nel registro alto: ora un armonico, ora un arpeggio accennato. Le distorsioni sono ancora largamente impiegate ma, mitigate e addomesticate, hanno ora lo scopo di saturare gli stati d'animo più intensi, cedendo il piedistallo e ronzando in sottofondo, a supporto delle numerose sezioni acustiche o degli arpeggi all'elettrica pulita.
Il risultato è squisitamente algido e austero grazie al sapiente uso di riverberi e delay dilatati allo spasmo. Judgement sembra la summa di tutte le esperienze fatte dalla band fino a quel punto: la ricerca melodica di Alternative 4 unita alle atmosfere sacrali e rarefatte di Eternity, per arrivare ai momenti gelidi e stranianti di "Cerulean Twilight" e "Nocturnal Emission", dal capolavoro The Silent Enigma.

anathema5Il risultato è un lucidissimo campionario di stati d'animo, dove solitudine e patimenti si disperdono in paesaggi infiniti, echeggiando in una sterminata cassa di risonanza con fragore paradossalmente composto. Judgement è un viaggio tra le nebulose della condizione umana, esprimendo una sofferenza che trascende ogni gretta miseria terrena.
Lo zenith di questo martirio è uno degli highlight dell'opera: la struggente ballata "One Last Goodbye", dedicata alla madre dei Cavanagh, è formidabile nel suo essere straziante pur evitando ogni stucchevole patetismo, grazie anche ai grandi progressi espressivi fatti dalla voce di Vincent. Il testo è lancinante: "In qualche modo sapevo che mi avresti lasciato così. Sapevo che non avresti potuto mai... mai rimanere. E alle prime luci del mattino, dopo una pacifica e silenziosa notte, mi hai portato via il cuore; e ti piango".
Nella successiva "Parisienne Moonlight" sembra esservi una risposta a questo appello, con l'azzeccata scelta di una ballata al pianoforte dove Lee Douglas - sorella del batterista John - adotta un canto amorevole ma distante, come farebbe un'anima in partenza, senza appello, verso l'oblio: "Ho bisogno, voglio che tu sia libero da tutto il dolore che tieni in te. Non puoi nasconderti. So che hai provato a essere ciò che non puoi essere. Hai provato a vedere dentro di me. E ora ti sto lasciando. Non voglio andarmene da te".
Nella title track, che pone un sigillo tombale sugli ultimi scambi tra vivi e morenti, rimpianto e senso dell'effimero pervadono le riflessioni dei due fratelli. Il grande giudizio citato dal titolo dell'opera arriva al suo atto finale: il tormento del realizzare che la vita è solo un infinitesimo nell'eternità del tempo, troppo breve per essere vissuto consapevolmente senza rimpianti: "Tempi in cui eravamo giovani, quando la vita sembrava così lunga. Giorno dopo giorno, hai bruciato via tutto. Tutto l'odio che nutre i tuoi bisogni, tutto il male che puoi concepire, tutto l'orrore che crei ti metteranno in ginocchio".


L'uscita dal tunnel

Evoluzione è probabilmente la parola più corretta per i nostri lavori. Io, Danny e John stiamo evolvendo nel modo di fare musica. Sai, ti muovi, evolvi. E’ come aprire una porta con se stessi. Apri, provi, vedi se ti piace, se funziona, e a quel punto non vuoi tornare indietro perché magari hai trovato una nuova porta da aprire davanti a te. E così continui ad andare avanti. Le evoluzioni e i cambiamenti ci vogliono nella musica.
Penso che l’evoluzione sia la vera essenza della vera progressive music
(Vincent Cavanagh)


Chi nel nuovo millennio si è avvicinato alla musica degli Anathema spesso li conosce a partire dalla terza delle pelli cambiate nel corso della loro carriera. Una mutazione avvenuta in maniera talmente progressiva da risultare inafferrabile, constatabile solo col senno di poi. Un processo che se ha avuto un primo importante step nel passaggio tra Eternity e Alternative 4 - "In quel momento ci siamo trasformati in una vera rock band, con uno stile più asciutto e diretto", dichiarerà Vincent Cavanagh parecchi anni dopo - ha vissuto il suo autentico giro di boa in corrispondenza con l'avvento degli anni Duemila. È qui, infatti, che la parabola ascendente inaugurata proprio a partire dal quarto album raggiunge una spinta decisiva, di intensità talmente forte da rendere indeterminabile il verso. Una spinta che si rivelerà talmente incontrollabile da consumare nel giro di cinque anni l'intero bagaglio di forza creativa, portando la macchina al surriscaldamento e rendendo necessaria una sosta che si rivelerà decisiva.

Quello che si ritrova nel post-Judgement è dunque un gruppo ancora impegnato in una spasmodica ricerca di certezze, quella stessa che aveva portato due anni prima, per ammissione dello stesso Vincent Cavanagh, al richiamo di John Douglas: "All'inizio abbiamo provato io e Danny ad arrangiarci con le nostre forze, ma poi abbiamo dovuto richiamare John perché lui c'era sempre stato in quel che avevamo fatto. Non avevamo nulla contro il nostro altro batterista, Shaun, anzi mi sono sentito maledettamente in colpa: ma avevamo bisogno di John, ci serviva, era l'unico in grado di fare da collante tra me e Danny". Se Judgement era stato un autentico exploit, una prima pietra basilare da cui ripartire, la necessità di una stabilità su cui contare in prospettiva futura è l'obiettivo che A Fine Day To Exit è chiamato a raggiungere. Le importanti mosse che costituiscono i primi passi in tale direzione sono il ritorno nella natia Liverpool, dopo due dischi registrati lontano da casa, e l'ingaggio di un tastierista a tempo pieno. La scelta ricade su Les Smith, vecchia conoscenza delle session di Eternity, precedentemente in forze agli Ship Of Fools e, soprattutto, ai Cradle Of Filth, a cui più tardi si unirà anche Dave Pybus. Il progetto è sulla carta validissimo, ma a minarne la solidità ci pensa l'equilibrio non ancora ritrovato dai fratelli Cavanagh: a prendere in mano una situazione potenzialmente complessa è, a sorpresa, proprio Douglas, per il quale il sesto disco della compagine prende la forma di un'autentica rivincita.

anathema6A Fine Day To Exit vede la luce nell'ottobre del 2001 a poca distanza dall'antologia Resonance (sunto del periodo fino ad Eternity), dopo quasi un anno di session: e per inquadrarlo potrebbero bastare alcuni importanti dati. Il primo è la presenza in cabina di produzione del recentemente scomparso Nick Griffiths, ingegnere del suono dei Pink Floyd e produttore di due dischi solisti di Roger Waters (“Radio KAOS” e il più interessante “Amused To Death”), e la seconda è il titolo stesso, dunque un primo tentativo di fuoriuscire da quel tunnel di negatività che aveva influenzato le atmosfere degli ultimi lavori.
Ma le nuvole a rendere lattiginoso il cielo sono ancora tante e a denunciarlo è già il singolo “Pressure”, evoluzione che mira ulteriormente alle atmosfere british dei Radiohead – che Danny Cavanagh cita a tutt'oggi come una delle influenze principali di quel periodo – e mostra al tempo stesso un primo, evidente interesse verso lo “stupido sogno” neo-progressive dei Porcupine Tree. Un contatto che pochi mesi prima era stato suggellato da “Blackwater Park” degli Opeth, caposaldo dello sversamento dell'universo metal nella rinascita prog (nonché fra le prime vere alternative al processo inverso di Dream Theater e seguaci) fra i cui artefici primi vi è proprio Steven Wilson. E proprio queste sono le due coordinate fra cui il disco tende ad oscillare, segnando dunque contemporaneamente un parziale allontanamento dai suoni della “coppia” precedente e intravedendo da lontano l'approdo del futuro prossimo.
Per una “Looking Outside Inside” che continua a lasciar scendere le lacrime per poi convertirle in rabbia chitarristica (il riferimento, strutturale e sonoro, a “Paranoid Android” è palese), c'è una “Barriers” in cui le proporzioni della sofferenza tendono a ridimensionarsi con decisione, fino alle distorsioni assortite poste in chiusura. “Release” è un altro numero da liberazione prevista che suggerisce le prime avvisaglie di quella coralità che diverrà caratteristica fissa degli Anathema del futuro, in compagnia di “Leave No Trace” e del suo crescendo. Decisamente meno convincenti sono i graffianti passaggi di puro alt-rock che nascondono mire post-grunge, più trattenute in “Underworld” e totalmente dispiegate in “Panic”. A porre il sigillo sono chiamate due escursioni in territori anomali: la dimessa title track, che trasporta la malinconia in pieno territorio cosmico, e il tentativo di pace dei sensi di “Temporary Peace”, acerbo tentativo di introdurre un tema pronto a divenire centrale nei lavori successivi, migliorato dalla suggestiva ghost track acustica “In The Dog's House”.
A Fine Day To Exit è il più classico dei dischi di transizione e va a raccogliere la conclusione di alcuni discorsi e l'abbozzata introduzione di altri. La buona forma del songwriting di Douglas va a scontrarsi con il contributo mutilato dei Cavanagh: ciò nonostante, il disco si mantiene su un livello medio decisamente elevato a prescindere dai travagli della sua gestazione, riuscendo a rappresentare la certezza cercata e offrendo una buona dose di spunti pronti a essere sviluppati nel giro di un paio d'anni.

A rafforzare ulteriormente la situazione arriva pure un insperato, seppur minimo successo commerciale, che non tocca la natia Gran Bretagna ma ne oltrepassa sorprendentemente le frontiere: il disco riesce a entrare nelle classifiche di vendita di Finlandia, Germania, Francia e soprattutto Polonia, dove il raggiungimento del ventiduesimo posto inaugura la nascita di una fanbase che arriverà a contagiare in pochi anni tutto l'Est Europa. Il tutto all'interno di un processo di ricambio di seguito che aveva portato la band a perdere parte del pubblico metal degli esordi, tanto quanto a trainarne un'altra parte verso nuove sonorità. "C'è chi ci segue dai nostri primissimi esordi, così come chi ha deciso di lasciarci già dal nostro secondo album (The Silent Enigma, ndr), quello in cui ho esordito come cantante", ammette consapevolmente Vincent. Ma la necessità di evolversi, per gli Anathema, è sempre venuta prima della voglia di appagare il proprio pubblico: "Vedi, se permetti alle aspettative del pubblico di entrare nella tua creatività musicale non evolvi mai. È giusto rispettare le aspettative delle persone e il volere del pubblico certo ma dipende anche molto dal tipo di band in cui suoni". A fine anno c'è spazio anche per Resonance 2, il sequel della prima raccolta che completa una panoramica estesa sulla prima fase di carriera, coprendo questa volta la fase di Judgement e Alternative 4.


L'esplosione

L’album è secondo me molto più lineare e semplificato di ‘A Fine Day To Exit’, si dirige direttamente al cuore della faccenda senza troppi fronzoli. Ovviamente presenta molti punti di contatto con il precedente album, ma presenta molti picchi differenti all’interno, quindi momenti decisamente rilassati,
alternati a momenti assai più decisi e aggressivi
(Daniel Cavanagh)


images_01Dopo un anno di travagli stavolta gestiti con sapienza - con Danny Cavanagh che annuncia l'abbandono della band per unirsi agli Antimatter di Duncan Patterson, salvo ripensarci nel giro di un paio di mesi - gli Anathema fanno ritorno in patria nel 2003 con già buona parte del materiale per il loro lavoro successivo. Non c'è più Dave Phybus, “trasferitosi” nelle fila dei Cradle Of Filth con ben pochi rimpianti per il resto del gruppo: "In realtà non è mai stato parte integrante della band – confesserà il chitarrista - e fondamentalmente non ci andava a genio la sua personalità molto ambigua e fortemente egoista". Al suo posto è richiamato il taciturno e misterioso terzo fratello, Jamie, quello che aveva mollato dopo i primi demo per scomparire totalmente dalla scena: "Jamie non è mai stato attratto dal tipo di vita che si fa, registrando dischi, facendo tour promozionali, salire su di un palco, viaggiare nei tour bus, concedere interviste etc. Non so per quanto durerà, Jamie non ha avuto nessun impatto su A Natural Disaster", sarà l'impietosa (e col senno di poi, parzialmente profetica) sentenza di Danny, probabilmente deluso dallo scarso interesse del fratello che proprio lui aveva fortemente rivoluto in formazione.

Ma per una defezione di poco conto c'è una certezza costituita dal nucleo centrale del gruppo, giunto finalmente all'affiatamento sperato, e dalla persona di Danny stesso, ripresosi del tutto e pronto a prendere per mano saldamente il timone compositivo della compagine: "Questo è un album particolare perché ho composto le musiche e le liriche completamente da solo e la mia ‘mano’ e il mio indirizzo stavolta è stato più decisivo in confronto agli altri componenti. Spero che il prossimo album veda la medesima partecipazione di tutta la band sia per la stesura che, nuovamente, sulla produzione”. E talmente sicuro dei suoi mezzi da prendersi una serie di rischi non indifferenti nell'iniettare, seppur in dosi minime, una serie di novità nella formula della band. "Adoro i Portishead. Apprezzo anche la scena di Bristol ma, personalmente, sono stato infinitamente più influenzato dai Portishead, soprattutto per la stesura di A Natural Disaster. E’ uno dei pochissimi gruppi su questa terra che, in maniera semplicissima, è capace di donare alle canzoni una profondità straordinaria": dichiarazioni apparentemente inconciliabili con il misto di brit-rock, malinconia, psichedelia e avvisaglie prog che aveva caratterizzato A Fine Day To Exit.

Ed effettivamente, l'esplosiva e variopinta miscela di A Natural Disaster mostra una quantità di punti di riferimento decisamente maggiore rispetto al passato, la cui conciliazione è il vero, grande punto di forza del disco stesso. L'attitudine è dunque a tutti gli effetti quella di un gruppo progressive, intento a svariare su più fronti dando sfoggio di una sicurezza tutta nuova, distante anni luce dai timori e dalle sofferenze del passato, ma lontano da artifici e tecnicismi e semmai ben intento nel rendere la formula il più diretta e pulita possibile.
Registrato in poco più di un mese – altra fondamentale differenza con il suo predecessore – il nuovo lavoro vede la luce verso la fine del 2003, con la produzione curata per la prima volta dalla band stessa nella persona di Danny, affiancato da Dan Turner e di nuovo dal vigile occhio di Nick Griffths. La seppur breve parentesi del chitarrista nelle file della policroma nuova creatura di Patterson – pronta a svariare da un downtempo dimesso e oscuro a un gothic-metal crudissimo - è la ciliegina sulla torta a completare la poliedrica mutazione.

Così l'incipit di “Harmonium” è letteralmente uno shock, una litania melancolica guidata da archi nuvolosi e da un drumming scarno che inscena tuoni e fulmini prima della tempesta di metà pezzo. Su un clima simile si assesta anche “Electricity”, luogo del passaggio dalla tristezza a una malinconia con sprazzi di sereno, dove è per la prima volta il pianoforte a guidare le danze. Di rarissima bellezza è la doppietta di perle “Are You Here”-“Childhood Dream”: la prima è una ballad dal cuore ferito che evita con classe il rischio di cadere nel melenso, la seconda un'evoluzione della parentesi acustica provata nel finale del disco precedente, stavolta decisamente più a fuoco. Un'anticamera quieta prima del tornado di “Pulled Under At 2000 Meters A Second”, cavalcata crudele che torna dopo anni a resuscitare i fasti metal di Eternity. Questi ultimi sono rievocati nel drumming pure in quel capolavoro che è “Violence”, lunga suite di saliscendi prog che conclude il disco e spalanca le porte, a suon di ventate melodiche che progressivamente spazzano via le nuvole, alla coralità sinfonica dei successivi capolavori della band. Un punto di contatto che mancherà purtroppo di ripresentarsi dal vivo, al contrario della manciata di futuri classici che completano la tracklist: il notturno puramente brit di “Balance”, l'immersione in puro territorio trip-hop - con tanto di vocals interamente affidate a Lee Douglas - della title track, la maestosa liberazione di “Flying” (altro presagio del sound futuro) e il delizioso mantra al vocoder di “Closer”.
A Natural Disaster è un punto d'arrivo, la conclusione di un percorso e il primo mattone di uno nuovo in elaborazione, un coraggioso tentativo di cambiare pelle nei suoni, che resta ancorato al passato per clima e atmosfere, il primo passo di una transizione avviata con meno certezze in A Fine Day To Exit. Ma se quest'ultimo restava “a cavallo fra vecchio e nuovo”, qui si sfocia almeno a livello di approccio decisamente nel secondo, grazie in particolare al coraggio di Danny Cavanagh nel mischiare una moltitudine di elementi sotto il comune vessillo del progressive.

anathema7Ritrovate certezze e stabilità, i “nuovi Anathema” restano comunque alla ricerca di un ultimo elemento: una formula sonora altrettanto stabile e caratteristica, che impiegherà la bellezza di sette anni per essere elaborata. Dopo A Natural Disaster, elogiato all'unanimità dalla critica ma incapace, per fisionomia sonora, di raggiungere i risultati di vendita del suo predecessore, la band si imbarca in un tour che li vedrà girare l'Europa, documentato qualche anno dopo da ben due Dvd, Where You There? e A Moment In Time. Ma l'exploit del disco segna anche l'avvento di un momento decisamente complesso da gestire: la scelta della strada da intraprendere. Le numerosissime possibilità aperte dai tanti esperimenti necessitano ora di un focus, una lente di ingrandimento che ne approfondisca i dettagli e le possibilità espressive, onde non correre il rischio di ripiegarsi sulla scelta di non scegliere e su una conseguente sosta evolutiva. A questo si aggiungono una serie di alte situazioni complesse, prima fra tutte l'acquisto della Music For Nations da parte della Bmg, e la scelta della band di voler invece proseguire sulla strada dell'indipendenza dalle major. Elementi che portano alla decisione, in verità mai resa pubblica, di una lunga sosta, che Vincent Cavanagh avrebbe a distanza di anni spiegato così: "Ci fermammo per un numero consistente di ragioni. Prima di tutto all’inizio lavoravamo con un’altra agenzia di management e con un’altra etichetta. Al bivio ci siamo chiesti se continuare a quel modo o iniziare ad autoprodurci il nuovo lavoro e proporsi successivamente alle etichette con un disco già completo. Abbiamo optato per la scelta dell’autoproduzione, anche perché le prime offerte che avevamo non le gradivamo tanto, specialmente per i mezzi messi a disposizione. Questo ha comportato anche raggiungere un certo livello di competenze specifiche nella registrazione del disco, con i suoi tempi tecnici. Poi ci sono stati un po’ di piccole variazioni a livello di line-up della band. Sono molti sette anni, ma siamo veramente contenti di essere arrivati alla fine di questo tunnel".

Durante i sette anni che separano A Natural Disaster dal suo tardivo e straordinario successore, la band riesce però a compiere quella che è forse l'impresa più importante della sua carriera: restare unita nelle difficoltà. Lontani dalla prospettiva di uno iato, gli Anathema prendono al balzo la necessità di una sosta discografica per lanciarsi nel più grande e partecipato tour della loro carriera, affiancando per parte delle date i ben più popolari finlandesi Him e togliendosi una serie di sfizi personali. Daniel Cavanagh, assunto ormai in maniera definitiva il ruolo di penna della band, continua a produrre materiale e a testarlo sfruttando i vantaggi della nuova posizione discografica: liberi di non dover rendere conto a nessuna etichetta, iniziano a pubblicare alcuni inediti tramite il loro sito web, seguendo a ruota il metodo-Radiohead della donazione volontaria. Il chitarrista dà alle stampe poco prima anche un disco solista interamente acustico, A Place To Be, che pur risultando di per sé poco incisivo testimonia appieno l'aumento vertiginoso dell'interesse nei confronti della ricerca melodica. "A quel punto Danny e io decidemmo di prendere in mano definitivamente la situazione, ma una grandissima mano ce la diede Les (Smith, ndr). Si mise a costruire uno studio che ci permettesse di fare tutto senza un'etichetta, fu un periodo davvero strano e particolare. E nel frattempo, mentre continuavamo a lavorare, i concerti in Europa erano sempre più pieni, avevamo sempre più seguaci. Era evidente che stesse accadendo qualcosa di speciale", avrebbe poi sintetizzato Vincent Cavanagh. Nello stesso periodo, ai cinque si unisce in pianta stabile anche la sorella di John Douglas, Lee: il fatto, apparentemente tardiva evoluzione di una collaborazione artistica divenuta ormai fissa, è in realtà un ulteriore suggerimento rispetto alla strada che la band intraprenderà, per la quale la sola voce di Vincent non sarebbe stata sufficiente.


La purificazione

Siamo quel tipo di persone a cui piace cambiare. E siamo una rock band inglese con un grande interesse nei confronti della melodia e dell'emotività che sta nella musica. Qualsiasi sia il genere musicale che ci viene affibbiato, si tratta in fin dei conti della stessa materia che si è evoluta e continuerà ad evolversi. Ci siamo spostati sempre con estrema naturalezza e credo che se qualcuno avesse qualcosa in contrario al nostro voler cambiare, ci limiteremmo a non curarci della sua opinione
(Vincent Cavanagh)


anathema8Quando nel 2010 gli Anathema comunicano dal nulla l'arrivo in tempi brevi del loro ottavo album in studio, sembra chiaro fin dall'inizio che qualcosa di davvero importante stia per avvenire. Un'analisi breve e sommaria a quanto avvenuto negli otto anni di sosta discografica può risultare in un'unica conclusone: alla già costruita stabilità, i “terzi” Anathema sono pronti ad aggiungere una ritrovata serenità. L'aver superato con disinvoltura e affiatamento l'ennesimo periodo complesso, al punto da non farlo nemmeno sembrare tale, è un'iniezione di fiducia che si traduce in maniera decisiva nella più imprevedibile e straordinaria delle mutazioni dei tre. A indicare senza possibilità d'equivoco la strada su cui il gruppo si stava indirizzando ci aveva pensato due anni prima Hindsight, raccolta di rielaborazioni in chiave orchestrale di una selezione di lusso del periodo compreso tra Alternative 4 e A Natural Disaster. Il progressive è la strada scelta e se “Violence” ne era già stata un'importante dimostrazione, la scelta di chiamare la Royal Liverpool Philarmonic Orchestra a benedire le nuove vesti dei vecchi pezzi si configura come l'atto decisivo, l'emblema del matrimonio con l'universo prog in toto.
Gli abiti di lusso cuciti dalle fitte trame orchestrali tendono però a scontrarsi con l'imponente carica malinconica dei brani, moltiplicandola spesso a dismisura. A trovarsi a loro agio sono solo gli estratti da A Fine Day To Exit (da pelle d'oca la trasformazione di “Leave No Trace” in tragedia da menestrelli) e lo stesso A Natural Disaster (altrettanto magistrali la versione quasi ambientale di “Are You There” e quella marcatamente romatica della title track), mentre l'esperimento si adatta molto meno alle introverse e fitte trame di pezzi come “Fragile Dreams”, “Inner Silence” o “One Last Goodbye”.

Coralità, carica emotiva e serenità sono le parole chiave per cercare di descrivere la nuova formula della band, che nel giro di pochi mesi dall'annuncio sarebbe stata portata a una prima, imprescindibile seppur ancora meticcia vetta. Dopo una lunga e difficoltosa ricerca, a interessarsi alla nuova vita della creatura dei Cavanagh è niente meno che Steven Wilson, che vede in loro un possibile nuovo volto – dopo Opeth e Riverside – della transizione dal metal al prog. La firma per la sua Kscope diventa passaggio scontato quanto fondamentale per inquadrare la portata di un investimento che si rivelerà, nel giro di pochi anni, incredibilmente più fruttuoso di ogni più rosea previsione. Non contento, Wilson decide pure di seguire in prima persona la realizzazione di quello che si rivelerà come il più sorprendente e folgorante dei dischi della compagine di Liverpool: c'è proprio lui dietro al mixer di We're Here Because We're Here, l'imponente porta su un nuovo mondo sonoro, nonché il primo disco di cui Vincent Cavanagh sarà pronto a dichiararsi soddisfatto al cento per cento. Quest'ultimo arriverà anche a rivelare quanto il disco per la band abbia rappresentato una sorta di grido liberatorio dopo le ripetute pene del passato, dato quest'ultimo suggerito anche dalla bellissima copertina: "La cover è un mare, un pianeta, è l’atmosfera senza gravità. E’ un’immagine bizzarra, surreale, strana. E’ criptica. E’ la metafora del nostro mondo interiore, dei terremoti e delle tempeste interne che ognuno di noi, che l’uomo spesso ha dentro sé, nella parte intima. Cose con cui ci dobbiamo battere ogni giorno".
Il sentimento e la natura umana sono le tematiche preponderanti dell'intero disco, il cui titolo fornisce già di per sé un elemento di curiosità: "Tutti conoscono la storia di 'Auld Lang Syne', la canzone cantata nelle trincee della prima guerra mondiale per tirare su il morale di coloro che sopravvivevano a quell’incessante massacro – specifica Vincent - Lo spirito di quelle parole ci ha toccati tutti profondamente e ben si è accordato a tutte le esperienze che abbiamo condiviso a tutti i livelli, come individui singoli e band, durante questi ultimi anni. Da queste esperienze siamo emersi più coesi e abbiamo dimostrato una grande capacità di recupero".

L'apertura di “Thin Air” risuona dunque come un fulmine che sgombra definitivamente il cielo da qualsiasi nuvola: una cavalcata schietta, diretta e costruita sulla penetrante ossatura chitarristica di Daniel Cavanagh, pronta a farsi limpida nel duetto di “Everything”, prima prova effettiva del ruolo di Lee Douglas nella band. “Angels Walk Among Us”, con l'impercettibile presenza ai cori di Ville Valo dei già citati Him, è diretta evoluzione del discorso sinfonico: c'è ancora qualche scoria di malinconia, espressa però con un impeto inedito e travolgente, proprio anche della più spartana (ma altrettanto suggestiva) “Get Off Get Out”. La languida “Presence” inverte la tendenza, riprendendo quel briciolo di compostezza altrove accantonata, ma lasciando trasudare una positività di fondo, assente invece nel torpore pianistico di “Summernight Horizon”, unica vera concessione alla sofferenza del passato.
E se la tetra “A Simple Mistake” suona quasi come un'invocazione autocritica, il finale di “Hindsight” ci riconsegna una band alle prese con quelle stelle cadenti e comete invocate nel fenomenale e lungo corale di “Universal”. Quest'ultimo si conquista senza fatica la palma di capolavoro, spartita con il finale pirotecnico di “Hindsight” - autentica dichiarazione di legame con il prog classico – e soprattutto con la commovente ballata “Dreaming Light”, in grado dal vivo di portare alle lacrime, complice una melodia sensazionale e quella che è a tutt'oggi l'interpretazione vocale più struggente della carriera di Vincent Cavanagh.
Acclamato dalla critica e da un pubblico sempre più vasto (in Grecia raggiungerà la sesta posizione della classifica degli album più venduti), We're Here Because We're Here è il colpo inatteso, il rientro in pista col botto di una band che per la terza volta in quasi vent'anni decide di cambiare volto. Ma lo spazio concesso alle sfumature è questa volta decisamente minore: troppo forte la voglia di spalancare finalmente le porte di quel mondo tenuto chiuso per anni; troppo intensa la conseguente spinta creativa per poter essere frenata o contenuta. A risultarne è il lavoro più personale e sentito della loro discografia, inferiore per intensità solo all'insuperabile meraviglia che gli farà seguito.

La tournée successiva all'uscita del disco registra il tutto esaurito in gran parte d'Europa e vede la band per la prima volta varcare la soglia del Vecchio Continente per approdare, con successo, in America e Australia. Proprio i due stati-continente si riveleranno terre fertili per la nascita di nuove e sempre più eterogenee fanbase, pronte a far spiccare il volo alle vendite dei successivi lavori del gruppo. Il nome degli Anathema è ormai associato in maniera definitiva all'universo neo-progressive e definitivamente scollato da un passato distante anni luce dal nuovo universo sonoro. Un passato lontano ma non ripudiato dalla band, che non ha mai smesso di sentire l'esigenza di conciliarlo con quel presente così diverso: "Ci sono stati una serie di fraintendimenti fra noi e chi ci ha osservato dall'esterno, primo fra tutti quello di pensare che stessimo cercando di cambiare o dimenticare le nostre radici" spiega Vincent, raccontando la nascita del sequel di Hindsight che avrebbe visto la luce di lì a pochi mesi. "Ci stavano fraintendendo perché tutto quel che stavamo facendo e facciamo paga un tributo enorme alla musica del nostro passato, che amiamo tutt'oggi. Così abbiamo deciso di dimostrare quanto siamo ancora legati a quelle melodie, ma di farlo alla luce di quel che siamo oggi e della musica che facciamo oggi: quindi con un'orchestra. Ci è costato molto e avevamo previsto di non guadagnarci granché, ma non ci interessava". Proprio da questa necessità personale prima ancora che artistica prende forma Falling Deeper, raccolta che va a ripescare addirittura il materiale dei primissimi Ep The Crestfallen e Pentecost III oltre che una manciata di pezzi da Serenades e The Silent Enigma. Non entusiasmante nel risultato - di nuovo la veste orchestrale finisce per stare piuttosto stretta a pezzi nati con addosso una pesante e scura pelliccia come quella doom-death - il disco è però importante documento di continuità della linea temporale del gruppo, nonché emblematica dimostrazione del legame tra le ombre del passato e la luce sempre più forte del presente. E proprio l'intensità di quest'ultima, ormai incontrollabile, porta Danny Cavanagh a continuare, instancabile, a sfornare materiale da sottoporre all'attenzione dei compagni, al punto tale che a pochi giorni dall'uscita della raccolta, gli Anathema annunciano di stare lavorando alla loro nona fatica, che impatterà sei mesi dopo con una forza prorompente.


L'estasi

A dire il vero, non sono mai davvero stato soddisfatto del tutto di un nostro disco fino a "We're Here Because We're Here". E non ero soddisfatto di quel disco quanto lo sono ora di "Weather Systems". E forse lo sarò ancora di più del prossimo, o almeno cercherò di esserlo perché è l'unico modo efficace di continuare ad evolversi. Certo, dopo questo sarà davvero dura...
(Vincent Cavanagh)

anathema02Pochi giorni prima della registrazione di Falling Deeper, Les Smith lascia gli Anathema. Si tratta della fine di un amore mai del tutto sbocciato, del termine di un percorso che non ha mai probabilmente soddisfatto fino in fondo l'ex Cradle Of Fifth, rimasto legato a quelle scorie metal che in A Natural Disaster avevano fatto la loro ultima e dimessa comparsa. A questa primaria ragione alla base della separazione - giustificata dal diretto interessato con la più scontata delle "divergenze artistiche e creative" - va aggiunto pure il crescente interesse di John Douglas per la musica elettronica, divenuto ulteriore limite al già non troppo ampio spazio concesso a Smith. Il distacco del tastierista viene immediatamente colmato dall'ingresso in formazione di Daniel Cardoso, giovane e talentuosissimo polistrumentista portoghese già con Danny Cavanagh nei Leafblade e con un curriculum stracolmo di collaborazioni in veste di produttore e session man. L'entusiasmo e la poliedricità del nuovo giovane membro vanno ad aggiungersi ad una schiera di fattori che, convergendo, renderanno il successivo ed imminente nono album degli Anathema l'insuperato capolavoro della loro carriera tutta. Scritte perlopiù in tour nel biennio precedente da un Danny Cavanagh in stato di grazia e registrate in poche settimane sotto la fondamentale guida del produttore Christer-André Cederberg, le nove meraviglie di Weather Systems costituiscono le espressioni più originali e pure del progressive contemporaneo. Nello spiegare il significato dell'affascinante titolo, Vincent Cavanagh svela il segreto più probabile dietro l'energia e la forza dirompente del disco: "È più che altro una metafora per esprimere una condizione interiore, la ‘tempesta’ è vista come un intimo conflitto a cui far fronte. Una volta completato l’album abbiamo valutato l’impatto di ogni canzone: potremmo definirlo un concept, ma non nel senso tradizionale del termine, piuttosto per il fatto che ogni canzone tratteggia, nei suoi ‘crescendo’, un paesaggio emozionale in cui integrarsi". A livello musicale, Weather Systems segna la definitiva consacrazione della pelle prog del gruppo, il quale si spoglia però delle scorie più tradizionali e del suo stesso passato recente: se in We're Here Because We're Here ci trovavamo di fronte ancora ad una rock band a tutti gli effetti, quella del nuovo album è una creatura che rinuncia senza mezze misure a spigoli e ombre.

Paradossalmente però, mai un disco degli Anathema aveva saputo trasmettere tanta energia quanta ne contiene la sola "The Beginning And The End", che è pure perfetta cartina di tornasole dello stato evolutivo e di salute della band: una hyperballad che nasce sorretta dal solo pianoforte prima di intraprendere un crescendo epico, pronto a chiudersi sui cori delle chitarre dei Cavanagh, la cui nuova veste - coralità melodica senza tracce di cattiveria - dimostra subito una capacità d'impeto (emotivo e non fisico) fuori dal comune. Le due parti di "Untouchable", dedicate rispettivamente da Danny alla compagna e alla madre, sono capolavori in grado di colpire al cuore al primo ascolto: la prima cresce sulle magistrali armonie vocali dei due fratelli e Lee Douglas, per poi scoppiare in una tempesta a ciel sereno guidata dalle chitarre, mentre la seconda ricostruisce il tema daccapo su tele orchestrali. Quella composta da "The Gathering Of The Clouds" e "Lighting Song" è un'altra doppietta da batticuore: le nuvole invocate nei bassifondi della prima scompaiono di colpo nella serenata della seconda, affidata alla paradisiaca e cristallina interpretazione della sola Douglas. Discorso a parte lo meritano i due tempi "The Storm Before The Calm": il primo è una parentesi spettrale e piovosa in cui John Douglas inizia a mettere a fuoco il suo interesse per l'elettronica, il secondo l'ennesimo tripudio con Vincent e Lee chiamati stavolta a dialogare con la chitarra di Danny. La tenue "Sunlight" concede una pausa al tripudio emotivo che la circonda, mentre il dramma di "The Lost Child" riprende con più successo il discorso orchestrale iniziato con le due raccolte di ripescaggi dal passato.
Non è un caso che "Internal Landscapes" sia anche il titolo della chiusura da pelle d'oca del disco: la voce campionata del misterioso Joe Geraci - descritto da Vincent come "un uomo che 'ha sconfitto la sua mortalità'" - enfatizza ulteriormente il messaggio di speranza che si cela nella progressiva ascesi, dagli arpeggi acustici iniziali al muro elettrico del finale. Perché Weather Systems è effettivamente una raccolta di "paesaggi interiori", nonché uno dei dischi più intensi, originali ed emozionanti del Nuovo Millennio.

Elogiato dalla critica a livello internazionale, il disco vende in un mese da solo più di quanto erano riusciti a fare i suoi predecessori negli anni, entrando dritto nelle top 15 di Germania, Polonia e Finlandia e conquistandosi piazzamenti importanti anche in Gran Bretagna e oltreoceano. Il tour mondiale che parte puntuale dopo l'estate del 2012 registra il sold out praticamente ovunque, nonostante il fittissimo calendario di date previste. A metà circa di quest'ultimo, la band decide di mettere definitivamente alla prova la possibilità di interazione fra il proprio materiale e la musica sinfonica: per la data presso la suggestiva location dell'anfiteatro romano della vecchia Philippopolis (oggi Plovdiv), in Bulgaria, ai sei si unisce infatti l'orchestra locale al completo: il tutto sotto gli occhi del regista Leslie Hollie, che decide di trarre un concert film dall'esibizione. La strabiliante e memorabile performance di quella sera strega un pubblico capace di raggiungere le trentamila persone e viene registrata e pubblicata dall'ormai fida Kscope: prima su due LP a titolo Untouchable e poi, una volta completata l'operazione cinematografica, sull'imperdibile CD/DVD Universal. Il risultato è un film che dovrebbe essere fatto vedere al cinema, una lezione su come costruire senza ricorrere a stratagemmi o effetti speciali uno show dalla portata eccezionale, su come trascinare e coinvolgere con la musica nella sua forma più pura. È la consacrazione definitiva dei “terzi Anathema”, quelli del dopo-sosta, che con due soli album all'attivo permangono fra le realtà fondamentali e più originali del rock contemporaneo.


Verso un nuovo inizio?

Analizziamo costantemente la musica che produciamo, fino al momento in cui è completa e se possibile anche dopo. Ma la maniera in cui ci approcciamo a modificare e indirizzare i nostri pezzi si basa su un processo intuitivo: ascoltiamo e lasciamo che sia la musica stessa a dirci in che direzione andare. Credo sia per questo che i nostri lavori hanno sempre un suono così organico e 'naturale'.
(Daniel Cavanagh)


Dopo il successo di critica - e soprattutto di pubblico - di Weather Systems, arriva il nuovo lavoro Distant Satellites. Le aspettative sono ovviamente alte anche per via dei proclami della band e la curiosità verso alcune scelte, tra le quali quella comporre un brano intitolato alla band (per l'appunto, "Anathema").
Il disco si rivela per una buona metà ancorato (o meglio, fossilizzato) a costrutti compositivi ormai consolidati, mantenendosi troppo affrancato dal successo dei brani del passato prossimo. Le tre "Lost Songs" sono un palese tentativo di replicare la formula efficace di "Untouchable", perdendo ogni naturalezza e spontaneità. Stesso discorso vale per "Dusk" e "Ariel".
Tuttavia, la seconda metà del lavoro riesce a creare uno shock quando ci si sta per rassegnare a un lavoro di maniera. John Douglas, liberato dai compiti batteristici con l'ingresso di Cardoso, si lascia andarea un tripudio di synth e drum'n'bass che caratterizza le accelerazioni di "You're Not Alone" e l'ambient music di "Firelight", fino alla title track da capogiro, immersa nello stile di Jon Hopkins.
La divisione in due sezioni del disco è fin troppo evidente, separata da uno dei migliori brani del lotto, l'inno epico "Anathema". Questa scissione pone un interrogativo sul futuro della band: proseguiranno con la strada indicata da questa seconda metà di sperimentazioni o si fermeranno?

La risposta arriva nel 2017 con The Optimist ma sembra tutt'altro che positiva. Il disco vorrebbe rappresentare il sequel di A Fine Day To Exit, ma la band appare più stanca che mai, del tutto affogata in quei cliché e quegli espedienti compositivi che sempre più porta avanti sin dalla svolta stilistica dell'ultimo decennio. L'impressione è che lo sbilanciamento delle composizioni verso un art-pop di forte stampo emozionale sia ormai una mera questione di forma più che di contenuti.
Il risultato sono composizioni sterili e ampiamente prevedibili, caratterizzate dai soliti trucchi del mestiere - tipo l'ormai abusato canovaccio soft start, stratificazione e crescendo finale - wall of sound, ostinati inseriti ovunque e vocalizzi ossessivi ma che raramente riescono a riprodurre l'ipnosi di brani come "Release", dal lavoro datato 2001 a cui vorrebbero ispirarsi.
Riguardo le performance dei singoli, Vincent Cavanagh appare più defilato che mai, lasciando molto spazio a Lee Douglas. Una scelta che sarebbe stata auspicabile per valorizzare lo splendido timbro della bionda vocalist ma che viene malamente sprecata in linee vocali spente e poco convinte.
La sensazione che la band si sia seduta sugli allori e abbia completamente esaurito il filone d'oro scoperto in questo decennio è nettissima e se questo fosse il risultato di una scelta consapevole e premeditata, il futuro della band lascerebbe poco spazio all'ottimismo.

...o verso la fine?

Nonostante il vistoso calo a livello compositivo la band continua ad avere il proverbiale seguito in sede live, grazie alla comunque sempre ottima resa dei loro spettacoli. Saggiamente gli inglesi scelgono di uscire con una raccolta, forse per riprendere fiato (e ispirazione?), forse per chiudere contratti in vista di altre prospettive. E' così che nel 2018 viene proposta Internal Landscapes 2008-2018 mentre nel 2019 viene annunciato l'inizio dei lavori per un nuovo album.
Tuttavia, la devastante pandemia del COVID-19 esplosa all'inizio del 2020 sconvolge i piani della band e blocca il suo tour. Il colpo sembra letale come ci si poteva aspettare, fino al giorno in cui, il 23 settembre 2020, la band lascia sul proprio profilo Facebook un inquietante comunicato che getta molte ombre sul futuro del gruppo:


“Cara famiglia Anathema,

Questo è un anno come nessun altro.
Abbiamo tutti – compreso ognuno di voi – affrontato sfide imprevedibili, le quali hanno avuto un impatto sia sulla nostra situazione professionale che su quella personale. In questo periodo difficile, gli eventi di quest’anno non ci hanno lasciato altra scelta che prenderci una pausa indefinita. Come singoli individui, è giunto il momento di intraprendere altri percorsi nella vita.
Siamo estremamente grati per il supporto di tutti nel corso degli anni. Non c’è fine all’amore e al rispetto che abbiamo per i nostri fan per averci regalato gli anni migliori della nostra vita. La generosità che avete dimostrato tutti dopo la cancellazione inaspettata del nostro tour sarà sempre con noi. Non avremmo mai potuto prevedere come sarebbe andato quest’anno.

Molte, molte grazie”.


Per avere nuove notizie bisogna aspettare il maggio del 2021, quando viene annunciato un nuovo lavoro solista per Daniel Cavanagh, intitolato Cellar Door, con data di uscita non precisata. Viene inoltre annunciata la nascita - dalle ceneri della band - di un nuovo progetto chiamato Weather Systems (nome che lascia più di qualche sospetto sul tipo di impostazione che potrebbe avere)

Purtroppo quello che poteva sembrare un segnale di rinascita non è altro che l'anticamera per un evento drammatico, quando il 21 maggio 2022 la band pubblica una notizia sconcertante sul proprio sito, comunicando le condizioni di salute molto gravi di Daniel Cavanagh, affetto da una profonda depressione che lo ha portato a un tentativo di suicidio, ma diffondendo anche un messaggio di speranza dove viene descritto l'inizio di un percorso di cura al quale il musicista si è volontariamente sottoposto, con la speranza che possa guarire presto.



 

Monografia a cura di Michele Bordi (periodo 1990-1999, 2014-oggi) e Matteo Meda (2001-2013)

Anathema

Discografia

ANATHEMA
CD & LP
Serenades (Peaceville, 1993)
The Silent Enigma (Peaceville, 1995)
Eternity (Peaceville, 1996)
Alternative 4 (Peaceville, 1998)
Judgement (Music For Nations, 1999)
A Fine Day To Exit (Music For Nations, 2001)
A Natural Disaster (Music For Nations, 2003)
Hindsight (raccolta, Kscope, 2008)
We're Here Because We're Here (Kscope, 2010)
Falling Deeper (raccolta, Kscope, 2011)
Weather Systems (Kscope, 2012)
Universal (live, pubblicato come Untouchable nella versione 2xLP, Kscope, 2013)
Distant Satellites (Kscope, 2014)
The Optimist(Kscope, 2017)
EP
The Crestfallen (Peaceville, 1992)
Pentecost III (Peaceville, 1995)
ANTOLOGIE & DVD
A Vision Of A Dying Embrace (video+live Dvd, Peaceville, 1997)
Resonance (antologia, Music For Nations, 2001)
Resonance 2 (antologia, Music For Nations, 2002)
Where You There? (live DVD, Music For Nations, 2004)
A Moment In Time (live DVD, Metal Mind/Hellium/Hicarus, 2005)
Universal (live CD+DVD, Kscope, 2013)
CASSETTE
An Iliad Of Woes (ltd, autoprodotto, 1990)
All Faith Is Lost (ltd, autoprodotto, 1991)
DANNY CAVANAGH
A Place To Be (Strangelight, 2004)
In Parallel (with Anneke Van Giersbergen, Angelic, 2009)
LID
(Danny Cavanagh & Eric Wagner)
In The Mushroom (Peaceville, 1997)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Sweet Tears
(videoclip, da Serenades, 1993)

The Silent Enigma
(videoclip, da The Silent Enigma, 1995)

Restless Oblivion
(live, dal live Visions Of A Dying Embrace, da The Silent Enigma, 1995)

 

Hope
(videoclip, da Eternity, 1996)

Pressure
(videoclip, da A Fine Day To Exit, 2001)

Mine Is Yours
(videoclip, da Resonance 2, 2002)

Dreaming Light
(videoclip, da We're Here Because We're Here, 2010)

Thin Air
(l
ive da Untouchable, 2011, da We're Here Because We're Here, 2010)

Kingdom
(videoclip, da Falling Deeper, 2011)

Untouchable, Part I
(videoclip, da Weather Systems, 2012)

Untouchable, Part II
(live da Universal, 2013,  da Weather Systems, 2012)

Distant Satellites
(trailer dall'album Distant Satellites, 2014)

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