Luis Alberto Spinetta

Luis Alberto Spinetta

La complessità del rock argentino

L'uomo che ha cambiato per sempre la cultura argentina. Leader di diverse band storiche, ha creato un universo a sé, dove pop e rock sono al contempo aristocratici e comunicativi, le influenze più disparate si fondono senza soluzione di continuità e le canzoni diventano flussi melodici in costante mutamento, capaci di attraversare quarant'anni di suoni, tecnologie e filosofia

di Federico Romagnoli

Il pioniere

Non c’è praticamente musicista argentino che non indichi nella figura di Luis Alberto Spinetta il fulcro della scena rock locale. Pur non essendone il padre fondatore, primato che spetta a Litto Nebbia, fu senz’altro la prima figura a pensare al rock come a una forma d’arte capace di incorporare elementi culturali di alto profilo all’interno della componente popolare. Più o meno come in Brasile fecero Caetano Veloso e Gilberto Gil.

Attraversando più epoche del rock, Spinetta ha costruito un proprio universo in cui le contaminazioni sonore – dall’hard rock al folk, dal blues al tango, dal rock progressivo alla fusion – sono andate di pari passo a quelle letterarie, unendo cambi di accordi rompicapo e ritmi controsterzo a costruzioni poetiche e filosofiche in cui Jung andava a braccetto con Castaneda e Artaud. Riferimenti considerati quasi banali oggi come oggi, con la cultura a portata di click e abituati all’ala più intellettuale del rock, che su queste cose mangia da decenni, ma tutt’altro che scontati in un paese che fino a quel momento non disponeva di una propria scena.
Spinetta era peraltro un cantante del popolo: non faceva sue quelle suggestioni per soggiogare gli ascoltatori con la propria cultura, ma partoriva riflessioni sull’esistenza e sulla condizione umana che potessero comunicare con tutti.
La sua carriera s’è sviluppata prima come leader di quattro band – in ordine cronologico Almendra (1967-1970), Pescado Rabioso (1971-73), Invisible (1973-77) e Spinetta Jade (1980-85) – e in seguito come solista, benché un paio di estemporanei album a suo nome uscirono già negli anni Settanta. Ognuna delle sue incarnazioni ha lasciato almeno un album destinato a diventare cardine di quello che gli argentini indicano come rock nacional. La sua morte, avvenuta nel febbraio 2012 a sessantadue anni, lascia pertanto un vuoto incolmabile nella cultura locale.

Le origini

Soprannominato “el Flaco”, a causa del fisico filiforme che l’ha caratterizzato fino all’ultimo, Luis Alberto Spinetta nasce a Buenos Aires nel 1950. Che sia un predestinato lo si capisce dalla situazione familiare. Suo padre è un cantante di tango e lo indirizza verso la musica sin dalla tenera età, in più i suoi zii lavorano alla Columbia e nel corso degli anni gli garantiscono un costante accesso ai propri archivi, permettendogli di ammassare una cultura fuori dal comune, in particolare sulla musica a nord dell’equatore. A dargli la spinta definitiva è però il folk locale, che in quel periodo è protagonista di una forte ascesa mediatica. Spinetta inizia così a suonare la chitarra e intorno ai dodici-tredici anni riesce già a eseguire numerose canzoni. Da questo miscuglio di input nacque probabilmente l’attitudine alla contaminazione che avrebbe contraddistinto tutte le sue creazioni.
Nel 1965, mentre frequenta un collegio cattolico che non riscuote affatto le sue simpatie, si prodiga a suonare canzoni dei Beatles insieme al suo compagno di banco, Emilio Del Guercio. Presto però il repertorio gli va stretto e soprattutto gli va stretto il fatto di dover cantare in inglese, inizia così a scrivere brani di proprio pugno: nel giro di un paio d’anni nascono gli Almendra. Oltre a Spinetta (voce e chitarra) e Del Guercio (basso), il progetto include Edelmiro Molinari (chitarra) e Rodolfo García (batteria), che hanno militato fino a quel momento in band beat di scarso rilievo.

Almendra

spinettaRicardo Kleiman è il conduttore radiofonico più popolare del momento quando si imbatte in un’esibizione della band e, colpito dalla personalità di Spinetta, decide di rimediare loro un contratto discografico con la Rca. I lavori procedono a grande velocità e nel novembre del 1968 il primo singolo è già sul mercato. Il pezzo portante è “Tema de Pototo”, elegia per un compagno di scuola che Spinetta aveva creduto morto a causa di un equivoco. È probabilmente il pezzo rock più avanzato pubblicato in Argentina fino a quel momento, un gioiellino che mescola chitarre garage rock, organo elettrico, gentili armonie vocali, orchestrazioni barocche e una serie di sorprendenti cambi d’andamento.
Anche se il pubblico non sembra particolarmente interessato alla proposta degli Almendra, la Rca ha l’intuizione di proporre il brano a Leonardo Favio, che ne apprezza la melodia e lo lancia modificando il titolo in “Para saber como es la soledad” (dai versi che compongono il ritornello). La versione tenorile e ammansita di Favio è quasi comica se confrontata all’originale, tuttavia ottiene grande successo e porta i primi cospicui guadagni nelle casse della band.
Il successivo singolo esce a metà del 1969 e si intitola “Hoy todo el hielo en la ciudad”, è ancora più complesso del precedente, muovendosi fra onirismi pop (voci angeliche, vibrafono, codici morse, ghirigori fiatistici) e chitarre blues-rock che non lesinano in assoli e distorsioni. Il lato B è occupato da “Campos verdes”, per cui la band realizza uno dei primi videoclip locali, poi mandato in onda nel contenitore televisivo “Sucesos argentinos”. Arrivano i primi consensi del pubblico, ma si dovrà aspettare ancora qualche mese per il botto definitivo.

Il 29 novembre 1969 esce Almendra, l’album di debutto. È una data storica per la musica argentina, perché si tratta del primo disco rock significativo del paese, il disco con cui tutti capirono che quel tipo di musica poteva avere dignità anche se cantata in castigliano. La prima barriera venne invero abbattuta nel 1967 dai Gatos di Litto Nebbia, con lo storico singolo “La balsa”, ma ora gli Almendra chiudevano il cerchio e davano il via alla grande avventura del rock nacional, una delle scene più entusiasmanti del pianeta.
In apertura c’è “Muchacha (ojos de papel)”, pubblicata anche come singolo nel gennaio del ‘70. Il testo è una metafora erotica dura da digerire per il pubblico adulto dell’epoca, soprattutto in un paese rigidamente cattolico come l’Argentina, ma adatto ai più giovani, che come nel resto del mondo stanno attraversando un periodo di ribellione e presa di coscienza. “Mentre tutti dormono ti ruberò un colore […] Dormi un po’ e io intanto costruirò un castello col tuo ventre, fino al sole”. È una ballata acustica tuttavia incantevole, che ha il merito di mescolare il folclore argentino con le armonie vocali del pop rock internazionale, benché le parole sorpassino la musica per importanza.
Anche altri brani sono col tempo diventati classici. “Ana no duerme” è un garage-rock con pulsazioni d’organo elettrico, strofa galoppante e ritornello che rallenta all’improvviso, incamerando una coralità epica che ben si sposa al testo delicatamente femminista e denso di speranza: “Conta le luci, guarda la grande città, Ana non dorme […] forse domani si sveglierà sopra il mare”. “Plegaria para un niño dormido” è una ninna nanna in forma di tango al rallentatore, che incorpora rifiniture di chitarra elettrica jazzata, pianoforte e basso felpato. “A estos hombres tristes” è il momento più ambizioso, l’archetipo di molte delle future fantasie rock di Spinetta. La melodia è composta da più sezioni che si intersecano e cambiano continuamente velocità, spezzate da assoli blues, riff epici, passi di tango e taglienti spunti folk. È anche il capolavoro vocale di Spinetta fino a quel momento, un ottovolante d’intensità che mette bene in risalto il timbro alto e pulito poi diventato suo marchio di fabbrica.
Molinari si permette comunque di rubare la scena al leader firmando un magnifico brano di nove minuti, “Color humano”, un crescendo maestoso basato sull’incrocio fra l’acid rock della sua tormentata chitarra solista e il folk elettrico guidato dalla ritmica di Spinetta. Sempre generoso con i suoi collaboratori, il Flaco indicherà la canzone come una delle migliori della sua carriera.
I singoli antecedenti l’album non vennero inseriti, sia per motivi di spazio, sia perché non del tutto in linea con lo stile più maturo dell’Lp, tuttavia è possibile rintracciarli nella ristampa in cd del 1992, insieme a “Hermano perro”, 45 giri del 1970 passato sotto silenzio.

È il 17 dicembre del ’70 quando la nuova prova in studio raggiunge i negozi. L’album viene per comodità indicato come Almendra II, per quanto la numerazione non compaia ufficialmente sulla copertina. Si tratta di ventuno canzoni, con durate estremamente variabili, sparse lungo due vinili.
La qualità non è costante e l’ascolto non è semplice, tuttavia nel marasma è possibile rintracciare qualche gemma. “Toma el tren hacia el sur” è un rock acido e tambureggiante, che riecheggia la prima fase dei Fleetwood Mac; “Rutas argentinas” un caracollante rhythm & blues; “Los elefantes” una poesia simbolista sulla fine dell’esistenza, distesa su un paesaggio di folk psichedelico e chitarre effettate. “Gli elefanti sanno dimenticare [...] Guarda le loro lunghe proboscidi senza senso, come annusano tutto quel che c'è, e quando si osserva come si allungano, si vede come si rassegnano, a dimenticare la loro inspiegabile solitudine”.
Sfiorando il quarto d’ora, “Agnus Dei” rappresenta il fulcro dell’opera. Un minuto è occupato da un bozzetto folk denso di eco e tutto il resto da una delirante jam, forse un filo autocompiaciuta.
La scaletta questa volta contiene diversi pezzi provenienti dalla penna di Molinari e Del Guercio, che si prendono pure la briga di cantarli, senza tuttavia toccare i vertici interpretativi di Spinetta.
Il disco esce a band già sciolta, a causa di divergenze artistiche ormai insanabili, e non riceve pertanto la dovuta promozione. Del Guercio e García formeranno gli Aquelarre, mentre Molinari darà vita ai Color Humano. Entrambe le formazioni si spegneranno intorno alla metà degli anni Settanta, dopo aver pubblicato alcuni album di culto a cavallo fra hard rock, prog e psichedelia.

Pescado Rabioso

spinetta_2La Rca pretende comunque che Spinetta onori il contratto con un ulteriore album. Per ripicca, l’artista registra un prodotto invendibile, una raccolta di filastrocche hippy cantate in maniera del tutto sgraziata. Al disco partecipano due future stelle della musica argentina, Norberto Napolitano, ai più noto come Pappo in qualità di focoso chitarrista hard blues, e Miguel Abuelo, qui come percussionista e corista, in seguito leader degli Abuelos de la Nada. La casa discografia tenta di riparare cambiando il titolo provvisorio Spinettalandia y sus amigos in un più altisonante Almendra, nonostante all’interno non vi sia traccia degli altri membri della band e l’intestazione sia riservata al solo Spinetta.
L’album esce nel marzo del ’71, ma come prevedibile le vendite latitano. Molti anni più tardi la ristampa in cd avrebbe ripristinato il titolo inizialmente voluto dal Flaco.
Libero da seccature, se ne parte così per un viaggio di piacere di diversi mesi che lo vede attraversare Europa e Stati Uniti. Al suo ritorno “Muchacha (ojos de papel)” è ancora al centro dell’attenzione nazionale a causa della campagna pubblicitaria di una nota azienda tessile, mossa per cui la Rca non ha peraltro richiesto alcun permesso agli Almendra.
È questo atteggiamento costantemente irriguardoso che spinge Spinetta a chiamare a raccolta il bassista Osvaldo Frascino e il batterista Black Amaya, entrambi dal giro di Pappo, inaugurando un progetto dedicato esclusivamente a blues e hard rock, i Pescado Rabioso. L’intento è quello di creare musica di pancia e particolarmente aggressiva, che lo distanzi il più possibile dall’immagine di leader sofisticato degli Almendra e dal giogo della Rca.

Firmato un contratto per la Microfon, il debutto arriva nel settembre del ’72 e si intitola Desatormentándonos. Per quanto del tutto comprensibile come tappa esplorativa di un musicista curioso e mai sazio, l’album è un po’ appesantito da ritmi e riff alquanto rispettosi dell’ortodossia blues, e Spinetta non possiede la visceralità di Pappo. Dai cinque brani in scaletta si elevano “El jardinero”, per la catartica coda strumentale, e “Algo flota en la laguna”, per il violento simbolismo del testo: “La carità dell’universo è falsa, la tempesta si porterà via i nidi”. La figura del nido, che assume da sempre un ruolo protettivo nei confronti dell’infanzia, subisce l’attacco di un’entità misteriosa, che si manifesta sotto forma di intemperia. Il verbo “coger” al termine del verso citato lo rende ancora più inquietante, dato che lo si può utilizzare anche per indicare un atto sessuale. Nel mondo dipinto dal brano non c’è insomma alcun posto in cui poter essere al sicuro, sentimento che ben rispecchia la visione dell’autore, in un’Argentina dominata dai militari, economicamente debole e traversata dalle continue proteste dei peronisti.

Frascino molla mentre il disco sta uscendo (non si sente a suo agio al basso, vorrebbe suonare la chitarra). Il 1973 viene inaugurato da un paio di 45 giri, da cui provengono le tre canzoni più famose a nome Pescado Rabioso: “Post-crucifixión”, “Despiértate nena” e “Me gusta ese tajo”. Sono degli hard blues concisi e ispirati, in particolare il secondo, segnato dal talento di due nuovi assunti, il tastierista Carlos Cutaia – con l’Hammond a tutto volume – e il bassista David Lebón, che si prende la briga di debuttare sostituendo Spinetta alla voce. Il leader torna al comando negli altri brani e indovina uno dei testi più feroci della carriera in “Me gusta ese tajo”, inno contro la dittatura a suon di metafore sessuali e turpiloquio: “Con le sue belle gambe, lei mi fa pensare, [che] devo distruggere la merda, di questa città”. Il successo fu possibile perché la pubblicazione concise con il momento di transizione dalla dittatura al mandato di Perón (al ritorno dei militari, la canzone sarebbe stata esclusa da tutti i media argentini).

Nello stesso anno esce il secondo album, Pescado 2, doppio Lp di diciotto canzoni, che non include tuttavia nessuno dei tre inni che l’hanno anticipato (sarebbero stati raccolti solo nel 1976 nell’antologia Lo mejor de Pescado Rabioso).
Per l’occasione Spinetta mette in piedi una piccola enciclopedia di suoni. La sua anima di navigante è tornata a prendere il sopravvento sulla furia cieca. Nonostante non abbia generato momenti rimasti nell’immaginario, nel complesso è uno dei lavori più lodati del rock nacional, spesso paragonato ai grandi doppi del rock anglofono. Non è un’opera semplice da assorbire: quasi un’ora e un quarto fra jam, assoli, frammenti, nenie, ma anche ritornelli pop e interpretazioni di grande intensità. La pazienza viene però ampiamente ripagata.
Almeno una manciata dei brani più brevi potrebbe catturare l’attenzione del pubblico alternativo, una volta constatata la vicinanza di titoli come “Iniciado del alba” e “Poseído del alba” con i Big Star di Alex Chilton, incluso il loro lato più anemico e disilluso nelle sfilacciate armonie elettroacustiche di “Credulidad”. Lebón si ritaglia un piccolo spazio in quello che per Spinetta è l’apice dell’album, il country rock al rallentatore di “Mañana o pasado”. Fra i passaggi più dilatati spiccano invece “Peteribí”, segnata dai virtuosismi di Cutaia (e campionata da Eminem nel 2020, in “Stepdad”), il tragico soul “Como el viento voy a ver”, la pastorale “Madre-selva” e la conclusiva “Cristálida”, mini-suite che sfoggia rock abrasivo, parentesi riflessive per organo elettrico e finale con orchestra.
Particolarmente affascinato dai poeti francesi, Spinetta riversa i suoi dubbi in testi duri, dove filosofia e raziocinio affrontano il terrore dell’ignoto. Le ultime parole dell’album sono: “Come fare in modo che questa valle di vuoti non monti più in me? Non ho più un dio. Sono ombre inutili quelle di questo parco. Coloro che io chiamavo, no, non si sono palesati. Ogni gigante muore esausto, e divora chi sta sotto”.
Per i Pescado Rabioso è il capolinea: la ritrovata verve sperimentale di Spinetta cozza con la linea di Cutaia e Lebón, più fedele al blues. Presto il contrasto diventa insanabile. E dire che sia Cutaia, sia Lebón avrebbero nel giro di un lustro fatto parte di band guidate dal geniale Charly García e che ben poco avevano a che fare col blues, quali la Máquina de Hacer Pájaros e i Serú Girán.

Nell’ottobre del ’73 viene presentato ancora un album a nome della band, benché nei fatti opera del solo Spinetta, che suona per intero cinque brani su nove e nei rimanenti si fa aiutare da suo fratello Carlos Gustavo e dalla sezione ritmica degli Almendra. Si tratta del disco che lo piazza una volta per tutte ai vertici della cultura locale, forse il più celebrato nella storia del rock nacional, Artaud. È un disco che ha ispirato interi libri, il monolite leggendario che qualsiasi musicista argentino venuto in seguito indicherà come fonte d’ispirazione.
Il cartone che racchiude il vinile non ha la solita forma quadrata, è bensì un ottagono irregolare disegnato dallo stesso Spinetta in omaggio al surrealismo di Artaud. Una foto dell’artista francese compare in copertina, su sfondo verde e giallo (i colori che egli stesso ha indicato come simbolo della morte). Sin da questa presentazione si intuisce la particolarità dell’opera, che tuttavia Spinetta ha sempre indicato come omaggio critico agli scritti del commediografo, di cui amava il surrealismo e l’iconoclastia, ma non l’atteggiamento nichilista.
I brani registrati da Spinetta in solitaria rompono ogni barriera: la splendida serenata “Todas la hojas son del viento”, posta in apertura, è l’unica che abbia una struttura accessibile. Le altre sono opere in fase di costruzione, corpi folk lasciati a galleggiare fra cambi di accordi apparentemente insensati, effetti sonori disturbanti e saliscendi vocali cristallini. “Por” è un bozzetto di un minuto e mezzo con parole ammassate a caso, “La sed verdadera” racconta i conflitti interiori di una rockstar su intrecci di chitarra acustica e tremolo, prima di sfaldarsi in un finale di rumori ambientali, “A Starosta, el idiota” inizia come un lento al pianoforte e in appena tre minuti trova spazio per intermezzi dissonanti, divagazioni chitarristiche, nastri mandati al contrario e voci piangenti.
“Cantata de los puentes amarillo” è forse il manifesto dell’album. Il testo è una sorta di flusso di coscienza sull’emarginazione, ispirato da due figure spesso citate da Artaud, Van Gogh ed Eliogabalo, personaggi che per motivi diversi hanno disturbato gli schemi sociali del proprio tempo e ne sono perciò stati rigettati: “Nel mare naufragò una zattera che non è mai salpata [...] Fra non molto vedrai che sarà già ora di tornare, ma riportando a casa tutto quel fulgore, e per chi? Le anime ripudiano ogni costrizione, le croci hanno smesso di piovere”. Sinfonia di arpeggi chitarristici che si snoda per nove minuti in un autentico puzzle di melodie, è talmente moderna che cantata in inglese la si potrebbe spacciare per l’ultima trovata della critica.
Nei tratti con sezione ritmica torna a riconoscersi il rock contaminato che Spinetta ha sviluppato con Almendra e Pescado Rabioso, ma più arioso e dinamico del solito. Pur utilizzandone le scale, “Las habladurias del mundo” suona distantissima dal blues, è piuttosto un indecifrabile miscuglio fra tango e folk progressivo. E poi la celeberrima “Bajan”, southern rock ibrido con chitarre jangle e raffinati movimenti di basso (vent’anni dopo verrà ripresa dal più brillante fra gli allievi del Flaco, Gustavo Cerati).

Invisible

invisibleChe il ’73 sia l’anno più denso della carriera di Spinetta è fuori discussione: non pago dei due 45 giri, del doppio album dei Pescado Rabioso e di Artaud, riesce anche a pubblicare il primo singolo del nuovo progetto, gli Invisible. I compagni di ventura sono il bassista Carlos Rufino, in arte Machi, e il batterista Héctor Lorenzo, in arte Pomo, che avevano appena partecipato al leggendario terzo album di Pappo. La loro provenienza si fa subito sentire nell’hard blues “Estato de coma”, ma è l’altro lato a rubare la scena, con “Elementales leches”. Scarna e squillante, la chitarra di Spinetta anticipa clamorosamente tanto del pop alternativo con radice funk che sarebbe emerso negli anni Ottanta (tanto nei paesi anglofoni quanto in Argentina), mentre la delicata melodia vocale si snoda fra mantra ermetici e pause inaspettate.
Il testo è puro ermetismo, per tradurlo in italiano servirebbe Calvino; si fa quel che si può: “Curve dell’aria, sono porte della bianca lenta barca delle ore. Insonnia. Figli amici, mordono quelle foglie dai loro piedi, e latte elementare”. In quel periodo Spinetta è particolarmente preso dalla filosofia orientale, il che spiega l’accostamento degli elementi, base della materia, a un simbolo della nutrizione quale il latte. Tuttavia, presi complessivamente i versi rimangono un punto interrogativo.

Il primo album, Invisible, esce a metà del 1974. La prima edizione consiste di otto canzoni, sei su Lp e due su un 45 giri allegato alla confezione, tutte firmate collegialmente.
Registrato con la supervisione di Jorge Álvarez, il più grande produttore argentino dell’epoca, si divide fra brani progressivi e avventurosi, dalla marcata impronta jazzistica, e momenti più muscolari. Lo sgretolamento delle melodie è portato all’estremo e non è un caso che, nonostante le vendite soddisfacenti e la mitizzazione guadagnata dal disco, nessun brano sia rimasto vivo nella memoria popolare. Non che ciò ne infici la qualità, si pensi a strutture ambiziose come “El diluvio y la pasajera”, manifesto sulla cultura precolombiana introdotto da rifrazioni chitarristiche in libertà e culminante in una piccola jam, o “Azafata del tren fantasma”, folk progressivo con armonie prese dalla tradizione latina, riff ossessivi e cambi di ritmo a getto continuo. Al rock più pesante rende invece giustizia “La llave del mandala”, quasi un pezzo dei Led Zeppelin, benché tecnicamente superiore alla loro media.

Sul finire del ’74 tocca a un altro 45 giri, che contiene “Oso del sueño”, eccelso funk rock d’assalto, e “Viejos ratones del tiempo”, che condensa in sei minuti lo stato dell’arte del Flaco, fra armonie aliene e melodie che creano un senso di spaesamento costante, come una sottile dissonanza. Ambo i brani passano purtroppo inosservati. Verranno in seguito inclusi come bonus nella ristampa cd di Invisible, insieme a “Estato de coma” e “Elementales leches”.

La seconda fatica del trio viene pubblicata nel settembre del ’75. Durazno sangrando rappresenta una svolta nella carriera di Spinetta, sia perché segna il passaggio alla Cbs, sia perché ricorre per la prima volta ai sintetizzatori. L’Arp String Ensemble fa la sua comparsa a metà di “Encadenado al ánima”, quindici minuti di melodie e improvvisazioni che si accavallano nel consueto corto circuito di stili. Sono però i brani più brevi a rubare la scena, in particolare “Pleamar de águilas” (passo di tango, ricami acustici in quantità, stacchi in falsetto) e la splendida title track. Il testo, riflessione simbolista sul tempo che passa, narra la storia di una pèsca. Caduto dall’albero, il frutto rotola in riva al fiume e lì ode il nocciolo intonare una canzone sul proprio destino. Con l’arrivo del vento di gennaio, la pèsca scivola nel fiume e inizia a sanguinare, come da profezia.
È tutt’altro che una canzone commerciale. L’atmosfera è intima, il testo è sofferto e la storia narrata non ha lieto fine, le chitarre si muovono in punta dei piedi, il battito ovattato ricorda le pulsazioni cardiache, l’interpretazione gronda malinconia. Ma in qualche modo tocca le corde giuste e diventa con pieno merito uno dei brani più noti del Flaco.

L’atto finale degli Invisible, El jardín de los presentes, viene registrato proprio durante il colpo di stato del 1976, ma a differenza di quanto si crede, la sua atmosfera inquieta non è stata influenzata dall’evento. Spinetta non è infatti contrario all’atto di forza della giunta militare: spera anzi che possa riportare un po’ di stabilità dopo la disastrosa gestione di Isabel Martínez de Perón, sfociata in violente repressioni delle proteste studentesche e nel crollo dell’economia locale. Si renderà conto dell’ingenuità solo diversi mesi più tardi, quando i musicisti rock si troveranno a fronteggiare censure, boicottaggi e veementi campagne di discredito.

La tensione, al momento, è semmai interna alla band. L’interesse di Spinetta per il tango lo spinge infatti a reclutare un quarto membro, Tomás Gubitsch, che non va particolarmente a genio a Machi e Pomo.
Figlio di immigrati austriaci, Gubitsch ha appena diciotto anni, ma è quanto gli basta per essere un dio della chitarra. Possiede una velocità e una pulizia d’esecuzione irreali, pur mantenendosi nei limiti del buon gusto grazie all’educazione tanguera. Un incastro di muscoli e cervello con pochissimi rivali nella storia del rock, non solo argentino. Spinetta è innamorato del suo talento e dalla somma delle parti esce quello che è forse l’apice del rock argentino anni Settanta.

Un album capace di parlare a qualunque palato, come evidente sin dall’iniziale “El anillo del Capitán Beto”: la melodia immediata e il tono limpido da soft rock radiofonico, la raffinatezza jazzata dei ricami chitarristici, gli improvvisi riff di stampo progressivo, i cambi di andamento all’ombra del tango, la produzione ricercata che gioca con le rifrazioni degli strumenti. Per trovare musica altrettanto cristallina e ariosa, senza rinunciare alla complessità, bisogna scomodare gli Yes.
Il protagonista del testo è un uomo comune, conducente di autobus, che si ritrova a errare nello spazio siderale con la sua vettura, costruita nella periferia di Buenos Aires e ora convertita in precario modulo spaziale ("Con la sua nave di fibra fatta ad Haedo, ieri autista e oggi padrone fra i padroni dell’aria"). La storia del Capitano Beto (diminutivo di Alberto), più che alla fantascienza classica, rimanda al surrealismo urbano di Italo Calvino. Folcloristico è il richiamo agli usi e costumi fondanti della routine medio-borghese, e ai sensi di nostalgia e smarrimento che derivano dalla loro assenza. Sono elementi costitutivi di questa memorabilia quotidiana: "Un triste santino", "la foto di Carlitos" (l’attore e icona del tango Carlos Gardel), la cerimonia del mate amargo (bevanda a infusione tipicamente argentina e uruguaiana) e l'assenza della figura materna, che la Via Lattea non sembra poter smaltire ("Dov'è quel posto che tutti chiamano cielo? Se nessuno viene fin qui a farsi due amargos con me, come sulla soglia della vecchia casa"). Come tante volte nella poesia, l’elemento fantascientifico è un pretesto per interrogarsi sul senso dell'esistenza, in questo caso con un intimismo malinconico che si avvicina al tango anche a livello filosofico e psicologico, oltre che musicale.
Lenta e scarna, “Los libros de la buena memoria” tiene un piede in Argentina (per la prima volta in un album di Spinetta compare il bandoneón) e uno oltre il confine, verso le morbide tonalità da sottofondo della bossa nova.
Sebbene parli di alcol e liquore, lo fa con romanticismo ("Il vino rintiepidisce i sogni, ansimando dalla sua bocca di verdastra dolcezza"), descrivendo lo stato di sonnecchiante attesa dell’innamorato: "Rosse e verdi, le luci dell'amore, prestigiano sotto un alone di rossetto". Una sorta di semaforo dei permessi e dei divieti nel gioco della seduzione, che in un linguaggio erotico debitore del tango si risolve poi in una composizione ossimorica: "La mia voce arriverà a lei, la mia bocca pure. Forse le confesserò che eri il vestigio del futuro".
Dilaga Gubitsch nella strumentale “Alarma entra los ángeles”, in pratica un lungo assolo con la sei corde in modalità mitragliatrice, senza mai perdere il filo della melodia. Eccellente anche la seconda chitarra, quella di Spinetta, che disegna taglienti figure ritmiche in sottofondo. È uno dei tour de force virtuosistici più esaltanti di tutto il jazz-rock.
A metà di “Ruido de magia” spunta invece il neonato sintetizzatore della Solina, l’Arp String Ensemble, suonato da Gustavo Moretto degli Alas (cult band argentina che debuttò proprio in quei mesi). È un pop progressivo impeccabile, con la coda dominata dall’atmosfera spaziale delle tastiere.
A seguire è l’eterea ballata “Doscientos años”, con voce imbottita d’eco e un assolo di Gubitsch che dimostra come anche la velocità sappia essere delicata.
La frase "Duecento anni, a che è servito avere attraversato a nuoto il mare?" è probabilmente ispirata dall’impresa dell’argentino Antonio Abertondo, che nel 1961 completò un andata e ritorno nel canale della Manica. Spinetta si interroga sull’inutilità di certe imprese umane, ma al contempo riconosce un’epica personale ricca d’una dimensione simbolica collettiva. Come in una costruzione a più strati, è tuttavia probabile che l’espressione rimandi anche al bicentenario dell'indipendenza degli Stati Uniti, prima repubblica del Nuovo Mondo, celebrato proprio in quel 1976, magari con un cenno critico sul trattamento dei nativi. 
L’unico brano in cui Gubitsch è assente, e si torna quindi al power trio che aveva caratterizzato i precedenti album, è “Perdonado”. Introdotta da malinconici arpeggi acustici, dopo due minuti e mezzo deflagra, e tornerà a farlo in più riprese, in un hard rock allucinato. Si spegne dopo un assolo in acido e sette minuti di mutazioni. 
È lo stesso Spinetta a spiegarne il testo: "Guardando una cagnolina che avevamo in casa, a un tratto immaginai che fosse quasi un essere umano, e che certe entità (soprannaturali) l'avessero costretta a diventare un cane. Da qui sorse l’dea di un bimbo condannato a essere cane dal diavolo di febbraio*, ma al contempo perdonato, assolto dalla angoscia esistenziale di essere umano, o di essere un bambino che chiede l’elemosina sotto la pioggia” (*Un diavolo straccione e clownesco, come quello delle parate dei carnevali popolari).
La chiusura è affidata a “Las golondrinas de Pza. de Mayo”, che concentra in appena tre minuti le idee di ben sette talenti. Oltre agli Invisible e alle tastiere di Moretto, sono presenti due bandoneónisti d’eccezione quali Rodolfo Mederos e Juan José Mosalini. La canzone è impossibile da catalogare: guidata dagli arpeggi di Spinetta e Gubitsch, e da un riff di Machi che ha raggirato lo spazio-tempo (sembra più un Roland 303 che un basso elettrico), si muove con passo andante fra pop, funk, tango, handclapping, fantasie tecnologiche e digressioni strumentali vagamente dissonanti.
Il testo è talmente evocativo che a oggi viene erroneamente ritenuto uno sfogo contro la dittatura e una dedica alle Madri di Plaza de Mayo, in realtà fondate solo l’anno successivo. “Le rondini di Plaza de Mayo, se ne vanno in inverno, tornano in estate, e se le osservate, capirete che volano soltanto in libertà”.

Il disco ha grande successo di pubblico e la tournée che segue raduna 25mila persone solo con le due serate di Buenos Aires, cifra record in un’epoca in cui i concerti rock vengono disertati per timore delle rappresaglie poliziesche. Al termine del giro i contrasti fra Spinetta e la sezione ritmica non sono più sostenibili, l’unica soluzione è lo scioglimento. Gubitsch rimane in Argentina giusto il tempo di prendere parte alle sessioni di “De todas maneras”, storico album di Mederos, per poi andarsene in Francia. Pochi mesi dopo, Astor Piazzolla in persona lo vuole come accompagnatore durante la sua tournée locale.


Primi tentativi da solista

Il 9 dicembre 1976 Patricia Salazar, da tre anni legata a Spinetta, dà alla luce Dante, che all’inizio degli anni Novanta, sorprendentemente precoce, si ritroverà alla guida di una delle formazioni di culto della scena alternativa argentina, Illya Kuryaki and the Valderramas.
All’inizio del ’77 il cantante viene arrestato senza alcun preavviso, per un controllo sui precedenti penali che si risolve fortunatamente in un nulla di fatto.

È ignoto se i due eventi lo abbiano influenzato nella decisione, tuttavia proprio quell’anno esce il disco che sembra avviare la sua carriera in proprio, A 18’ del sol. È il suo lavoro più vicino alla fusion fino a quel momento, per quanto sempre in chiave pop/cantautorale. Machi è di nuovo al basso, questa volta in veste di semplice esecutore, mentre alle tastiere trova spazio il misconosciuto Diego Rapoport.
Non è fra gli album più riusciti a livello melodico, ma contiene almeno una memorabile title track, jazz-funk strumentale in cui la sezione ritmica e il pianoforte elettrico ribollono a gran velocità, facendo da sfondo allo Spinetta più ispirato di sempre, almeno come chitarrista.
Nonostante le scarse vendite ottenute in diretta, oggi almeno l’acustica “Canción para los días de la vida” figura fra i classici dell’autore. Cantata e suonata quasi sottovoce, rappresenta uno dei suoi momenti più intimi.

Messa in piedi una band di accompagnamento che arriverà a contare otto membri, passa quindi il 1978 in tour suonando brani inediti, ormai completamente immerso nel jazz (molti passaggi ricordano le coeve creazioni di Pat Metheny e Weather Report). Purtroppo quel formidabile ensemble non registrerà mai un album e l’unica testimonianza della sua esistenza è data dai bootleg del periodo. Di cui si consiglia vivamente l’ascolto, se non altro per la colossale “Tríptico del eterno verdor”, ventidue minuti di avventure fra chitarre dal suono plastico, ricami fiatistici e sintetizzatori imbizzarriti. Senza dubbio la cosa più ambiziosa a cui Spinetta abbia mai messo mano.
Nel 1979 viene registrato a Los Angeles Only Love Can Sustain, un’antologia di blando pop da sottofondo cantato in inglese senza troppa convinzione. Uscirà all’inizio dell’anno successivo nel disinteresse generale.

Spinetta Jade e reunion degli Almendra

spinetta_jadeIl rientro di Edelmiro Molinari dagli Usa verso la fine del ’79 è lo stimolo necessario per riunire gli Almendra, che Spinetta non ha del resto mai smesso di frequentare. Il quartetto tiene sei concerti, che raccolgono più di 30mila persone nonostante le forze dell’ordine siano in quel periodo più pressanti che mai, come racconta il terribile episodio di La Plaza, quando Spinetta vede arrestare davanti ai propri occhi quasi duecento fan. Anni più tardi sarebbe emerso dagli archivi un documento del Ministero degli Interni datato 4 dicembre 1979, che riguardo agli Almendra recitava testualmente: “I membri ostentano la propria tossicodipendenza, fatto che è anche accennato nei testi di alcune loro canzoni, così come dissolutezza sessuale e la ribellione contro il nostro modo di vita tradizionale”.
Terminato il breve tour con gli Almendra, il Flaco dà vita agli Spinetta Jade, formazione con cui intende continuare l’esplorazione della fusion, riportandosi però in territori più abbordabili presso il grande pubblico. Il nuovo progetto viene presentato in grande stile al termine dell’estate 1980, con un trionfale concerto insieme ai Serú Girán di Charly García.
In ottobre esce l’album di debutto, Alma de diamante.
Oltre al Flaco, la formazione comprende Rapoport (piano elettrico), Beto Satragni (basso), Juan del Barrio (sintetizzatori) e un ritrovato Pomo alla batteria.
In apertura c’è l’ennesimo strumentale al bacio, “Amenabar”, con un refrain robotico degno di Herbie Hancock, il basso in primo piano e le coltri elettroniche di del Barrio a dare profondità. La title track è un autentico manifesto: introdotta da mezzo minuto di tastiere meditative, spesso destinato alla dilatazione in sede di concerto, è una ballata pianistica incantevole, con melodia a presa rapida, interpretazione che alterna frasi pacate e impennate emotive, synth Obx-8 che riempie lo spazio e virtuosismi di Minimoog nel finale. Il testo è una poesia d’amore fra le più lineari di Spinetta, ma si sposa bene al tono carezzevole del brano. “Vieni a me con la tua dolce luce, anima di diamante”.
Benché la struttura musicale sia simile, il tono si fa più severo con “Dale gracias”, influenzata dall’antropologia allucinata di Castaneda: “Questo sogno è un fischio in più nel vento […] è inutile che fai finta di brillare con la tua storia personale, ricorda che un guerriero non ferma mai la sua marcia”.
Il brano più intricato è “Con la sombra de tu aliado”, con Satragni scatenato al basso, il leader che lo rincorre con la sei corde, l’andamento che cambia continuamente da lineare e sincopato, e i vari strumenti che si scambiano parti ritmiche e soliste come in un puzzle.
Nell’atmosferica “La diosa salvaje” è centrale il lungo assolo del piano di Rapaport, ma Spinetta non è da meno, sfoderando complessi incastri di chitarra acustica.
Chiudono gli otto minuti di “Sombras en los álamos”, sorta di blues tecnologico e disperato, con il suono basso dell’Arp Odyssey a guidare la sezione ritmica e buona parte della durata nel segno delle digressioni strumentali.
A dispetto del successo della title track, è uno dei dischi più difficili di Spinetta, ogni canzone è gonfia di trovate timbriche, subdole svolte melodiche e invenzioni ritmiche, tanto che ai primi ascolti si rischia lo smarrimento. È forse la sua prova migliore per quanto riguarda gli anni Ottanta, decade in cui peraltro ne partorirà diverse a livelli eccellenti.
Per gli sparuti ascoltatori italiani dell’artista, sarà peraltro curioso notare come da questo album la sua voce cominci a somigliare a quella di Pino Daniele, almeno nei momenti più pacati.

Subito dopo la pubblicazione, gli Spinetta Jade entrano in pausa per consentire al leader di concentrarsi sul fine corsa degli Almendra, che decidono di congedarsi con un album e un lungo tour. El valle interior esce in dicembre, venendo eclissato da Alma de diamante a causa della distanza ravvicinata. È un peccato, perché pur non potendo competere con la tensione degli Spinetta Jade, è un album al passo coi tempi e ben distante dalla mera operazione nostalgia. Almeno due dei sette pezzi in scaletta sono eccezionali: “Buen día, día de sol”, forse il funk più contagioso della carriera, e “Las cosas para hacer”, scritta da Del Guercio e capace di mescolare coralità da radio Fm, tensione new wave e fraseggi jazz.
La band si consola con il bagno di folla del tour che segue, il più imponente e fortunato nella storia della musica argentina fino a quel momento. Al suo termine, gli Almendra vanno in letargo una volta per tutte e gli Spinetta Jade tornano a ricevere le attenzioni del leader.

Los niños que escriben en el cielo esce alla fine del 1981. Del Barrio e Satragni sono stati rimpiazzati rispettivamente da Leo Sujatovich e Frank Ojstersek, entrambi già alla corte del cantautore d’origine italiana León Gieco, buon amico del Flaco. L’album mantiene i suoni a metà fra pop plastico e jazz futurista del predecessore, ma diminuisce la durata dei brani. Non è la prova più amata di Spinetta, non apportando particolari mutazioni rispetto a quanto espresso nel recente passato, e non avendo generato alcun classico. Anche se un paio di tracce avrebbero meritato d’esserlo: la frenetica “Moviola”, con chitarre dense di chorus e digressioni orientaleggianti, e la riflessiva “No te busques ya en el umbral”.

Ripresa della carriera solista e fine degli Spinetta Jade

Il 1982 è un anno sabbatico per la band, ma non per il Flaco. In aprile la giunta militare argentina, in continua caduta di popolarità, tenta di strappare le isole Falkland alla Gran Bretagna per riguadagnare le simpatie del popolo, mossa che poi le si ritorce contro decretandone la definitiva caduta. Proprio durante i primi attacchi Spinetta presenta un nuovo album solista, intitolato Kamikaze.
Il riscontro è senza precedenti, perché allo scoppio della guerra, le autorità proibiscono la trasmissione radiofonica di qualsiasi canzone in lingua inglese. Il rock nacional, fino a quel momento visto con diffidenza, diventa così un valido alleato per i militari e il loro bisogno di far leva sull’unità nazionale. All’improvviso si sente solo musica cantata in spagnolo, e artisti come Spinetta, Gieco e Charly García vengono promossi per direttissima a eroi nazionali. Il disco di Spinetta poi, mostrando sorprendenti capacità profetiche, contiene ben tre canzoni sulla guerra.
La title track dipinge la figura del kamikaze come depositaria di uno spirito nobile, non per glorificare un atto pur sempre portatore di morte, bensì come simbolico sfregio verso la cultura nordamericana e la sua tendenza a deridere tutto ciò che non rientra nei propri canoni (nello specifico, il coraggio mostrato dai giapponesi in qualità di soldati dell’impero). Ci sono poi le due parti di “Águila de trueno”, dedicate a Túpac Amaru II, l’eroico indigeno peruviano che nel Settecento tentò di riconquistare l’indipendenza dalla Spagna, finendo giustiziato. Il successo arride tuttavia a “Ella tambien” e “Barro tal vez”, impeccabili ballate confidenziali. La seconda sarebbe stata ripresa molti anni più tardi da Mercedes Sosa, la regina del folk sudamericano.
Quello che stupisce dell’album è il tono scarno, in netto contrasto con le produzioni degli Spinetta Jade. Voce, chitarra e qualche effetto è tutto ciò che serve a cinque brani su undici. In altri cinque ci sono le tastiere di Rapoport, tenute però alla larga dai suoi tipici virtuosismi, mentre la batteria compare solo nella seconda parte di “Águila de trueno”. Questa asciuttezza, unita alle trame eteree delle chitarre, agli acquarelli quasi ambientali delle tastiere e al senso di incisione in presa diretta, ha portato in molti a ritenere il disco un antesignano del lo fi esploso a tutto tondo nel decennio successivo.
Parzialmente estranea al resto della scaletta è la conclusiva “Casas marcadas”, che si chiude con un inquietante crescendo di tastiere cosmiche e segnali radiofonici disturbati.

Fallito l’assalto alle Falkland, la dittatura è allo sbando. Il 10 dicembre 1983 Raúl Ricardo Alfonsín si insedia come nuovo presidente e la nazione torna alla democrazia. Pochi giorni prima Spinetta aveva presentato ben due album in contemporanea, Mondo di cromo come solista e Bajo Belgrano con gli Spinetta Jade.

Nel primo si rintraccia un avvicinamento alle sonorità della new wave, fino a quel momento sorvolate dall’artista. Lo dimostra “No te alejes tanto de mi”, funk d’enorme successo che sfida tante band anglofone dell’epoca (Pretenders, Police, B-52’s), anche se a portarla in gloria sono le intricate armonie vocali, sostenute dal redivivo David Lebón. La ballata “Días de silencio”, attacco frontale ai militari oppressori, vede invece un’estemporanea reunion degli Invisible. Dei cinque brani strumentali che popolano l’opera, solo l’iniziale “Paquidermo de luxe” riesce a sfoggiare un tema memorabile (tramite il sintetizzatore Prophet 5 di Sujatovich), mentre i restanti ne annacquano un po’ la coesione.

Anche nel disco degli Spinetta Jade fa capolino la new wave, soprattutto via tastiere e filtri chitarristici, tuttavia la densità della produzione rende la componente jazz ancora predominante. Il nuovo bassista è César Franov, mentre Sujatovich suona tutte le tastiere, ovviando all’abbandono di Rapoport.
Ne escono due canzoni non celebri, ma tenute in grande considerazione da fan e critica: “Maribel se durmió”, ninna nanna dedicata alle madri dei desaparecidos, e “Resumen porteño”, suggestivo midtempo che narra le difficoltà di tre ragazzi argentini. A uno di loro, il pescatore Cacho, il Flaco attribuisce l’ennesima stoccata ai dittatori: “Certo è davvero impressionante, vedere i bianchi pesci [appesi] al nylon, quando in realtà è ancora così presto, normalmente a quest’ora galleggiano solo corpi [umani]”.

Nel complesso il riscontro di Mondo di cromo offusca quello di Bajo Belgrano. Dopo l’ennesimo rimescolamento, la band registra così la sua ultima prova, Madre en años luz. Mono Fontana, già accompagnatore di Nito Mestre, sostituisce Sujatovich, mentre a dare sostegno alle chitarre di Spinetta entra il jazzista Lito Epumer. Pomo non è più della partita, al suo posto una drum machine, che Spinetta accredita come membro effettivo: Señor Tempo DMX.
Molti fan non digerirono la batteria così meccanica, troppo distante dai ricami e dai pattern dinamici di Pomo. Oltre a ciò, fu la prima produzione argentina in digitale, con un suono quindi molto più freddo del solito, e gli arrangiamenti avevano ormai abbracciato la new wave a pieno regime. Troppi “tradimenti” tutti insieme per poter essere accettati.
Eppure le canzoni sono costruite con grande dovizia, traversate da storture e trovate bizzarre, a tratti quasi inquietanti. “Camafeo” apre fra marzialità e suggestioni d’estremo oriente, “Entonces es como dar amor” elargisce romanticismo sintetico e basso slappato, l’elettronica sinfonica e tambureggiante di “Este es el hombre de hielo” ricorda il suono sviluppato proprio nello stesso periodo in Giappone da Susumu Hirasawa con i suoi P-Model. È abbastanza esaltante constatare come due sensibilità contemporanee possano arrivare alle stesse conclusioni pur appartenendo a culture tanto distanti. C’è quindi spazio per le chitarre arpeggiate e la foga interpretativa di “Ludmilla”, e per il gran finale di “Díganle”, sorta di lounge spaziale che alterna coralità e tratti dimessi, mentre Epumer si libra in squisiti virtuosismi.
Per gli Spinetta Jade il sipario cala a metà del 1985, dopo alcuni concerti di sostegno all’opera.

Dal 1985 al 1993

spinetta_01“Como conseguir chicas” avrebbe dovuto essere il titolo dell’album registrato con Charly García. I due più grandi musicisti argentini per la prima volta insieme, sembrava un sogno. E rimase tale, perché un incendio distrusse l’appartamento di García, con tutti i nastri.
I due avevano già registrato diversi demo e si era salvata la sola “Rezo por vos”, avendola consegnata alle radio per presentare il progetto. Inno pop per chitarra byrdsiana e drum machine, è uno dei più bei singoli degli anni Ottanta.
Purtroppo il nefasto evento portò a una serie di dissapori personali, sigillando il tutto. Per molto tempo i due non si sarebbero più rivolti parola. “Rezo por vos” fu comunque un successo enorme, tanto che entrambi la registrarono in proprio negli anni a venire. La versione originale è stata poi inserita in alcune raccolte di García.
Mai domo, il Flaco torna subito al lavoro. Nel 1986 produce Privé, album con suoni sempre più asettici e incapace di generare canzoni di rilievo, nonostante la presenza di astri nascenti come Andrés Calamaro e Fito Páez.

Le vena creativa è in realtà ancora fruttuosa, ma ha bisogno di stimoli, che arrivano quello stesso anno quando decide di mettere in piedi un progetto mastodontico cointestato proprio a Páez, La la la. Venti canzoni, due vinili, un’ora e ventitré minuti di musica. Opera piuttosto celebrata dalla critica, è una sorta di enciclopedia del pop anni Ottanta. Forse eccede con gli zuccheri qua e là, tuttavia i brani di qualità si sprecano: “Folis Verghet” (cavalcata pop con armonie vocali Aor, chitarre funky, percussioni e orchestra), “Instant-táneas” (quasi una versione futuristica dei Manhattan Transfer), “Tengo un mono” (pop indianeggiante pieno di eco e interferenze), “Asilo en tu corazón” (ambiziosa torch song), “Parte del aire” (influenzata dalle colonne sonore del cinema giapponese), “Serpiente de gas” (il momento più teso, fra tastiere notturne e storture ritmiche), “Carta para mí desde el 2086” (un antipasto delle atmosfere noir che Páez avrebbe creato anni dopo per una canzone come “Sasha, Sissí y el círculo de baba”), “Jabalíes-conejines” (straziante ballata acustica traversata da coltri d’elettronica), “Hay otra canción” (il raffinato pop da camera che chiude le danze).

Un eclettismo che non si ripete quando il Flaco torna in proprio con Téster de violencia nel 1988, album di rock urbano comunque piuttosto solido, in cui si distinguono la gagliarda energia di “Lejísimo” e la toccante “La bengala perdida”, dedica a un ragazzo ucciso da un razzo sugli spalti di uno stadio. 

Don Lucero (1989) prosegue quel sentiero, ma nonostante la possenza di “Fina ropa blanca”, il momento di fiacca appare evidente.

Gli anni Ottanta hanno visto il musicista partorire alcune delle sue prove migliori, ma anche mostrare segni di discontinuità, soprattutto verso la fine. I suoni del nuovo decennio sembrano a ogni modo curarne le ferite e nel 1991 Pelusón of Milk lo riporta alle altezze che gli competono. Fa quasi tutto da solo, fra chitarre, basso, campionatori e programmazioni, generando un pop rock all’avanguardia, tutto giocato sui contrasti. La chitarra ritmica e le parti arpeggiate sono addolcite dal chorus, mentre riff e assoli vengono resi taglienti dalle distorsioni, compresse e metalliche. Il tono angelico delle tastiere new age fornisce profondità, mentre i ritmi elettronici dal suono scheletrico spingono nella direzione opposta.
“Seguir viviendo sin tu amor” è una delle sue canzoni d’amore più sentite e conquista il pubblico trasversalmente, mentre “Ganges” e “Hombre de lata” spiccano grazie ai loro tratti aggressivi. Ci sono poi brani a metà strada, in cui le anime del disco convivono al meglio, come “La montaña” e “Cruzarás”, e altri ancora, più difficili da definire, quali “Lago de forma mía” (un po’ dream pop, un po’ lo fi) o “Domo tu” (bell’anticipo di trip hop).

Nel 1993 cura Fuego gris, colonna sonora per il film di Pablo César, in cui ricalca senza ardore i sentieri del disco precedente.

Spinetta y los Socios del Desierto

Nei fatti un album da solista, registrato nel 1995 e pubblicato un paio d’anni più tardi. I brani sono tutti scritti e prodotti da Spinetta, ma la copertina accredita il bassista Marcelo Torres e il batterista Daniel Wirtz sotto la sigla di Socios del Desierto. La mossa serve soprattutto a comunicare l’ennesima svolta. Si torna dopo tanti anni al power trio, le chitarre regnano e non c’è traccia di sofisticazioni.
L’operazione è forse esagerata (due cd, trentatré canzoni, più di due ore di musica), ma la qualità media è sorprendente e i riempitivi, fisiologici date le dimensioni, sono ridotti al minimo. Si rischia di fare indigestione di etichette e scadere nel ridicolo, perché con ogni probabilità Spinetta ha concepito queste canzoni attaccando lo strumento e suonando, tuttavia se si fosse trattato di una band anglofona ora leggeremmo le lodi per la capacità di dare vita a una formula che si mantiene coesa e, senza bisogno di modificare gli arrangiamenti se non per qualche ritocco di effettistica, riesce a passare dall’hard rock al funk alternativo, dal post-hardcore al jangle pop, dallo slowcore alle sfumature jazzy.
Non è molto utile, in una tale mole di materiale, citare un brano piuttosto che un altro. Difficile scegliere fra le estatiche armonie elettroacustiche di “Diana”, la catalessi di “La orilla infinita”, la ballata bucolica “Cuentas de un collar”, l’incedere spensierato di “Holanda”, la malinconia di “El sol y la afeitadora eléctrica”, i suoni incorporei di “2 de enero”, le tragiche impennate di “Bosnia”.
Ancora una volta Spinetta crea una summa della contemporaneità e la piega al proprio modus operandi, alle sue melodie ricercate, alla sua voce diafana.

Registrato con la medesima formazione, ma rimpolpato da diversi ospiti, Estrelicia Mtv Unplugged (1997) contiene ben sei inediti su quattordici, ma il suono un po’ laccato di quella serie non è mai andato particolarmente a genio a chi scrive e questo episodio non fa eccezione. Ad ogni modo “Tu nombre sobre mi nombre” diventa un successo, l’ultimo della carriera. I seguenti album venderanno più che altro fra gli aficionados, per quanto il suo nome rimarrà altisonante, i concerti costantemente esauriti e i vecchi classici incrollabili.

Dopo il live elettrico San Cristoforo (con quattro trascurabili inediti), nel 1999 giunge la seconda e ultima prova in studio con i Socios del Desierto, Los ojos, dove l’elettronica torna a farsi sentire con prepotenza. Fra gli ospiti spicca il mago dei campionamenti Tweety González, già con Soda Stereo e Fito Páez. Le canzoni sono così tutte coltri di tastiere, guizzi sintetici e pulsazioni di suoni manipolati: alla soglia dei cinquant’anni il Flaco mostra ancora una mente giovane e la voglia di esplorare ogni novità.
“Ave seca” e “Guíame” incantano con il loro miscuglio di arpeggi eterei, ritmi minimal techno e digressioni orchestrali, il tenue funk “La flor” vede il jazzista Javier Malosetti prodigarsi in un grande solo di chitarra acustica, mentre “Donde no se lee” è un pop ambient con oscillazioni di synth e severi ingressi orchestrali. Forse una scaletta più scarna avrebbe giovato, ma ancora una volta tanto di cappello.

Sipario

spinetta_3L’ultima parte della carriera di Spinetta è occupata da quattro album in qualche modo simili fra loro. Dopo aver affrontato quasi sempre vittorioso gli sconvolgimenti che sono accorsi fra gli anni Sessanta e i Novanta, accumulando una carriera mostruosa, Spinetta sembra giungere su un pianeta estraneo allo scorrere del tempo.
Senza più l’ossessione di non rimanere indietro, genera canzoni come in un moto perpetuo. Un art rock melodico e poetico con sfumature progressive e arrangiamenti ruotanti intorno a musica alternativa e jazz, in cui il massimo del cambiamento può riguardare la dose degli strumenti elettronici. Per nostra fortuna, è un moto perpetuo in cui è dolce perdersi. Non sempre la melodia emerge, ma quando lo fa non conosce mezzi termini, è accecante. Il vecchio leone costringe così all’ascolto di tutti i dischi del periodo, sarebbe davvero dura non trarne almeno un brano vitale a testa.
Silver Sorgo (2001) tende a essere un po’ sonnacchioso, ma basterebbe il singolo, “El enemigo”, a giustificarne l’esistenza. Più che una ballata è un infinito abbraccio melodico in cui si perdono arpeggi di chitarra, organo elettrico, Giappone, Argentina e la schiuma delle onde oceaniche, come mostrato dal videoclip, saggiamente girato su una spiaggia desolata. In scaletta anche uno dei rari incontri dell'artista con il dub, “El mar es de llanto”.

Un po’ più tagliente e dinamico, Para los árboles (2003) ha dalla sua il downtempo di “Sin abandono” e il ritornello arioso di “Agua de la miseria”, fra chitarre scattanti e frammenti di musica indiana. Pan (2005) potrebbe essere frutto di una reunion degli Spinetta Jade data la forte componente fusion. Da segnalare “Atado a tu frontera”, l’unico pezzo dal passo vivace, con un ritornello tanto anomalo che a guidare la melodia è piuttosto il riff, distorto e ripetuto a intervalli regolari.

L’ultimo atto è quello che colpisce maggiormente. Benché ignaro della malattia imminente, il Flaco concentra tutte le energie residue in Un mañana, disco talmente solido da sembrare un sipario consapevole.
L’elettronica rilassata di “Vacío sideral” è arricchita da acuti fraseggi chitarristici alla Steve Howe, “No quiere decir” è romanticismo da cocktail con ricami pianistici, la struggente “Canción de amor para Olga” e la cupa “Hombre de luz” si muovono in paesaggi orchestrali soffocanti, mentre “Tu vuelo al fin” è ciò che nella mente del Flaco dovrebbe essere una power ballad, fra riff sghembi e sbalzi d’umore.
I due singoli sono “Mi elemento”, rock rilassato emblema di pulizia sonora, e la straordinaria “Preso ventanilla”. Sette minuti di film in musica, fra riflessioni sulla morte, paesaggi urbani, scenari magici e ogni tipo di prelibatezza strumentale (l’incedere ritmico inesorabile, il pianoforte malinconico, le tastiere soffuse che sembrano venire da un brano deep house, il breve ma fulminante ponte orchestrale, la chitarra che nel finale si contorce disperata). Ascoltando un brano del genere, non si può che pensare a quanto ancora un simile artista avesse da dare. “E come immaginare che tanta solitudine, potesse risvegliare in lui questa pietà? Non solo è rivissuto, ma ha anche aiutato tutti. Si è completato [trasformato] in un fiore, per sorgere nelle fiamme perdute del suo amore” (si specifica che la rima baciata, alquanto banale, è causata dalla traduzione e non sussiste nella versione originale).

Se la chiusura in studio è perfetta, quella dal vivo non è da meno. Il 4 dicembre 2009, per festeggiare i quarant’anni di carriera, Spinetta organizza un concerto che la attraversa per intero. Chiama così a raccolta l’intera storia del rock argentino: tutti i componenti delle band di cui ha fatto parte e una sfilata di ospiti, fra i quali Gustavo Cerati, Ricardo Mollo, Juanse, Fito Páez e un finalmente ritrovato Charly García. Ne escono oltre cinque ore di musica davanti a 40mila spettatori, uno dei più importanti eventi culturali della recente storia argentina. Esattamente un anno dopo esce Spinetta y las Bandas Eternas, triplo cd che raccoglie quarantadue dei cinquantuno pezzi suonati. Un paio d’anni dopo viene ristampato portando la cifra a quarantotto. Mancano comunque ancora dei brani, anche a costo di dover aggiungere un disco, varrebbe la pena di immortalare per intero un simile raduno. Pure la versione Dvd, consultabile per intero su YouTube, è ampiamente incompleta, per quanto già imperdibile.
Da segnalare due suggestive canzoni poste verso la fine dello show, dedicate alle vittime dell’incidente del collegio Ecos e non rintracciabili negli album in studio: “Retoño” e “8 de octubre”, la seconda scritta qualche anno prima insieme a León Gieco.

Il 2010 si risolve in alcuni concerti di minore entità, durante i quali suona “Té para tres” dei Soda Stereo, dedicandola a Cerati, entrato in coma in seguito a un ictus proprio nel maggio di quell’anno.

Dopo essere sparito dalla circolazione per un po’, il 23 dicembre 2011 il Flaco pubblica una lettera in cui ammette di avere un cancro ai polmoni, ma che è fiducioso nella riuscita delle cure. Purtroppo la situazione è già irrecuperabile e il successivo 8 febbraio si chiudono i giochi.
Seguono giorni di lutto fra giornali, programmi televisivi, concerti tributo e omaggi di vario tipo. Non è però che l’inizio, perché, poco ma sicuro, il mondo della cultura argentina lotterà fino allo stremo per tenere viva la memoria del Flaco. In un’epoca in cui è sempre più difficile far sì che la vendibilità non annienti la proposta artistica, lo sguardo deve rimanere puntato su chi ha attraversato cinque decadi mantenendo il perfetto equilibrio fra i due elementi, senza mai conoscere la volgarità.

Un sentito ringraziamento a José Santelli, coautore della descrizione di "El jardín de los presentes".

Luis Alberto Spinetta

Discografia

ALMENDRA
Almendra (Rca, 1969)
Almendra (Rca, 1970)
En Obras I (live, Almendra Ed., 1980)
En Obras II (live, Almendra Ed., 1980)
El valle interior (Almendra Ed., 1980)
PESCADO RABIOSO

Desatormentándonos (Microfon, 1972)

Pescado 2 (Microfon, 1973)
Artaud (Microfon, 1973)
INVISIBLE
Invisible (Microfon, 1974)
Durazno sangrando (Cbs, 1975)

El jardín de los presentes (Cbs, 1976)

SPINETTA JADE
Alma de diamante (Ratón Finta, 1980)

Los niños que escriben en el cielo(Ratón Finta, 1981)

Bajo Belgrano (Interdisc, 1983)

Madre en años luz (Interdisc, 1984)

SOLISTA
Almendra [Spinettalandia y sus amigos] (Rca, 1971)
A 18' del sol (Cbs, 1977)
Only Love Can Sustain (Cbs, 1980)
Kamikaze (Ratón Finta, 1982)
Mondo di cromo (Ratón Finta, 1983)
Privé (Interdisc, 1986)
La la la (con Fito Páez, Emi, 1986)
Téster de violencia (Del Cielito Rec., 1988)
Don Lucero (Del Cielito Rec., 1989)
Exactas (live, Del Cielito Rec., 1990)

Pelusón of Milk (Emi, 1991)

Fuego gris (soundtrack, Polydor, 1993)

Silver Sorgo (Universal, 2001)
Obras en vivo (live, Universal, 2002)

Para los árboles (Universal, 2003)

Camalotus (Ep, Universal, 2004)

Pan (Universal, 2005)

Un mañana (Universal, 2008)

Spinetta y las Bandas Eternas (live, Mango's Music, 2010)

SPINETTA y los SOCIOS DEL DESIERTO
Spinetta y los Socios del Desierto (Columbia, 1997)
Estrelicia Mtv Unplugged (live, Mtv, 1997)
San Cristóforo (live, Columbia, 1998)
Los ojos (Universal, 1999)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Pescado Rabioso: Iniciado del alba
(1973, lyrics video)
Invisible: Durazno sangrando
(1975, official audio)
Spinetta: Seguir viviendo sin tu amor
(1991, videoclip)
Spinetta: Preso ventanilla
(2008, videoclip)
Spinetta y los Socios del Desierto: Bosnia
(2009, live, Buenos Aires)

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