Counting Crows

Counting Crows

Ritorno alle "roots"

Alfieri del ritorno a un "roots rock" tipicamente americano, al crocevia tra folk, blues e country, i Counting Crows di Adam Duritz hanno saputo per un certo periodo combinare sonorità "mainstream" e inquietudini "alternative". Fino alla deriva spudoratamente commerciale degli ultimi anni

di Antonio Ciarletta

A mia nonna


Insieme a Cracker, Better Than Ezra e Wallflowers, i Counting Crows sono stati fra i paladini della restaurazione, avendo riportato in auge quel rock "classico" tipicamente americano, incrocio delle tradizioni folk, blues e country, che deve la sua genesi ad artisti quali Bob Dylan, The Band, Little Feat, Creedence Clearwater Revival, Byrds, Van Morrison. Il sound dei Counting Crows, opportunamente ammodernato dalle nevrosi ritmiche dei Rem e dal mood depresso-esistenziale tipico degli anni 90, si presenta come alternativa di qualità per quel pubblico borghese che cerca storie di ordinaria disperazione in cui identificarsi, senza doversi "sporcare" le orecchie con i parossismi metallici del grunge. Sono narrazioni per quella parte di generazione X disposta a tormentarsi ma non troppo, a rattristarsi ma non a flagellarsi, per quella parte cresciuta con "Beverly Hills 90210" e "Friends", pseudo-alternativa negli ideali, capace di criticare genericamente la società capitalistica e contemporaneamente fare la fila al McDonalds.

I Counting Crows sono fautori di un sound radiofonico, in cui entrano in gioco diversi strumenti tradizionali, come organo, mandolino e armonica; un'orchestra rurale, insomma, come nella miglior tradizione della Band. Sono proprio questi elementi, oltre a una discreta fantasia nell'arrangiamento, che permettono al gruppo di tenersi a distanza dalla aberrazioni sonore (sfacciatamente mainstream) di Collective Soul e Hootie and the Blowfish, titolari di un sound levigato all'inverosimile e privo di sincerità. Il roots rock dei Counting Crows è nobilitato dall'organo atmosferico di Charlie Gillingham ma soprattutto dalla voce penetrante ancor prima che romantica di Adam Duritz, sintesi bastarda della passionalità soul di Van Morrison e delle intonazioni enfatiche di Bono Vox e Grant Lee Phillips. Ed è proprio qui il segreto dei Duritz, sviscerare storie di disperazione con accorata magniloquenza, rinverdendo così il mito del "beautiful loser". Songwriter di valore, Duritz racconta i drammi quotidiani della gente comune. Tra amori tormentati, fughe, scheletri nell'armadio e sogni infranti, il cantautore costruisce un corpus narrativo che fotografa al meglio la vita dei giovani nella provincia americana.

Provenienti da San Francisco i Countig Crows pubblicano, nel 1993, August And Everything After, uno dei grandi capolavori dell'"alternative mainstream" anni 90. L'album venderà vagonate di copie, trascinato dal super hit "Mr. Jones", in heavy rotation per lungo periodo, e da una serie di pezzi orecchiabili, che raccontano storie traboccanti di sincerità, e quindi commerciabili ma non sfacciatamente commerciali; Aor sì, ma di gran classe. Ritratto di una generazione inquieta, alla perenne ricerca di uno scopo, è la disperata "Round Here", una delle canzoni più belle del decennio: "Then she looks up at the building/ and say's she's thinking of jumping/ She say's she's tired of life/ she must be tired of something", canta Duritz in uno stile che pare il pianto di un peccatore in via di redenzione. Direttamente da "Music From Big Pink" sembra uscita "Omaha", che riesce a rievocare quell'America di provincia e campagnola, genuina e un po' ingenua. "Mr. Jones" è abile a far rivivere la magia dei Byrds con un jingle jangle chitarristico ossessivo ma melodico; chitarra, basso, e batteria sono completamente asserviti alla produzione di ritmo, un po' alla maniera dei Talking Heads, mentre la solistica è lasciata alla sola voce di Duritz. La sua maturità di cantante è impressionante, come dimostra "Time And Time Again" toccante interpretazione di un amante in agonia, in cui è incastonato un prezioso arrangiamento psichedelico, frutto dell'organo di Gillingham. Ancora frizzante folk pop in "Rain King", più Rem che Byrds, sulla scia di "Mr Jones".
Niente di nuovo sotto il sole, ma queste canzoni hanno la capacità di penetrare l'animo umano perché graziosamente melodiose e di sconvolgerlo in virtù delle storie tormentate che raccontano. "Sullivan Street" è una struggente ballata alla Byrds con background vocal femminile, pianoforte a inoculare una triste melodia autunnale e le intime confessioni di Duritz, che con maestria da attore consumato cesella un'altra storia di normale autoflagellazione. Il capolavoro dell'album è forse "Raining In Baltimore", una lenta elegia pianistica, che ha la qualità cinematografica di fermare il tempo in attesa che Duritz dia risposta alle domande che lo angosciano. "August And Everything After" è un piccolo gioiello di intimismo abile a descrivere l'humus culturale che lo ha generato, in modo a volte retorico, ma sicuramente sincero. Cantastorie della provincia come Westerberg, poeta nostalgico come Isaak, rocker passionale come Springsteen, Duritz è l'alter ego romantico di Cobain; l'urlo disperato del leader dei Nirvana esprime la furia iconoclasta di una generazione, apatica e rassegnata al cospetto di una società che non la comprende. Una manifestazione di rabbiosa inquietudine che procede dall'interno (animo) verso l'esterno (società). I personaggi di Duritz, al contrario, metabolizzano i drammi che li vedono protagonisti, e si tormentano nel proprio intimo, in modo discreto e autocommiserativo.

This Desert Life è prodotto da David Lowery (Cracker ed ex dei geniali Camper Van Beethoven). Le illustrazioni del maestro Dave McKean nel booklet varrebbero da sole l'acquisto del cd, ma anche la musica non delude. Le atmosfere appaiono più ariose e il mood meno inquieto, mentre le liriche sono più criptiche. Il sound è perfettamente calibrato tra strutture acustiche , inserti elettrici e arrangiamenti d'archi. The Band ritorna ad essere il principale punto di riferimento dei Crows, come dimostra la scorribanda campagnola "St. Robinson In His Cadillac Dream". Il southern rock più robusto è invece chiamato in causa in "Hanginaround", dinamico uptempo dove sono gli accordi di piano a dettare il ritmo. Piano ancora in evidenza in "Amy Hit The Atmosphere", malinconica e psichedelica, grazie al sitar di Dan Vickrey, mentre "Four Days" è un power folk alla Rem. "All My Friends" fotografa al meglio la malinconica situazione di tanti trentenni ancora ragazzini, incapaci di diventare uomini, intrappolati nella propria condizione da una controproducente volontà di autommiserazione: "All my friends and lovers leave me behind/ I'm still looking for a girl/ One way or another/ I'm just doping to find a way/ to put my feet out in the world". Capolavoro d'arte drammatica sono i 3 minuti e 23 secondi di "Colorblind", dove il piano di Duritz va a dipingere un'atmosfera triste, ma allo stesso tempo carica di tensione come nelle migliori composizioni di Nick Cave.

Meno urgente e spontaneo di August And Everything After, This Desert Life supera il predecessore nella qualità e nella qualità degli arrangiamenti.

Hardy Candy è un disco di musica pop che ben si adatta alla programmazione delle radio commerciali, anche a causa (per merito?!) di un mood più ottimista. Le composizioni più ritmate sono tutte figlie del power folk dei Byrds, ripulito, smussato negli arrangiamenti e rivestito da una patina di malinconia che sembra in questo caso artefatta. Duritz si piange addosso come da cliché, diventando ormai simulacro di se stesso; musica da pub o peggio da supermercato. Il sound dei Crows è sempre andato a braccetto con il mainstream, ma fino ad ora gli riconoscevamo una sincerità e un'urgenza espressiva che li rendevano apprezzabili anche alle frange più alternative di audience musicale. Perse queste qualità, il gruppo rischia di essere catalogato con i tanti Creed, (ultimi) Aerosmith, (ultimi) U2 e nu-metallari vari. La volgarizzazione del sound dei Byrds è palese nella title track, leggera (e non è un complimento) e con un jinjle jangle ruffiano che ben si adatterebbe alla pubblicità di un telefonino. Peggio riesce a fare "American Girls", con arrangiamenti superpatinati e zuccherose background vocals. "Goodnight L.A." è una copia di "Amy Hit The Atmosphere", ma parecchio più noiosa. Per ritmiche e modo di cantare, "New Frontier" sembra addirittura uscita da "Regatta De Blanc" dei Police.
Le canzoni brutte abbondano, ma in tanta mediocrità Duritz riesce comunque a pennellare un paio di numeri degni del suo nome, come la lenta, struggente e psichedelica "Good Time" e la splendida "Butterfly In Reverse", rivestita da un bellissimo arrangiamento d'archi. I Counting Crows danno l'impressione di essere alla frutta; sta ora a loro decidere se continuare a veleggiare tra i mari dorati del mainstream, o tentare di fare qualcosa di diverso. I Counting Crows sanno indubbiamente scrivere canzoni ma il loro è un sound anacronistico, troppo derivativo dai modelli di riferimento, incapace per sua stessa natura di rinnovarsi. Chi cerca un roots rock moderno, d'avanguardia, ma che non sacrifichi l'eredità dei grandi maestri del songwriting americano, può trasferirsi dalle parti di Calexico, Califone e Wilco.

Trascorrono quindi sei anni di relativo silenzio, interrotti solo da un “Best Of” e da una canzone (“Accidentally In Love”) per la colonna sonora del film d’animazione “Shrek 2” (2004), che li ha riportati in cima alle classifiche americane facendo loro ottenere una nomination all’Oscar, e da un discreto live pubblicato nel 2006. In mezzo, un trambusto generale: voci sullo scioglimento della band, di un progetto solista del frontman Adam Duritz, l’inquietante spettro di una collaborazione con la divetta pop Mandy Moore, e poi l’effettivo allontanamento dal gruppo dello storico bassista Matt Malley (si dice per divergenze “politiche”).

L’uscita di un nuovo album pareva quasi un obbligo contrattuale a conti fatti, ma a sorpresa i Counting Crows hanno confezionato il loro miglior set di canzoni dai lontani tempi di August And Everything After (1993).

Saturday Nights & Sunday Mornings, questo il titolo del disco, è un ambizioso concept, spezzato a metà, sulla sfrenata vita notturna di Los Angeles e i dopo sbornia e l’amarezza dei mattini successivi allo “sballo”. L’album rappresenta al meglio le due anime della band, quella rock tradizionale, e quella più tradizionale e folk, imparentata con Bob Dylan e Van Morrison.
“Saturday Nights”, la parte più rock, è prodotta da Gil Norton (produttore di Pixies, Foo Fighters e cento altri, che aveva già collaborato con il gruppo per Recovering The Satellites), e si apre alla grande con “1492”, a suo modo, uno dei pezzi più arrabbiati della band. Poi ci sono “Hanging Tree”, perfetto brano power-pop, la ballata in stile The Band “Los Angeles”, vera e propria dichiarazione d'amore nei confronti della città degli angeli, scritta e interpretata assieme all'amico Ryan Adams, il midtempo che acchiappa subito di “Sundays”, la sofferta “Insignificant”, forse la traccia più bella del disco, e infine la logorroica “Cowboys” (la meno convincente), che chiude questa prima parte dell’album.
La notte è già finita, è tempo delle “Sunday Mornings” annunciate dal titolo. Questa seconda parte dell’album è affidata alla produzione vellutata di Brian Deck (Iron & Wine, Califone), ed è più rilassata, intima (molti brani solo chitarra, piano e voce), al punto che pare quasi un lavoro personale di Duritz, in cui il resto del gruppo rimane sullo sfondo, comparendo ogni tanto (come nel singolo “You Can’t Count On Me” che, come molte cose dei Crows, narra di un amore finito male). “Washington Square”, nell’assolo di armonica nel pre-finale regala grandi emozioni, e la conclusiva, elegiaca,  “Come Around”  è un sentito bilancio dei quasi vent’anni di attività della band. In mezzo, c’è pure qualcosina di troppo, come la noiosa “On a Tuesday in Amsterdam Long Ago”, che ambirebbe a essere la nuova “Raining In Baltimore”, o la leziosa “When I Dream Of Michelangelo”, ma in definitiva nulla di cui lamentarsi eccessivamente.

I più avranno da obiettare che i Counting Crows non propongono nulla di originale, che da anni rifanno sempre le stesse cose (e difatti pure questa volta la critica Usa ha storto il naso), ma sfornare un album così “fuori dal tempo”, così solidamente ancorato alla tradizione americana è una mossa talmente controcorrente da meritare rispetto.

Nel 2012 i Counting Crows mollano il mondo platinato delle major e pubblicano da indipendenti un disco fatto interamente di cover, Underwater Sunshine. Quindici versioni profondamente countingcrowsiane di altrettanti pezzi pescati nel passato più o meno recente della musica pop e rock americana e britannica. Alcuni nomi sono enormi (Bob Dylan, Big Star), altri stuzzicanti (Teenage Fanclub, Travis), altri ancora poco meno che sconosciuti (chi diavolo sono i Sordid Humor? Vecchi amici di Duritz). I ragazzi, se non altro, hanno gusto, e la capacità di entrare dentro lo spirito di brani composti dieci, venti, quarant’anni fa in questo o in quell’altro capo del mondo: prendete quei concentrati di malinconia di “Like Teenage Gravity” di Kasey Anderson & the Honkies o “Coming Around” dei Travis (per non parlare di “Four White Stallions” dei Tender Mercies, già presente, con qualche nota di diversità, in coda a Hard Candy), o il country scintillante di “Amie” dei Pure Prairie League, o il fosco precipitare di “Jumpin Jesus” dei Sordid Humor. E così viene fuori, pure, che della voce liquida di Duritz, quella sua splendida voce meticcia, faremmo fatica a stancarci, qualsiasi cosa le dessimo da cantare, e che di questi chitarroni pieni, di questi fraseggi di piano, di questo epico, sentimentale perenne ritorno alle origini tutto sommato potremmo continuare ad avere bisogno per molto tempo ancora, anche solo una volta ogni tanto.

Nel 2014 la band californiana sforna il sesto capitolo di una discografia tutto sommato striminzita. Ebbene, Somewhere Under Wonderland è un buon disco. Niente di nuovo, sotto il cielo del Greenwich Village, il più alto di New York, dove Duritz ormai tende a trascorrere il grosso del suo tempo. Buon vecchio folk-rock saturo di chitarroni e giri di pianoforti malinconici, nove pezzi ben confezionati. Sono piccole narrazioni in grado di spalancare le porte dello sterminato immaginario di Duritz. L’America del miliardo di chilometri di strade, l’America dei luna-park abbandonati e delle verande polverose, l’America che divora l’anima e i ricordi. L’America dello showbiz in cui i Counting Crows, e il loro frontman soprattutto, hanno finito per invischiarsi inevitabilmente, in certe fasi della loro carriera. Duritz cantava dei suoi tormenti escatologici da giovane, figuriamoci ora che ha cinquant’anni: è davvero questo, il sentiero che avrebbe dovuto prendere, o c’è qualcosa di meglio, dall’altra parte del suo Rio Grande?
Poi, certo, c’è la musica, e almeno tre o quattro brani si stagliano con un certo nitore sul resto: l’elettrica “Dislocation”, il rassicurante country-rock di “Cover Up The Sun”, l’ipnotica “John Appleseed’s Lament” in cui fa capolino l’immancabile Maria, e anche l’interminabile “Palisades Park” che apre le danze, otto minuti di lenta corsa all’indietro nel tempo e una semplice domanda reiterata all’infinito che finirà per risuonare e risuonare nel profondo di ognuno di noi: “Hey man, have you seen Andy? Have you seen my Andy”.

Il gruppo torna nel 2021 con Butter Miracle, Suite One, una suite di soli 30 minuti, divisa in quattro brani e accompagnata da una dichiarazione che suona più come un auspicio che come una promessa: “Sto scrivendo la seconda parte” ha dichiarato Adam Duritz, leader della band ed esponente di spicco di quella Generazione X che a metà degli anni Novanta era disposta a lacerarsi i cuori, ma non le vene e neppure i timpani.

Il taglio dei famigerati dreadlocks in tempo di pandemia ha rappresentato la sterzata esistenziale di un Duritz sull’uscio dei sessant'anni, che scopre - parole sue - l’esistenza di altro oltre la musica, tipo vivere una relazione duratura con una donna che ama. Alquanto ironico che questa epifania abbia portato Duritz proprio a scrivere della musica nuova. Si dice che alla impronosticabile gestazione abbia contribuito il prolungato soggiorno nella fattoria inglese di alcuni amici, dove il cantautore ha d’improvviso sentito la necessità di farsi portare una tastiera lasciando che l'ispirazione naufragasse dalla testa alla carta passando per le dita.

Nel 2021 a questa compagnia di amici (quasi immutata nel corso degli anni) si  aggiunge Brian Deck, già produttore di Modest Mouse e Iron & Wine. E chissà che non ci sia proprio il suo zampino nell’insolito e leggerissimo anelito di suoni elettronici che soffia su “The Tall Grass”, brano d’apertura - nonché episodio migliore - di Butter Miracle, Suite One, in cui la voce di Duritz - profonda e stranamente roca - si fa strada con incedere incerto e quasi misterioso, su accordi sospesi di settima minore, fino alla sterzata melodica che rievoca l’elettrico e impolverato Recovering The Satellites e ricorda a tutti l'abilità di Duritz di fondere musica e parole in una sostanza sola ("I have one eye open to the rain/and one pressed to the ground again”).

Passare senza soluzione di continuità fra il primo ed il secondo brano è un po’ come uscire di casa per mettere piede in giardino; “Elevator Boots” canta l’amore per il rock con un suono che si avvicina ai Crows dell’ultimo ciclo, ma sembra la copia peggiore di “Palisades Park”. L'irregolare e poetica “Angel of 14th Street”, squarciata da un assolo di tromba e da uno di chitarra (quest’ultimo sul solco delle atmosfere già dipinte dalla bella “Cowboys” di Saturday Nights & Sunday Mornings introduce l’ultima frazione della suite, “Bobby and the Rat-Kings”, che fa da contrappunto concettuale alla già citata "Elevator Boots" con un'altra accorata lettera d'amore spedita al rock'n'roll, stavolta con opposto mittente: il fan anziché l'artista.
L'ultima canzone di "Butter Miracle, Suite One" strizza l’occhio ai The Who e vede Duritz appartarsi dagli altri ciondolando in stile Van Morrison per poi ricongiungersi al resto della band per l’abbraccio finale (“when the Rat-Kings go away/we'll never be the same again/again/oh, again/oh, again/again”, versi che tessono una recondita trama con quelli della vecchia “Einstein On The Beach (for an Eggman)”: "No, never be together again/no no, never never never again”).

Al di là delle etichette, è difficile considerare l'ultimo album dei Counting Crows una suite. Ogni canzone mantiene una propria autonomia ed escludendo il formato medley - che non lascia spazio ad interruzioni tra un brano e l’altro - l’Ep non veicola un messaggio né una trama unitaria (peraltro ogni traccia è stata rilasciata anche in versione single edit). Ad onor del vero l’uscita del disco è stata accompagnata da un cortometraggio che sviscera la storia di una rockstar piegata in due tra il blocco dello scrittore e i ricordi agrodolci di un passato lontano, ma si tratta di un prodotto sovrapposto a quello musicale, che vive di luce propria. 

Chissà che la seconda parte della suite non sveli il senso di un’opera che rimane spuntata e che in definitiva suona come una scarna raccolta di nuovi brani che sembrano la copia di quelli già incisi dai Counting Crows, in un passato più o meno glorioso, più o meno recente.


Contributi di Alex Poltronieri ("Saturday Nights & Sunday Mornings"), Giovanni Dozzini ("Underwater Sunshine", "Somewhere Under Wonderland"), Federico Piccioni ("Butter Miracle, Suite One")

Counting Crows

Discografia

August And Everything After (Geffen, 1993)

7

Recovering The Satellites (Geffen, 1996)

5,5

Across A Wire: Live In New York (Geffen, 1998)

6

This Desert Life (Interscope, 1999)

6,5

Hard Candy (Geffen, 2002)

7

New Amsterdam: Live At Heineken Music Hall (Geffen, 2006)

4

Saturday Nights & Sunday Mornings (Geffen, 2008)

7

Underwater Sunshine (Cooking Vinyl, 2012)
7
Somewhere Under Wonderland (Capitol, 2014)7
Butter Miracle, Suite One (Bmg, 2021)5,5
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