Black Crowes

Black Crowes

Nel giardino dei fratelli corvi

Dalla sfrontatezza hard dell’esordio milionario alla riscoperta delle radici negli anni della maturità, e dai gioielli southern-blues dei primi nineties a un indimenticabile tour con la chitarra dei Led Zeppelin: tutti i miracoli della creatura dei fratelli Robinson, l’ultima vera rock band a tutto tondo

di Stefano Ferreri

Pochi lo sanno ma Christopher e Richard Robinson sono figli d’arte. Il padre Stan fu infatti un cantante di scarso successo, che piazzò in carriera una sola modesta hit, “Boom-a-Dip-Dip”, risalente al lontano 1959. Prevedibilmente urtato da un mondo che non lo aveva tenuto in gran considerazione, l’uomo si è tuttavia guardato bene dall’incoraggiare le aspirazioni musicali dei figli e ha anzi remato contro sin dalla loro più tenera età. Invano, perché mutuando l’intestazione da una favola illustrata per bambini cui sono affezionatissimi (“Johnny Crow's Garden” di Leonard Leslie Brooks), nel 1984 i fratelli varano nella natia Marietta, sobborgo di Atlanta, la loro prima creatura, la band liceale dei Mr. Crowe’s Garden. E’ la vivacissima Georgia dei Rem scapigliati, dei Pylon e dei B-52’s, ma Athens non sembra poi chissà quanto vicina: dopo i primi acerbi passi nel segno di un punk senza troppi fronzoli, il sound dei due Robinson si evolve in un appassionato revival del blues-rock inglese anni Settanta, lasciando quindi da parte la mitologia byrdsiana dei sixties che in quel momento (grazie al Paisley Underground) parrebbe andare per la maggiore, e tradendo il Tom Waits e i Dream Syndacate che avevano accompagnato l’esperienza collegiale di Chris in qualità di quinte fotografiche nella sua camera. I cuori ancora minorenni dei giovani Crowes battono per i Rolling Stones e per i Faces: se come ogni adolescente che si rispetti Rich non fa mistero del proprio culto per Keith Richards, è l’emulazione stilistica del fratello nei confronti di Rod Stewart che rasenta il patologico. La personalità sarà ancora poca cosa ma il talento non manca, e in un lustro di apprendistato i Nostri hanno modo di affinarlo assieme alla tecnica. Notata in occasione di un live newyorkese da George Drakoulias, giovane talent scout e braccio destro di Rick Rubin, la band viene messa sotto contratto proprio dalla neonata etichetta di quest’ultimo, l’American Recordings. In pochi mesi la formazione assume il nome definitivo di Black Crowes e viene rivoluzionata: fuori un paio di compagni di gioventù che nessuno oggi ricorda, dentro Johnny Colt al basso e Jeff Cease come primo chitarrista, mentre Steve Gorman è confermato dietro i rullanti.

Bad Boys dal cuore tenero

01270x220_viiiI tempi per l’esordio discografico sono maturi ed è proprio lo scopritore Drakoulias a curarne la parte produttiva, assieme a un paio di altri tecnici – Brendan “Bud” O’Brien e Kevin “The Caveman” Shirley – che in ambito rock si affermeranno tra i più apprezzati del decennio. Registrato tra Los Angeles e Atlanta nel corso dell’estate 1989, intitolato Shake Your Money Maker come la celebre canzone di Elmore James, l’album vede la luce nel febbraio 1990 e non fatica a imporsi come una delle grandi rivelazioni dell’anno. A introdurlo, una linea di chitarra memorabile che non impiega molto a sdoppiarsi, dando l’abbrivio a un dialogo elettrico baldanzoso che sa di tenzone cavalleresca. E’ “Twice As Hard”, solo il primo titolo in una micidiale collezione di hit populiste che sembrano esser state scritte apposta per fare sfracelli nelle arene. Non è un caso che nelle prime interviste promozionali il ventenne Rich abbia dichiarato il proprio amore incondizionato per gli Aerosmith: l’impronta è infatti schiettamente hard-rock, a livelli di spudoratezza che in seguito non saranno nemmeno avvicinati, ma, nonostante il taglio reazionario in evidente contrasto con l’onda riformatrice in arrivo da Seattle, il disco suona fresco in maniera sorprendente. La Les Paul di Cease e la Esquire del più giovane dei Robinson sono evidenziatori, vecchi neon squillanti in bettole altrimenti sporche e ombrose. La vera benzina è però portata in dote dal frontman grazie alla sua interpretazione à-la Steven Tyler, una prova da galletto sufficientemente rutilante che sa come catalizzare l’attenzione degli ascoltatori: sciorina in maniera diligente le proprie ruspanti lezioncine, ma lo fa con tale forza persuasiva che si finisce per concedergli orecchio senza porre condizioni. Non occorre altro per realizzare che questo sarà solo il prologo di una marcia trionfale, scevra da troppo ardite elucubrazioni intellettuali ma molto più che godibile nel suo inesorabile filotto di tormentoni. L’album alla fine non è altro che questo, uno scintillante rosario i cui grani si avvicendano senza cedimento, un potenziale sing-along dietro l’altro, a mille miglia dall’angoscia di un “Facelift” o dall’alienante disagio di un “Bleach”, tanto per concentrarsi su opere della stessa leva o giù di lì.
Lo schema dell’opener è poi riproposto a oltranza, senza sostanziali variazioni man mano che si procede, con maggior ribalta concessa ora alle elettriche ora al pianoforte dell’unico ospite extralusso, l’ex-Allman Brothers Band (e collaboratore di lungo corso della premiata ditta Jagger & Richards) Chuck Leavell, ma sempre sotto l’aura ruvida e carismatica di un Chris già assoluto protagonista. Esplosivi anche in numeri necessariamente epidermici, con la strafottenza dei migliori opportunisti e tutti i debiti del caso nei confronti degli Stones, i giovani corvi sono una macchina già mirabilmente rodata, a dispetto dell’improponibile look da perfetti scappati di casa, in linea con gli eccessi kitsch del periodo: dalle chitarre che grondano spleen alla buona al drumming secco e mai inutilmente pirotecnico, alla voce affilata di un cantante che sa fondere energia e sentimento con il necessario carattere, e che pesca i tic in modo ossequioso dal proprio personale Olimpo, evitando di svilirsi nei panni dell’imitatore ladruncolo senz’anima. Non potrà sorprendere, allora, che la quintessenza di questa natura spavalda e derivativa sia incarnata da una stupefacente cover di “Hard To Handle” (di Otis Redding), il brano che più di ogni altro proietta la compagine di Atlanta verso il successo planetario: mimetismo ed entusiasmo sono espressi a livelli tali che gli scaltri esordienti americani potrebbero tranquillamente far passare la canzone per una cosa loro. Rispetto a altre band schiave del passato, non si tratta però di banale necrofilia; si ravvisa piuttosto un amore sconfinato per la purezza del rock’n’roll più autentico, senza bandiere o steccati di sorta, una motivazione sufficiente a rendere accettabile la loro prospettiva artistica pur di seconda o terza mano, e le loro abili mistificazioni blues.

02270x220_xxxixL’impressione è insomma quella di un gruppo ancora povero in canna ma affamato come pochi. E se lo dicono abbastanza chiaramente gli episodi più scoppiettanti (ancorché minori come la lurida “Struttin’ Blues”, che sembra fare il verso agli Ac/Dc), l’assunto appare ancor più vero con le ballate già sensazionali che Shake Your Money Maker offre a intervalli regolari, scritte e allestite senza alcuna timidezza e senza lasciare nulla al caso, per piacere un po’ a tutti: dal romanticismo ingenuo di “Sister Luck” ai languori e il velluto di “Seeing Things” (con Chris sugli scudi, accompagnato per la prima volta dalla scorta corale gospel che farà mirabilie nel lavoro successivo) passando per quella “She Talks To Angels” partorita da un Rich ancora quindicenne e destinata a rivelarsi un ulteriore impareggiabile traino per l’album, alternativa preziosa alla verace etichetta di Bad Boys che quelli dell’American non faticano a cucire addosso ai Robinson. Irruenti, graffianti e a modo loro sensuali, i Black Crowes dell’esordio piazzano insomma i primi importanti mattoncini di quello che, a grandi linee, diventerà il loro stile. Evitano le sovrastrutture insincere e sono come appaiono: diretti, pimpanti, un tantino rozzi ma anche vitali e genuini quanto basta. Come effetto, a difese opportunamente abbassate, ci si ritrova spesso e volentieri distratti nelle proprie considerazioni critiche da questo flusso impetuoso che è come un’infezione impossibile da arginare, e si propaga ben oltre il battagliero e tamburellante inno scelto per congedarsi (“Stare It Cold”): oltremodo illuminante come possibile manifesto anche l’ideale prosecuzione rappresentata dall’outtake “Don’t Wake Me”, bonus sacrosanta – qualche anno più tardi – nella versione rimasterizzata del disco.

Solo nel primo anno l’album vende oltre tre milioni di copie, con piazzamenti più che lusinghieri nelle classifiche “di specialità” di Billboard per tutti e cinque i singoli estratti; è la consacrazione del gruppo di Atlanta come più credibile tra le nuove proposte orientate alla rivisitazione di un rock fortemente tradizionalista. Parte del merito va senza dubbio attribuita all’intensa promozione operata live dal quintetto nonché alla qualità della stessa, dapprima a rimorchio dei “padrini” Aerosmith, quindi nel carrozzone degli Zz Top e poi, finalmente, come esclusivi headliner di se stessi: proverbiale, a proposito del tour con i barbuti del Texas, la filippica contro la birra Miller (sponsor della rassegna) regalata al pubblico della sua Atlanta nel marzo 1991 da un Chris particolarmente caustico, e che vale ai Crowes il licenziamento da parte del promoter ma anche un notevole ritorno in termini di pubblicità (e di simpatie popolari).
Diversi altri episodi capitati in quegli stessi mesi – il rifiuto di farsi aprire i concerti dai Maggie’s Dream (in quanto testimonial, per ironia, proprio della Miller), l’arresto del maggiore dei Robinson per il litigio con una donna (che in un negozio li aveva contestati) e il suo svenimento per malnutrizione su un palco inglese – contribuiscono ad accrescere la popolarità dei georgiani e a emanare sul loro conto un’aura di “maledettismo morbido” che vende bene e non impegna. Il loro capolavoro, in tal senso, è la partecipazione da protagonisti al Great Atlanta Pot Festival nella primavera del 1992, evento per la legalizzazione delle droghe leggere che aliena loro le simpatie dell’opinione pubblica più conservatrice ma vale come formidabile trampolino di lancio per il sophomore The Southern Harmony And Musical Companion, pubblicato nel giugno di quello stesso anno.

03270x220_xliiIn formazione si registrano giusto un paio di avvicendamenti, ma la loro portata si rivelerà dirompente per l’evoluzione del suono della band: Jeff Cease è rimpiazzato dal giovane ma esperto axeman losangelino (d’impronta più marcatamente blues) Marc Ford, già membro dei Burning Tree, mentre l’organista canadese Eddie “Harsch” Hawriysh (unico a non comparire nella foto di copertina del disco) si impone quasi nell’ombra come sesto membro effettivo della compagine, con un peso specifico ben maggiore rispetto a quello esercitato in precedenza da un ospite (pure di grido) come Chuck Leavell. E’ proprio una seconda linea come Harsch, divenuta cruciale anche nella sua invisibilità, a incarnare alla perfezione il nuovo corso musicale dei Black Crowes, dimentichi della spavalderia hard-rock dell’esordio e ben più interessati, in questa occasione, alla riscoperta quasi devozionale delle sonorità più tipiche della loro terra: un rock sudista ferroso, impregnato di umori ora alcolici, ora chiesastici, e con fortissimi debiti nei confronti della musica dei neri, dal blues al boogie passando per il soul. In fondo è già emblematico il titolo scelto, omaggio all’omonima antologia innodica compilata nel 1835 da William Walker e più in generale ai canti liturgici delle radici, alla tradizione secolare delle shape notes. Sono ancora George Drakoulias e Brendan O’Brien a occuparsi di una produzione che, rispetto alla schiettezza dell’esordio, si mostra più accurata e attenta al dettaglio.

Alla stessa maniera del sestetto, agghindato nelle foto di rito come per una sinistra serata voodoo-style, il sound della combriccola si è rifatto il trucco: più sporco, vizioso e con un groove a marcia alta, quanto mai trascinante e infettivo. Chris ha così modo di impazzare in un teatro nuovo e ancor più congeniale, accompagnato in contraltare dalle voci potenti delle sue corpulente coriste afroamericane, Joy e Barbara Mitchell. Sin dall’incipit di “Sting Me” la passione trasuda come una febbre e quel tono da spiritual serratissimo, adottato come inedita declinazione del loro rock bastardo, non fatica ad affermarsi alla stregua di una formula magica, anche perché lamiere elettriche e gorgheggi di hammond rendono il tutto particolarmente esaltante. Tirare il fiato non è peraltro un’eventualità contemplata dal copione, visto che una gemma ancor più abbagliante, “Remedy”, già incalza, e se il maggiore dei Robinson si mostra un briciolo meno esasperato nelle sue esternazioni, non si preclude comunque il piacere di gigioneggiare sul refrain nei confortevoli spazi aperti per lui dalle sue partner vocali. In questi solchi in cui riecheggiano a più riprese i padrini Allman Brothers, i Lynyrd Skynyrd e la Band, il southern-rock si regala l’opportunità di una seconda entusiasmante vita e il merito è di un manipolo di ragazzini malvestiti che dimostrano di aver fatto molto bene i compiti a casa. Vibrante, sanguigna, irresistibile, “Remedy” è forse in assoluto la perla grazie a cui, più di qualsiasi altra, i Black Crowes saranno ricordati, nonché la dimostrazione tangibile che le promesse di Shake Your Money Maker saranno mantenute senza esitazioni, e con gli interessi.

04270x220_iiAnche quando si entra nel vivo, il disco si mantiene bello rovente, tumultuoso, percorso in lungo e in largo da un’energia pazzesca che va ben al di là del gorgogliare delle Fender della premiata ditta Ford & Rich, pure così sfavillante. In “Hotel Illness” tornano a farsi sentire gli Stones più blues e sferraglianti: rispetto a loro, i Crowes possono vantare radici autentiche, ed è forse per questo che il brano non si esaurisce in un banale esercizio di stile e si apprezza piuttosto come una credibile cavalcata all’insegna del puro sentimento, con l’armonica di Chris a marchiarlo a fuoco. Il mood resta effervescente, piacevolmente aspre le tonalità, come un liquoroso e invecchiato spaccabudella del sud.
“Black Moon Creeping” si offre invece come indiretto (e personalissimo) omaggio ai Led Zeppelin, in anticipo di qualche anno su quello che in By Your Side diverrà un preciso indirizzo espressivo. Una celebrazione, questa dei maestri Page & Plant, ribadita a stretto giro di posta dall’ancor più corposa “No Speak No Slave”, con l’impronta delle elettriche occasionalmente atmosferica per evitare con cura lo scimmiottamento affettuoso che i Nostri avevano riservato ai Faces e agli Aerosmith nel precedente lavoro. Ne esce un numero potente e infuocato come il relativo assolo di Ford, reso ancor più poderoso dalle accelerazioni imposte da Colt e Gorman, giusto in tempo per recuperare con “My Morning Song” il vigore a mezza costa tra blues e gospel dell’avvio: la macchina romba inesorabile, come uno schiacciasassi con il motore di un’auto da corsa.
E le ballad, ci si chiederà? Anche a questo giro non mancano, e fanno anzi la loro porca figura fino in fondo. Dolceamara e notturna, “Thorn In My Pride” presenta la band nella sua inclinazione più intima e sensuale. Chris va letteralmente a nozze nel ruolo del languido rubacuori ma, tra decorazioni di chitarra sostanziali e mai pacchiane, e un prodigioso senso del ritmo, degno dei più grandi numi della musica nera, è un po’ tutta la compagnia lì attorno che brilla al suo servizio; la Stratocaster di Ford, per dire, ricama e infiamma senza mai andare sopra le righe, ma non è da meno il pianoforte piacevolmente alticcio di Harsch. Così l’impressione è quella di una festa trascinante, di un gioioso esorcismo imbastito dal giovane santone dai capelli corvini e dalla sua ruvida voce ammaliante. La compagine statunitense non si è ancora adagiata sulla sottile china psichedelica che, pur marginalmente, si offrirà come possibile bastone della sua vecchiaia artistica (più che altro, a dirla proprio tutta, nell’esperienza del solo frontman alla guida della Chris Robinson Brotherhood, ma si parla di due decenni dopo). Qui prevale un’aderenza quasi filologica ai più disparati stilemi di tanta musica yankee delle radici. In prevalenza piuttosto lunghe, le canzoni di The Southern Harmony And Musical Companion sembrano però fuggire via troppo presto, tanto sono efficaci i loro dolci sortilegi. Intrattengono senza tediare e senza perdersi in onanistiche autocelebrazioni. Incantano semmai, come nel caso di “Bad Luck Blue Eyes Goodbye”, cuore in mano e andatura ubriacante. Come nell’album precedente i ritornelli tendono tutti al memorabile, ma stavolta è il cantato a rubare davvero la scena a tutto il resto, senza più bisogno dell’accompagnamento belloccio e guascone dei riff.

05270x220_xxxviIl leader è impeccabile come anima tormentata, per quanto lontanissima da quelle concomitanti dell’universo grunge: si cala a fondo nell’intima natura della sua terra e ne diviene un portavoce appassionato, credibile e spesso (come nell’ultimo brano citato) davvero struggente. Punto apicale per questa estetica di estremo fervore è la splendida “Sometimes Salvation”, capolavoro teatrale di un Chris che si mette a nudo nella sua posa più romantica e consumata. Impregnato di spleen come una spugna, confezionato da chitarre decadenti e in tonalità seppia, con suggestioni spiritual che non tanfano più di volgare imitazione ma diventano una corazza invincibile, il pezzo è servito in chiave promozionale da un videoclip di grande impatto sulla dipendenza dall’eroina, protagonista una Sofia Coppola poco più che ventenne. Il salto di qualità è evidente a tutti i livelli. Eventuali critiche alla band vengono ormai meno, del tutto pretestuose e inservibili: i ragazzi non sono più solo pischelli in fissa con un hard-rock scintillante (e banalotto), e vien da pensare che quello di due anni prima sia stato più che altro un cavallo di troia geniale. La loro musica è cresciuta enormemente in un amen, non solo sul piano formale: ha un’anima che risplende. Rutilante e ancorato a dovere alla più terrena delle dimensioni, per come evita secondo programma ogni fumosa ipotesi di astrazione o figurativismo psych, l’album è a tutti gli effetti un trionfo: sovraccarico ma per nulla stucchevole, torbido, genuino e dirompente come un grande fiume nordamericano. L’alleggerimento si concretizza proprio in coda con la cover di “Time Will Tell” di Bob Marley, tutt’altro che strampalata perché in evidente sintonia con il florilegio di passioni appena dispensato; quasi una preghiera laica e gioiosa per l’ora del vespro, il ringraziamento con un’intonazione di sereno fatalismo che non stona affatto.

La mejor nota

Lanciato da un quartetto di singoli tutti campioni di specialità su Billboard (record mai eguagliato in seguito da altri artisti), The Southern Harmony And Musical Companion esordisce direttamente in vetta alla classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti e si candida a diventare il maggior successo commerciale (e di critica) del gruppo. Il suo successore, registrato con Jim Mitchell nel corso del 1993 (ospiti i Jayhawks Gary Louris, Marc Perlman e Karen Grotberg) e originariamente intitolato “Tall”, viene accantonato prima delle finiture per cavalcare con un nuovo tour il momento magico della band di Atlanta, e alimentare la sua crescente fama live. Tra concerti interrotti per rissa (con agenti in borghese del nucleo anti-narcotici) e membri dello staff a processo per aggressione e resistenza all’arresto, l’anno dei Black Crowes è quantomeno turbolento e la loro (alquanto fantasiosa, in realtà) reputazione di bad boys si assicura un paio di altre tacche, per la gioia dei discografici dell’American Recordings. Frattanto i primi emuli hanno già iniziato a comparire, a caccia di una pur misera fetta dell’appetibile torta sfornata dai Robinson: sono i losangelini Freewheelers, marchio Geffen sui dorsi del Cd, guidati dal clone carismatico Luther Russell. Altri seguiranno negli anni a venire, in testa i Marah dei fratelli Dave e Serge Bielanko, ma a nessuno dirà mai particolarmente bene. Nella primavera del 1994, comunque, il sestetto georgiano rimette mano a numerose delle canzoni di “Tall”, facendosi aiutare per l’occasione dal produttore di fiducia degli amici Jellyfish, Jack Joseph Puig.

06270x220_iiiNelle intenzioni del collettivo, ancora una volta, c’è una svolta decisa e sorprendente: verso un arioso rock psichedelico, con meno esercizi muscolari, minor subisso di riff e una più spiccata propensione alla ballata in chiave alternative. Quello di Amorica è a tutti gli effetti un progetto più adulto e ambizioso, che prende le distanze dai consueti registri del revival senza cedere alle sirene di un grunge pure edulcorato, che nell’anno della dipartita di Kurt Cobain va ancora per la maggiore (si pensi allo scaltro bestseller “Purple”, degli Stone Temple Pilots). Azzarda piuttosto, un po’ come il coevo “Monster” dei Rem, un approccio più emotivamente viscerale, offrendosi senza filtri e con evidente enfasi romantica. Ascoltando un brano come il singolo battistrada “A Conspiracy”, si sarebbe indotti a dubitare di quanto appena affermato. Nei suoi solchi imperversa la band esplosiva dei precedenti lavori, con il maggiore dei Robinson davvero sugli scudi, leonino e spasmodico mentre si destreggia tra intonazioni feroci e pose uggiose; ancora meravigliosamente incisivi i contributi frastagliati delle due elettriche, ancora preminente il drumming di Gorman, ma a orientare il torrenziale flusso sonoro del gruppo sono sempre le limacciose tastiere di Harsch, una piena che si porta via tutto mentre il frontman finisce di sgolarsi come un ossesso. Per cuore e temperamento i Crowes non sono arretrati di un passo, viene da pensare. In realtà l’incipit del disco racconta una diversa verità. Caldi aromi latin vi introducono dolci scorticature di Gibson, in un blues aspro e bastardo, lurido pastiche pezzente capace di svelare scorci favolosi in mezzo alle sue caotiche tortuosità, oltre ai ruggiti di un Chris ruvido come non mai. Il contesto è un garbuglio quanto mai ricco di increspature, di asperità, ma il cantante conferma tutto il proprio polso e sa bene come tirare le fila.

Ritmiche bislacche, percussioni ciondolanti e fantastiche atmosfere tex-mex sono peraltro replicate prestissimo: sin dal titolo “High Head Blues” non fa mistero del proprio indirizzo musicale, per quanto ci si trovi al colmo dell’anomalia, nel cuore di una rivisitazione eretica che si spinge in profondità fino alle fondamenta del genere. L’aria è opportunamente malsana e dissoluta, Chris gigioneggia tra lagnanze e coloriture ironiche e il risultato è un altro pezzo affascinante, carnoso, sregolato e lontano anni luce da tutto quanto fatto in precedenza dalla band. L’impressione, qui soprattutto, è che i georgiani non solo sperimentino nuove soluzioni ma che, magari con l’aiutino delle immancabili droghe leggere , ci provino anche dannatamente gusto. Non è chiaro se nelle battute conclusive, dopo una sonora tirata da chissà quale tipo di sigaretta, il leader dichiari in spagnolo “Esta es la mejor mota” (questa è l’erba migliore) o “Esta es la mejor nota” (più che comprensibile anche in italiano), ma il significato resta suppergiù il medesimo.
L’allontanamento dal centro di fuoco del loro sound consolidato si concretizza poco oltre, quando la ribalta è tutta per una ballad come “Cursed Diamond”, splendidamente messa in quadro dalla malinconia, dedicata tra le altre cose al potere del perdono. Un Chris fenomenale per il talento e la semplicità con cui sa emozionare ne fa la vetta lirica di un album ispiratissimo e, forse, dell’intera avventura Black Crowes. Al centro, qui come nelle altre dieci tracce, c’è la coppia. Dinamiche relazionali, prevaricazioni, abbandono, sintonia, infatuazione, affetto. E poi, va da sé, l’odio, così in voga nel 1994; non tuttavia qualcosa che sia banalmente rivolto al prossimo, in un’indiscriminata presa di distanza da tutto e tutti (quasi si trattasse della più classica delle armi generazionali), né una pulsione annacquata nel solito nichilismo squallido. E’ puntato verso di sé e vale come scintilla di una più radicale presa di coscienza, uno strumento della redenzione, tanto per restare al repertorio di simboli e al manicheismo della musica dei neri cui da sempre guardano con grande rispetto.

07270x220_ivMentre le parole di Chris incalzano l’ascoltatore come una scarica di ganci pugilistici, Ford e Harsch fanno meraviglie, costruendo l’impianto melodico di una gemma grezza cui è impossibile resistere senza un minimo di commozione. I ragazzi sono arrivati a toccare corde speciali con naturalezza, ma ci riescono senza ricorrere a smargiassate ruffiane e senza scadere in un sentimentalismo à-la Bryan Adams, tanto per citare un contemporaneo che – abusando di certi cliché – ha fatto i milioni. Con “Nonfiction” rallentano e spogliano il proprio suono, per ripresentarsi più schietti e confidenziali. Il taglio frugale non toglie forza, anche perché in questa veste trasparente e unplugged il frontman ha margini per affabulare in maniera ancor più gioviale. Stilisticamente i Nostri avvicinano un folk west coast dei tardi Sixties, pauperista ma raggiante con quel suo piacevole aroma di Americana: una pausa necessaria nel flusso emotivo pazzesco del disco, un’oasi rilassante. L’organo saltellante di Eddie, le elettriche briose e il basso vivace di Colt imbastiscono una nuova cornice amabilmente informale in cui Chris può giostrare con disinvoltura nell’ennesimo episodio solare (“She Gave Good Sunflowers”). Si respira un senso di libertà prezioso che riporta ancora alla fine dei Sessanta ed è yankee fino all’ultima delle sue molecole sonore; la fuga in solitaria di Ford lo chiarisce quasi si trattasse di un’outtake impossibile dalla soundtrack di “Easy Rider”, anche se non si tratta che di una piccola canzone d’amore tra le altre, tutta polpa e nervi. A seguire, un blues straccione sufficientemente adrenalinico (“P.25 London”), infiammato dall’armonica e dalla verve ludica di un Chris tornato per un attimo a saccheggiare come un monello il baule di famiglia in soffitta.

Il tutto suona eloquentemente sudicio e dilettevole ma, cosa ben più importante, sfugge in agilità le trappole del solito revival necrofilo perché a recitare è una band fantasiosa (e baldanzosa) dei Novanta, e per fortuna lo si intuisce. Per l’abbinata da autentica pelle d’oca “Ballad In Urgency/Wiser Time” si recupera l’intensità di “Cursed Diamond”. Raffinati senza eccedere nelle estetizzazioni di maniera, i Crowes regalano qui dieci minuti tra i più incredibili della carriera: decadenti ma non affettati, loser splendenti che si spacciano per vincenti, incantano con pennate armoniche e il calore seducente di una voce tra le più belle della sua generazione. Non c’è assolo che suoni meno tronfio o masturbatorio di quelli di Marc Ford in questo incantevole diario di viaggio in due tempi, nella piega solo il dolce pianoforte di Harsch. La carne al fuoco, evidentemente, è tantissima ma se ne esce saziati con leggerezza, con la convinzione che questi ragazzi abbiano plasmato un miracolo apposta per regalarcelo. Accantonati le spacconate giovanili e il blues più ortodosso, l’approdo è qui, semplicemente, una pagina tra le più commoventi del rock della radici, qualunque sia la connotazione che si intenda attribuire al termine.
E’ grande musica, nient’altro che questo, e il fatto che non sia invecchiata per nulla a più di vent’anni di distanza lo dimostra nel modo più eloquente possibile. Il nuovo istintivo alleggerimento è offerto da un Delta-blues assai meno campato per aria di quel che potrebbe sembrare a un primo, distratto ascolto (“Downtown Money Waster”): ha dentro un’ebbrezza profondamente terrena, genuina, e il piglio del gruppo è devozionale nel senso più alto del temine. Il congedo poi è dolcissimo è quasi catartico, la preghiera finale (“Have mercy baby, open your eyes…”) a esorcismo compiuto, un invito a godere con pienezza della meraviglia di ogni giorno, senza star lì troppo a favellar di massimi sistemi.

08270x220_xlivE’ l’Amorica del titolo, dietro il calembour un senso profondo: amore grato per la vita, raccontato con gli accenti più americani possibili ma anche senza filtri o artifici non indispensabili. Malauguratamente, l’innegabile sforzo artistico dei fratelli Robinson paga solo fino a un certo punto. Nessuno dei nuovi singoli si assicura vendite memorabili, il disco manca di un nulla l’ingresso nella top ten e alla fine fa più parlare di sé per la sua audace (anche se oggi fa sorridere) immagine di copertina, tratta da una copia dell’Hustler Magazine di un paio di decenni prima: la foto di un monte di venere coperto a fatica da uno stretto bikini con la bandiera nazionale. Grandi catene come Walmart e Kmart si rifiutano di venderlo nei propri mall e il braccio di ferro tra il management del gruppo e coloro che si oppongono alle sue scelte si risolve, non senza aver prima garantito ai Crowes un lauto ritorno in termini pubblicitari, con un’autocensura e un cambio di cover in cui i riferimenti al sesso sono di fatto azzerati. L’attività live, frattanto, non conosce soste. Salutato come uno dei migliori della loro lunga carriera (non mancherà una serata trionfale condivisa con i Grateful Dead in Florida), il tour “Amorica Or Bust” del 1995 è in realtà funestato da ogni sorta di attrito tra i membri della band – fratelli in testa, ma non solo – e in un paio di occasioni i Crowes si trovano davvero a un passo dallo scioglimento.

Per il successore di Amorica, cui i georgiani arrivano letteralmente con i nervi a pezzi, si opta per un approccio produttivo anomalo rispetto a quello a più lunga decantazione operato l’anno precedente: Rich registra una dozzina di demo che spedisce in California a Chris affinché ci canti sopra i propri testi. Viene poi affittato un villino ad Atlanta, ribattezzato “Chateau de la Crowe”, dove il gruppo si riunisce assieme al fidato Jack Joseph Puig per perfezionare il già pregevole lavoro fatto dai Robinson in separata sede. In un clima a dir poco informale, senza ricorrere all’asetticità di uno studio di registrazione degno di questo nome, numerosi altri brani vengono scritti e messi su nastro nelle nuove session, che vedono anche il contributo della Dirty Dozen Brass Band in un paio di episodi. Ultimato nominalmente agli Ocean Way Studios di Los Angeles, il quarto album della ditta, Three Snakes And One Charm, riflette in pieno tanto il clima disimpegnato in cui è stato creato quanto l’irrequietezza che aveva segnato la coda della precedente esperienza. Stilisticamente insiste con il taglio eclettico e le commistioni già sperimentate nel disco della svolta, per quanto il risultato sia di per sé meno armonioso e l’atmosfera, pur frizzante, alquanto caotica. Certo gli squilibri comportano in questa circostanza anche sviluppi positivi, su tutti la maturazione di Rich che, incoraggiato da Ford, diventa di fatto un primo chitarrista aggiunto.

09270x220_xiiL’avvio è oltremodo pimpante, denso di spifferi e intriso di una generale euforia: ancora sovraccariche e guizzanti le chitarre della ditta, malandrine le tastiere, in un clima di bagordi southern e di ebbrezza festosa liberata a tutto campo. L’impressione è quella di un miscuglio frenetico di influenze che finisce per soffocare, ridimensionandola, persino la tempra sempre su di giri del cantante. Dopo un abbrivio magari facilone, riecco però la band in quadro con ciò che evidentemente le riesce meglio, la ballad. Nella categoria di riferimento, “Good Friday” non ha poi molto da invidiare alle sue omologhe nella precedente fatica. Viene recuperata la necessaria limpidezza, e questa premia un Chris tornato opportunamente a fuoco con la sua voce calda e la sua armonica indiavolata. Si sente persino un banjo, prezioso nell’insaporire il brano anche senza svilirlo in una bizzarria eccessivamente caricaturale; questo perché i Crowes non amano vincolarsi a uno stilema piuttosto che a un altro, e si confermano anzi eccellenti scollinatori tra generi, tradizionalisti con il vizietto della rottura (oltreché maestri impareggiabili del sing-along). Ad accreditare il principio pensa un altro brano tarantolato, “One Mirror Too Many”, sublime nella sua commistione di elettrico e acustico come nei foschi canaloni atmosferici plasmati dal più giovane dei Robinson. A far fare al tutto il salto di qualità è però ancora il fratello maggiore, a metà strada tra santone e presenza mefistofelica, che conferma in pieno la propria attitudine, una presenza scenica da perfetto animale da palco, il physique du role e quell’aura da hippie indefesso che una guida rock davvero magnetica non può esimersi dallo sfoggiare. Per sorprese più colorate e decise, almeno in quanto a spinta sul pedale di un populismo “sano e consapevole”, c’è comunque margine.

La prima occasione è offerta dal blues-rock geneticamente modificato di “Nebakanezer”, abilissimo a flirtare in tutta libertà (e con profitto indubbio) con le sirene dell’alt-pop radiofonico. Il numero di magia è poi destinato a una replica repentina con il singolone “Blackberry”, altro gioiello bastardo e perfetta testimonianza dell’estetica impura ma trascinante cavalcata a questo giro dai Black Crowes più dionisiaci che si siano mai visti. Ancora una volta i loro refrain si dimostrano autentiche perle easy-listening, lo scintillio di brani perfetti per non scontentare nessuno, dai nostalgici degli Allman Brothers a chiunque vada in cerca di ascolti più edulcorati o, semplicemente, meno vetusti.
In questo equilibrismo grandioso sembra risiedere la formula vincente di un disco partito – è innegabile – con il vento in poppa. Mentre attorno a lui le due Gibson ruggiscono, le ritmiche incalzano e Harsch dispensa svisate ubriacanti quasi piovessero, il frontman ha l’aria di divertirsi come un folle diavoletto seguendo l’andazzo inebriante. Poi ecco con “Girl From A Pawnshop” una brusca frenata, a riprova del felice trasformismo di cui il gruppo di Atlanta è capace: qui assai più misurato della propria norma, grave e persino dolente, in una pagina impregnata di estatica meraviglia ma priva di quei colpi di teatro che risulterebbero fuori luogo. Poi certo, Chris è artista di tale temperamento che non può trattenersi fino in fondo dall’esternare slanci drammatici anche rutilanti, dedicati magari alla modella e attrice – nonché nipote di Frank Zappa – Lala Sloatman (portata all’altare quando l’Lp è nei negozi da un paio di mesi); per qualità e lirismo la sua prova non tradisce cedimenti al kitsch da quattro soldi e i suoi compagni sanno sempre come assecondarlo in maniera sublime, fino al gioioso inno di redenzione piazzato in coda a questa lunga canzone.

10270x220_ixDopo una prima facciata superlativa, il livello non può che abbassarsi un po’, fisiologicamente. Così “(Only) Halfway To Everywhere” sceglie di privilegiare il tono ludico e vivacchia all’insegna di un gustoso traccheggio soul e funky, incoraggiato dai fiati a profusione della “scatenata dozzina” e dal febbrile protagonismo delle coriste, mentre il cantante non si fa certo pregare per lasciarsi trascinare e torna a recitare nei panni del Rod Stewart (o dello Steven Tyler) dei poveri: un passaggio ruspante quanto prescindibile (come l’allegra sarabanda che sconfessa le precoci evocazioni zeppeliniane in “Let Me Share The Ride”), ma anche la cartina al tornasole di un vitalismo pazzesco nella sua sincerità. Comunque la si pensi, la varietà di soluzioni adottata per evitare, una volta ancora, di rinchiudersi in una forma fatta rimane un valore aggiunto dei georgiani. Accusati spesso a vanvera di essere solo degli scaltri imitatori, i Crowes manifestano in questo modo la loro insofferenza verso gli stereotipi e i relativi, limitanti, condizionamenti. Si spiegano così le frugali ballate elettroacustiche che affollano la seconda metà dell’album e paiono quasi depurate rispetto al discreto marasma espresso in precedenza: il radioso omaggio ai sixties californiani di “Better When You’re Not Alone”, la gradevole “Bring On, Bring On” o lo scalcagnato esorcismo di “How Much For Your Wings?”, un alleggerimento che profuma di lo-fi ante litteram; cose semplici, evidentemente, per talenti eclettici come i musicisti statunitensi, ma anche un diversivo necessario per tirare il fiato, sciogliersi e suonare quel che piace senza pressioni, secondo una cifra che, nelle avventure soliste dei due Robinson, diverrà un vero e proprio rifugio espressivo.

Partorito in un periodo di grandi tensioni, Three Snakes And One Charm ha l’indubbio merito di mostrare la compagine di Atlanta in una prolungata parentesi ricreativa che sdrammatizza e non potrebbe essere, di fatto, più salutare. Per fortuna questi Crowes sono ragazzi che apprezzano anche evasioni e disimpegno, non odiosi soloni immobili dietro le loro cattedre. E per fortuna, seppur agli sgoccioli, stanno ancora vivendo la loro fase creativa più intensa ed esaltante. Questo spiega perché anche le canzoni qui raccolte si mantengano a grandi linee su uno standard di buona (quando non buonissima) fattura. Nel memorabile finale di “Evil Eye” si può arrivare a scorgere qualche fosco presagio per quanto il tono, ancorché infettato da inquietudine e nervosismo, resti piacevolmente serafico: si addensano nuvole nere all’orizzonte ma – sembrano dire i Nostri – è possibile che spariscano come sono comparse, senza troppi strascichi.

Meglio un giorno da leoni?

11270x220_xxxvNonostante i compromessi, al di là dell’illusione che ogni strappo possa essere ricucito come per magia, la necessità di promuovere live in maniera massiva l’ultima fatica riporta però la band georgiana nella condizione di stallo e tregua armata in cui era già caduta un annetto prima di questo nuovo sforzo produttivo. Stremati dopo sei mesi di tour, i Black Crowes tornano in studio all’inizio del 1997 per dare una forma finita al tanto materiale escluso nelle session precedenti. Il nuovo album, che secondo l’ipotesi preliminare dovrebbe intitolarsi “Band”, viene tuttavia accantonato come già era capitato quattro anni prima con “Tall”, in questo caso per il rifiuto opposto dall’American che sperava in qualcosa di più eclatante. Le prolungate frizioni interne al sestetto trovano comunque una soluzione con il licenziamento di Marc Ford, ufficialmente per una dipendenza dall’eroina, cui fa seguito l’abbandono dell’altro “frondista”, Johnny Colt, in verità sempre meno coinvolto dal gruppo e ormai intenzionato a reinventarsi come istruttore di yoga. Con due membri chiave della primissima ora (o giù di lì) fuori dai giochi, parrebbe d’essere giunti anzitempo al capolinea. I rimpiazzi tuttavia sono tempestivi – l’amico Sven Pipien al basso, l’ex Cry Of Love Audley Freed come seconda chitarra – anche se la band scompare di fatto dai radar. Il 1998 si segnala esclusivamente per la pubblicazione di Sho’ Nuff, un gustosissimo box set con i primi quattro Lp rimasterizzati e arricchiti da outtake, oltre a un inedito Ep live, materiale multimediale (videoclip, screensaver), adesivi e quant’altro.

Frattanto l’American Recordings diviene una consociata della Columbia e, per dissapori con Rick Rubin, i Crowes optano di fatto per il passaggio di etichetta a quest’ultima, più grande ma, per paradosso, almeno in apparenza meno vincolante. Per le registrazioni del nuovo album tornano ad affidarsi a Kevin Shirley, già collaboratore di Drakoulias ai tempi dell’esordio, con il quale si chiudono per la prima volta in uno studio newyorkese, l’Avatar. Intento del produttore, dopo aver rifiutato seccamente quanto già inciso dal gruppo (in quanto troppo simile allo standard degli ultimi due lavori), è di far approdare i suoi clienti a un album rock stringato ma ben a fuoco, forzandoli a suonare come fossero ancora adolescenti. Dopo essere stato posticipato un paio di volte, il nuovo By Your Side vede finalmente la luce nel gennaio del 1999, con Rich come unico chitarrista in squadra. Stilisticamente appare innegabile la semplificazione di trame e testi, così come l’orientamento verso canzoni d’amore più classicamente intese e il più largo spazio concesso all’ironia, a tutti i livelli. Il tono scanzonato traspare ad esempio anche nella presentazione del collettivo sul booklet, dove non manca un pizzico di sarcasmo sugli anni decisamente mal portati da Eddie Harsch, mentre un Chris fresco di divorzio gioca senza timori la carta maliziosa dell’ambiguità: dopo la mise ispida e tardo-hippie sfoggiata nel quadriennio precedente, rispolvera la schiettezza tamarra di una decina di anni prima camuffandola con un look vagamente androgino, e si ribattezza “Diva” per l’occasione. Anche da semplici dettagli come questi il ritorno ai fasti e alla spensieratezza giovanile di Shake Your Money Maker sembra alquanto marcato.

12270x220_xiLe coordinate stilistiche lo denunciano peraltro meglio di qualsiasi allusione non musicale, visto che sono di nuovo fortissimi i richiami a “Exile On Main Street”, agli Humble Pie o al Rod Stewart di “Gasoline Alley” e non si palesa il minimo tentennamento: l’eloquente opener “Go Faster” è subito una scarica di adrenalina pura, nel segno di un’enfasi r’n’r semplicemente contagiosa. Il motore della band fa sentire lo stesso rombo dei giorni migliori e il tuffo nel passato è un carpiato pazzesco all’indietro, verso la baldanza hard dei primi passi. Non ci si limita tuttavia a scimmiottare quella fase, perché nel frattempo il gruppo è cresciuto in modo esponenziale e ha acquisito una consapevolezza invidiabile. Alla testa di questa trionfante armata, il maggiore dei Robinson torna a interpretare i panni del rocker invasato e testimonia, assieme a uno Steve Gorman mai tanto pirotecnico, della vena eccellente della compagnia. La sensazione è peraltro ribadita e suggellata subito da un altro numero battagliero, “Kicking My Heart Around”. Con un frontman che sembra caricato a molla, i Crowes si esprimono al massimo della loro purezza dionisiaca, senza star lì troppo a fare calcoli. L’uno-due è travolgente come il chitarrismo a tutto campo (ritmico e solista) di un Rich finalmente padrone della propria musica, senza più concorrenti o primedonne a pestargli i piedi. Lasciate da parte più nobili e intriganti velleità liriche, quelle che hanno offerto i loro frutti più succosi nei solchi dei due lavori prodotti da Puig, il gruppo riporta la propria poetica all’immediatezza del grado zero, sfrondata come un suono che riscopre le proprie origini veraci e poco inclini al compromesso.

La title track e l’ancor più morbida “Only A Fool”, entrambe scelte come singoli, vincolano la loro essenziale ma luminosa linea melodica a un riff elementare o a una sempre adeguata sottolineatura pianistica, riproponendo nel modo più sfacciato lo schema vincente di quell’ormai remoto primo gioiello. Rispetto ad allora c’è persino più scioltezza, indispensabile per evitare che tutta questa grinta leonina possa tracimare o scadere in qualcosa di grottesco. Il risultato è insomma decisamente fluido e l’energia gestita al meglio, scongiurando gli sprechi. Unico limite sta nel fatto che, forse, non tutte le canzoni sono davvero memorabili, anche se la tonicità “muscolare” del sound e quel po’ di mestiere adottato secondo necessità compensano in maniera egregia gli eventuali cali di ispirazione. C’è molto meno Harsch a questo giro, o quantomeno è tenuta a freno la sua influenza torbida e irregolare in favore dell’anima più brillante incarnata dai Robinson. In un certo senso Amorica ha segnato un limite oltre il quale sarebbe stato impossibile spingersi, e quella fase si è poi esaurita con Three Snakes And One Charm e il suo primo, parziale, ripiegamento in una forma di meticciato bizzarro. Cui si torna ancora, seppur sporadicamente, come dimostrano l’esibizione circense, i sonagli e quelle pose nostalgiche esibite col piglio dei maestri in “Welcome To The Goodtimes”.

13270x220_xvBy Your Side è un album tutto sommato divertente, privo dell’urgenza romantica dei suoi diretti predecessori ma stimolante secondo altri parametri. Frivoli ed essenziali nelle loro briose esternazioni di ottimismo, sempre abilissimi a dissimulare il clima di svacco giubilante grazie al rigore di una macchina musicale perfettamente rodata (un po’ come i Rolling Stones dello stesso periodo), i georgiani danno vita a una vera e propria festa quasi volessero esorcizzare lo scioglimento evitato per un pelo. Per riuscire al meglio nei propri intenti sono costretti a fare i salti mortali in quanto a coesione, profondità e cromature elettriche, andatura a rotta di collo e effetto “bostick” della scrittura, approdando a un easy-listening “ossigenato” e ammiccante che in qualche occasione (“Then She Said My Name”, “Heavy”) si rivela irresistibile: per una volta è la magia del disimpegno a rubare la scena e a drogare d’entusiasmo un ascolto giocoforza più epidermico del solito.
Tra frangenti scherzosi e sventagliate piacione, offerte apposta per arruffianarsi il pubblico nelle arene, emerge con inequivocabile chiarezza che la band ha voglia di aprirsi, di confrontarsi, e che cerca un abbraccio di condivisione con i suoi seguaci (lo dice in fin dei conti anche il titolo): l’approccio non potrebbe essere più espansivo ed è un’altra arma importante per un disco altrimenti non così indimenticabile. C’è un po’ di pilota automatico, è vero, ma il gruppo appare in condizione travolgente e glielo si perdona. A tratti si possono scorgere anche scampoli di quei gigioneggiamenti da matura jam band che segneranno a fondo la seconda parte della carriera dei corvi: è il caso dell’antologia di cliché di “Go Tell The Congregation” o della zeppeliniana “Horsehead”, pezzo tostissimo da una compagine che pare aver scoperto il piacere della grandeur e per una volta sceglie apertamente di pavoneggiarsi.

Nonostante la prestanza fisica e caratteriale ostentata, la fiammata commerciale dei Crowes ha però esaurito il suo vigore. L’album non va al di là di un ventiseiesimo posto in classifica e di trecentomila copie vendute in patria a dispetto degli ingentissimi impegni promozionali assolti, tra comparsate televisive, il tour intensivo “Souled Out” e quelli condivisi che seguono a ruota, negli Stati Uniti con Lenny Kravitz e in Europa con gli Aerosmith. E’ decisamente un’occasione più rilassata quella che vede il team dei fratelli Robinson, nell’ottobre dello stesso anno, dividere il palco con la leggenda Jimmy Page per un paio di serate che non è fuori luogo definire “devozionali”. Focose riletture del repertorio degli Zeppelin, di alcuni grandi classici blues-rock e di poche gemme selezionate dalla discografia dei georgiani, rendono memorabili i concerti di New York e Los Angeles. Il secondo, registrato ancora da Kevin Shirley, viene reso disponibile sul sito Musicmaker.com nel febbraio del 2000 e quindi pubblicato dalla piccola Tvt Records in doppio cd, col titolo di Live At The Greek: Excess All Areas, nel luglio dello stesso anno. Pur non presentando in scaletta le canzoni dei Crowes, escluse per questioni contrattuali con la Columbia, il disco piace ai fan della band di Atlanta come ai puristi della mitica formazione londinese e, sorprendentemente, vende oltre duecentomila copie in più del tanto reclamizzato By Your Side. Inevitabili, a quel punto, la fine del sodalizio con la loro etichetta ma anche la replica dell’esperienza con Page (e, in aggiunta, con i Who) in diverse nuove date estive. L’anno si chiude con un’autentica esplosione di popolarità per Chris, su tutti i rotocalchi per via del matrimonio con la celebre protagonista di “Almost Famous” (e figlia di Goldie Hawn), Kate Hudson, celebrato a favor di paparazzi tra le nevi di Aspen, il 31 dicembre, nel ranch del patrigno della sposa, l’attore Kurt Russell.

14270x220_xxxivRisolto consensualmente il contratto con la Columbia, i Black Crowes si accasano con la V2, nuova label del tycoon inglese Richard Branson, conquistati dalla promessa di assoluta libertà fatta loro dalla controparte (a cominciare dall’assenza di veti sul nome di un produttore vanamente inseguito due anni e mezzo prima, Don Was). Il sesto album di studio della loro carriera, Lions, viene registrato nei Montana Reharsal Studios di New York all’inizio del 2001 e arriva nei negozi nel maggio dello stesso anno. Alla band manca un bassista titolare, dato il licenziamento di Pipien (per l’essersi presentato in ritardo a un concerto) e l’abbandono dei relativi rimpiazzi, Greg Rzab e Andy Hess, ma proprio Don Was (e più di rado il minore dei Robinson) provvede a colmare personalmente la lacuna. Ancora una volta Rich ha quasi l’esclusiva sulle chitarre, con Audley Freed limitato a un contributo marginale per evitare di affogare i riff, intesi come la “ciccia” dei vari brani, in un wall of sound ritenuto dispersivo.
Come unanimemente rilevato dalla critica, la recente avventura live con Jimmy Page ha lasciato strascichi significativi nelle dinamiche creative del gruppo di Atlanta, visto che mai l’influenza dei Led Zeppelin era parsa tanto determinante in un’opera dei Crowes. Purtroppo l’ascendente si rivela meno benefico di quel che avrebbe potuto essere, forse perché i georgiani appaiono oggettivamente in debito di ossigeno in quanto a inventiva, e il loro pur ottimo mestiere può davvero poco per riscattare le nuove canzoni da una generale (e sconfortante) impressione di maniera. Tra sound annacquato, trame banalizzate oltre il lecito e testi regolarmente smielati, ispirati a Chris dallo stereotipo angelicato della giovane consorte, Lions si aggiudica in agilità il premio per il peggior titolo della discografia dei fratelli Robinson  riuscendo, in questa poco lusinghiera impresa, a mettere d’accordo addetti ai lavori e seguaci affezionati.

E dire che, sin dall’avvio, i ragazzi sembrano tenere più che mai alle apparenze e provano a mostrarsi carichi al punto giusto. Invano, perché l’impressione di trovarsi al cospetto di un pachiderma assonnato e flemmatico non fatica a imporsi. Il primo degli espliciti omaggi a Page & Plant scorre formalmente corretto ma emoziona pochissimo; pur fedele a se stesso, lo stesso Chris appare un tantino imbolsito o forse, più che altro, solo poco convinto. Mancano il pathos e il sudore che per il marchio Black Crowes sono sempre stati una costante cruciale. I debiti nei confronti degli Zeppelin si fanno sfacciati sulle note di “Come On”, anche se in questo caso la band recupera parte dello smalto di un tempo e intrattiene a dovere. Certo non ci si discosta dalla norma di un pur mirabolante divertissement e questo ripiegamento espressivo non può accontentare in alcun modo gli appassionati.
Anche un pezzo festoso come “Lickin’”, forte di una stilizzazione gradevole, non riesce a elevarsi da quest’idea di scherzo, di esercizio senza troppe implicazioni tirato su in quattro e quattr’otto, per pure finalità diversive. Con “Ozone Mama” torna a farsi apprezzare anche il funky turgido e ludico del predecessore, ma senza l’energia e l’entusiasmo che in quella occasione abbondavano. In questo risiede la più rilevante delle differenze tra i due lavori: in By Your Side c’erano anima, sfuriate sanguigne e un’ironia ancora brillante, mentre quella di Lions sembra una paciosa combriccola da dopolavoro, priva di vere motivazioni e col fiato cortissimo nonostante una padronanza tecnica ormai ineccepibile o la qualità sontuosa degli arrangiamenti.

15270x220_xxxviiiCosì le tredici tracce si rincorrono stancamente, la forma prevale sulla sostanza e il senso di noia resta tangibile, tra un gorgheggio belloccio di Gibson e un coro sbiadito, sempre fedelissimo al solito protocollo; per una volta la verve da tarantolato di Chris arriva a suscitare più perplessità che impressione, ma questo è solo un campanello d’allarme tra i tanti. Anche le ballate, per dire, paiono tiepidine e un po’ troppo trasparenti, per quanto il maggiore dei Robinson non si risparmi in chiave emotiva: se con il suo atteggiamento sornione “Miracle To Me” non va al di là di una generica gradevolezza, “Young Man, Old Man” è una pagina di abulia da dimenticare alla svelta.
Parrebbe interessante giusto il bislacco revival barocco di “Cosmic Friend”, con il suo retrogusto di psichedelia spicciola di marca Beatles, ma si perde quasi subito in una minima variazione sul tema in bassa fedeltà, prima di sfumare in una nuova ostentazione di rock (prematuramente) senile. Il singolo “Soul Singing” prova a vivacizzare e effonde begli aromi tardo-hippie (che nei dischi della Chris Robinson Brotherhood diverranno una presenza irrinunciabile) mentre un ritornello favoloso vale a “Losing My Mind” il titolo per l’episodio migliore del lotto. Ma è poca roba, affogata in un mare di inutile magniloquenza. Questi svogliatissimi Crowes sembrano fare una fatica pazzesca anche in cose che un tempo riuscivano loro più che naturali: si riducono a scialbi imitatori di se stessi, privi di idee decenti, sotto la guida di un Chris mai così tedioso (eloquente il congedo), perso nel labirinto dei propri cliché romantici senza il sostegno di un vero afflato decadente. La sensazione, certo non voluta, è di trovarsi di fronte a un gruppo rinunciatario, una vecchia auto sportiva impiegata al minimo dei giri come una berlina qualunque. Forse è per questo che si stenta ad arrivare in fondo, scoraggiati da un’involuzione tanto profonda e repentina. I leoni evocati dal titolo sono bestie stanche. Sbandierano fierezza e libertà come vessilli ma imboccano un preoccupante vicolo cieco creativo, confinandovisi senza ricercare alcuna alternativa: niente più unghie che lacerano il cuore per loro, solo una regolarità impalpabile, fanfarona e spesso troppo estetizzante che sa di sostanziale buco nell’acqua.

Lo sforzo promozionale è ancora una volta ingente, con un primo tour (“Brotherly Love”) condiviso con altri due gruppi di fratelli – gli Oasis e gli Spacehog – e un secondo dal titolo eloquente (“Listen Massive”) che terrà impegnata la compagine statunitense fino all’autunno inoltrato. Con duecentomila copie scarse in patria, le vendite restano significativamente al di sotto delle aspettative, così non sono in molti a sorprendersi quando, in seguito all’abbandono del batterista (e membro fondatore) Steve Gorman nel gennaio del 2002, i Robinson annunciano per la prima volta una pausa a tempo indeterminato nelle attività della loro creatura.

Eterne ripartenze...

16270x220_penultLo hiatus rappresenta in realtà un’occasione quanto mai propizia per vedere i due fratelli all’opera in progetti personali troppo a lungo procrastinati. In appena un paio di anni Chris licenzia a proprio nome due dischi in odor di Americana, “New Earth Mud” (2002) e il notevole “The Magnificent Distance” (2004), per i quali si avvale dell’aiuto del futuro compagno Paul Stacey (già collaboratore degli Oasis) per la produzione e il songwriting (con contributi minori da Harsch, Ford, Freed e lo Stone Temple Pilots Dean DeLeo). Dal canto suo, Rich vara il collettivo Hookah Brown, che lo affiancherà nella realizzazione dell’esordio solista “Paper” (2004). Il suo batterista in questa avventura non particolarmente fortunata, Bill Dobrow, ha l’onore di sedere dietro ai rullanti della band regina per un brevissimo periodo all’inizio del 2005, quando i due Robinson decidono che il momento buono per rilanciarsi assieme è arrivato. Con loro per un annetto e mezzo ci saranno Eddie Harsch e il redivivo Marc Ford, oltre a quello Sven Pipien che non mancherà più alcun appuntamento, evitando di farsi licenziare una seconda volta.
Rientrato nei ranghi anche Gorman, il gruppo riparte a pieni giri, con un memorabile tour estivo condiviso con Tom Petty e i suoi Heartbreakers, e una sfilza di serate nel tempio di San Francisco, il Fillmore, destinate a restar immortalate nel loro terzo live album, “Freak’n’Roll Into The Fog” (2006). Dopo lo slancio di una rinascita in formazione (quasi) tipo, il biennio 2006-07 è per il gruppo statunitense stagione di riassestamento: Adam MacDougall subentra a Rob Clores nel posto che fu di Harsch, e lo stesso fa come secondo chitarrista il leader dei North Mississippi Allstars, Luther Dickinson, sostituto di Marc Ford e del suo rimpiazzo Paul Stacey.

Se in questo periodo la barra dei Crowes è puntata a dritta con coraggio, non manca di presentarsi l’occasione per uno sguardo retrospettivo a dir poco prezioso. Capita nella tarda estate del 2006, quando buona parte del materiale delle vecchie session di “Tall” e “Band” viene liberato dai bauli e vede finalmente la luce in una doppia raccolta dall’emblematico titolo The Lost Crowes, di fatto un duplice anello mancante a mo’ di cornice per i lavori prodotti da Puig intorno alla metà degli anni novanta, nonché il documento cruciale tramite il quale rendere conto dello stato di salute della band in una fase turbolenta ma anche di estrema vitalità.
Gli estratti da “Tall” raccontano di un combo al crocevia. Da una parte rimanenze come la ciondolante – ma infervorata il giusto – “Tied Up & Swallowed”, in linea con le prime esperienze ormai pronte per essere dimenticate (pare un’outtake da Shake Your Money Maker); dall’altra pezzi come “Dirty Hair Halo” che ricordano da vicino il tono stralunato e fumoso di certi passaggi su Three Snakes And One Charm (di cui è presente solo uno svagato embrione di “Evil Eye”). Nel mezzo tanta brutta copia di Amorica, che a ben vedere brutta non è affatto: “A Conspiracy” e “Wiser Time” sono incredibili anche in queste versioni non definitive, meno levigate ma vitalissime e ancor più nervose degli originali di studio; una “High Head Blues” scalcagnata è alcolica è parecchio divertente nelle sue stilizzazioni ma già tradisce tutto il proprio potenziale, mentre la “P. 25 London” invasata e rude supera per nerbo la sua omonima eletta alla titolarità; la prima bozza più bella è però quella di una “Cursed Diamond” spoglia e struggente (Chris sussurra, Rich e Eddie quasi non li si sente), intima come non mai e capace di accendersi in maniera clamorosa.

17270x220_vQuel che più sorprende di queste demo è la spigliatezza già evidente, in vece dell’approccio timido che ci si sarebbe aspettati. Il gruppo del 1993 aveva una confidenza notevole, piena convinzione nei propri mezzi e idee chiare a sufficienza, tutte qualità da “grandi”. Nel mucchio anche una manciata di canzoni sornione ma fascinose, come la perla notturna “Feathers” e “Lowdown” (gemella nata morta di “Ballad In Urgency”) o la meravigliosa sorpresa finale di “Thunderstorm 6:54”, umbratile e indimenticabile, tra le cose più evocative mai scritte dai georgiani. E’ un delitto che non siano state sviluppate come avrebbero meritato: velluto e asperità vi si incontrano, intrigano come forse solo i ragazzi in stato di grazia diretti da Puig appena qualche mese dopo.
A completare il quadro, un paio di chicche: il numero più vizioso e sensuale del lotto, quella “Song Of The Flesh” destinata a divenire oggetto di culto tra i titoli non promossi su album; e il commovente strumentale folk di “Sunday Night Buttermilk Waltz”, omaggio pazzesco (e inatteso) di Rich al suo idolo Nick Drake. Nella veste meno forzatamente sgargiante di “Band”, anche i brani che anticipavano By Your Side mantengono una loro fisionomia genuina che le rende gemme splendenti, anche se premiate solo di rado dall’onore di un ulteriore sviluppo. Senza le impalcature di una produzione con tutti i crismi, questi pezzi rivelano l’anima più pura del gruppo, vigoroso ma al naturale. Non mancano i divertissement colorati che svelano assonanze curiose con quanto poi fatto in seguito, spesso con meno smalto (“Grinnin” ha già la frivolezza di Lions) ma si scorgono soprattutto i primi germi dell’infezione roots che colpirà la band come una benedizione a fine carriera, ancora mescolati a soluzioni di marca blues (“Predictable”) o all’avventura sulla via rustica dell’esplorazione Americana di …Until The Freeze (il folk aulico à-la Jayhawks di “My Heart’s Killing Me”).

L’impressione generale, in questo caso, è quella di una compagine non gravata da preoccupazioni di sorta e, in tal senso, libera di spaziare a piacimento su piste musicali ancora poco battute. I Black Crowes di “Band” si mostrano baciati dall’ispirazione, innervati, carichi a mille e con un groove sensazionale, robusto e gorgogliante, che li avvicina al rock psichedelico dei primi anni Settanta (più west coast che southern): un collettivo aperto alle improvvisazioni e più prossimo, per fisionomia, a una matura jam band. Episodi come “Another Roadside Tragedy” sono eccellenti, serrati ed euforici ma in un bel clima di svago, smaliziato e confortevole, che all’occorrenza li galvanizza con passaggi estatici di grande suggestione, un po’ come nei titoli di più ampio respiro su Amorica (la ballad “Wyoming & Me” è pura magia). Anche l’unico abbozzo di By Your Side (“If It Ever Stops Raining”) ha un taglio più amabilmente rustico e artigianale, con sfumature e pennate di estrema bellezza, mentre l’unica canzone più squillante e ruffianotta, in linea con il filone zeppeliniano del periodo, è una “Never Forget This Song” che stranamente non sarà portata avanti fino al disco. Con tutte queste frecce nella sua faretra, The Lost Crowes resta davvero un piccolo scrigno di tesori e un’occasione formidabile per ascoltare la band di Atlanta al netto delle adulterazioni, in due momenti di estremo fermento creativo ma anche di profonda confusione stilistica e di autentici sconquassi relazionali.

18270x220_xL’attesa del settimo Lp è ingannata degnamente, nel luglio 2007, con la pubblicazione di “Live At The Roxy”, gustosa testimonianza in acustico di una terna di serate nell’omonimo club losangelino, offerta dai soli Robinson pochi mesi prima sotto l’estemporanea ragione sociale Brothers Of A Feather. Mentre l’ennesimo live album arriva così nei negozi, i Black Crowes sono riuniti assieme a Paul Stacey in un piccolo studio di registrazione sui Monti Catskills, a un centinaio di miglia da New York, per dare forma a un nuovo disco di inediti, Warpaint. Ancora una volta Rich ha scritto la musica e inviato per posta il materiale a Chris, perché si occupi di vergare e cantare i testi. Per le finiture e eventuali spunti ulteriori è però necessario il lavoro di gruppo e le tre settimane di ritiro pressoché monastico per la compagine georgiana si rivelano un autentico toccasana. Natura, armonia e tranquillità, complice l’ambientazione arcadica, si riflettono nel clima serafico con cui le nuove canzoni vengono registrate, tutte in presa diretta e con limature in post-produzione ridotte all’essenziale, in un paio di casi addirittura all’aria aperta. Con la propria storica mattonella espressiva ormai occupata da giovani e più scaltre compagini come i Black Keys, l’impostazione bucolica e l’assenza di additivi tecnici si offrono come sponde determinanti per la mezza rivoluzione in atto sul piano stilistico, con la band fermamente orientata a fare proprio un paradigma roots-rock tornato nel frattempo prepotentemente di moda, grazie ai successi indipendenti dei vari Wilco, Decemberists e Okkervil River, alquanto spiazzante se raffrontato con le ultime cose pubblicate dai georgiani.

“Walk Believer Walk” è un brano fondamentale per cogliere la vena rinata della band e la visceralità che anima Warpaint nel profondo. Un blues scurissimo à-la Blind Willie Johnson, dal sapore alcolico, con in primo piano l'ottimo dialogo voce/chitarra e sullo sfondo un hammond che non fa rimpiangere quello di Eddie Harsch. L’assenza di discontinuità e la reiterazione innodica sono elementi funzionali in chiave filologica, ma a rendere il tutto davvero trascinante è un Chris che mostra di saper ancora ruggire a dovere. Perfetto nei panni del santone, è sempre lui l’assoluto protagonista in quella “Movin’ On Down The Line” che sembra ora una preghiera, ora un mantra, ora una gioiosa liturgia gospel, resa fumigante e aromatica dal voluttuoso chitarrismo del fratello minore e di Dickinson. Il suo urlo e la sua immancabile armonica sono preziosi nel conferire al tutto un tono meno pomposo e celebrativo: sporcano per dare la carica.
Ben diverso clima caratterizza “Locust Street”, dove un'acustica brillante porta il sound dei Black Crowes verso territori più decisamente country-folk. Il corredo sonoro pulito funziona più che discretamente e ci si lascia trasportare volentieri da una band in forma smagliante che tradisce così la ferma volontà di dire la propria nei territori della grande tradizione Americana, dalle parti dei primi Jayhawks, dei Richmond Fontaine, degli Uncle Tupelo. Il tentativo, va detto subito, riesce miracolosamente bene, e i riscontri favorevoli raccolti da critica e aficionados non potranno che incoraggiare in questa direzione, come si vedrà, le future scelte espressive. Tra morbide percussioni, fragranze acustiche e accenti spiritual, un pezzo come “Whoa Mule” riporta in maniera decisa alla distensione oziosa di alcuni degli episodi più soft di un album come Three Snakes And One Charm, spina staccata e grande rilassatezza per quello che, a tutti gli effetti, sembra un unplugged dei Crowes classici (qui con una suggestione di pace campestre in più).

19270x220_xxxiParte all'insegna del ritmo lento anche “There's Gold In Them Hills”, forse la canzone più interessante di questo convincente lavoro: scampoli di cantautorato elegiaco, resi avvincenti dalla voce calda e ispiratissima del frontman, si ibridano con una marcetta che fa tanto New Orleans. Il risultato è curioso ma decisamente godibile.
Per quanto snobbato dai grandi network radiotelevisivi e dalla stampa, specie al di fuori degli States, Warpaint è senza dubbio la migliore uscita per la band di Atlanta da una buona dozzina di anni, se si esclude lo stupefacente Live At The Greek. Il più bel regalo per i fan è il primo singolo estratto nonché opener inevitabile, “Goodbye Daughters Of The Revolution”, quintessenza del classico sound sanguigno della casa e testimonianza di uno stato di forma quantomeno lusinghiero. E' di grande impatto la consueta miscela southern tutta chitarre e piano canagliesco, dove ogni ingrediente è calibrato col bilancino, ogni nota è al posto giusto e si apprezza un equilibrio che al gruppo dei due Robinson mancava da tanto. Un pezzo felicemente populista, carico di entusiasmo e in linea con il glorioso marchio di fabbrica, letteralmente illuminato dalla voce sempre galvanizzante di Chris e dal lavoro cruciale di un axeman del calibro di Rich. Analoga l'impostazione di “We Who See The Deep”, cavalcata ricca di buone vibrazioni e ottima polpa rock che li vede strizzare l’occhio a uno dei loro primi amori, gli Stones, dopo una prolungata serie di “tradimenti”.

Come detto, i Crowes di Warpaint rivelano grande naturalezza spaziando tra i più disparati generi musicali (equivalenti alle diverse fasi della loro ormai quasi ventennale carriera). Con “Oh Josephine”, per esempio, tornano a uno dei loro cavalli di battaglia, la ballad, e lo fanno in modo sontuoso: delicatezze nel velluto elettrico, pianoforte elegante e voce da rubacuori consumato, come nelle perle di Amorica. Rispetto all'età dell'oro della band, questa canzone può suscitare il sospetto di una certa ordinaria amministrazione, ma è pur vero che non c'è solo mestiere dietro alla ritrovata salute compositiva di questo lavoro: niente di nuovo sotto il sole, è quasi inevitabile per artisti di genere come loro, ma i Robinson non hanno dimenticato come incantare e sanno ancora darsi un gran tiro romantico, con classe, voglia di divertire e divertirsi. Non manca qualche trascurabile giro a vuoto, riscattato comunque dalla bravura dei musicisti: “Wounded Bird” è un rock da stadio che sembra ripresentarci i Black Crowes ruspanti degli esordi hard, gli imberbi scudieri degli Aerosmith, finendo per esaurirsi nella riproposizione forse un po' stanca di quel modello; più verace la successiva “God's Got It”, cover che sposa enfasi sudista e blues in una sorta di trionfante filastrocca, perfetta per richiedere al pubblico dei concerti di battere le mani a tempo.

20270x220_xxixPur lontanissimo dai livelli di vendite di oltre quindici anni prima, il disco si comporta egregiamente sul mercato, debutta al quinto posto nella classifica di Billboard e si rivela un colpo di coda alquanto inatteso per la declinante avventura dei Crowes. E’ anche un’iniezione di fiducia insperata per il collettivo statunitense, che ha rischiato privilegiando una soluzione autarchica (la label è quella di famiglia, la Silver Arrow) e si ritrova motivato dai buoni riscontri a non fermarsi e a battere ancora il proprio ferro creativo finché è caldo. Non può sorprendere, allora, l’esiguo margine temporale che separa questa dall’ancor più corposa uscita seguente, il doppio Before The Frost… Until The Freeze, disponibile nei negozi a fine agosto 2009 in formato-mono-cd (con possibilità di scaricare online la seconda parte) e poco più tardi in doppio vinile. Tutte le scelte recenti sono ribadite: la squadra è invariata, in cabina di regia siede ancora Paul Stacey, l’etichetta è sempre quella di proprietà e il suono insiste senza indugi su un revival anni Settanta che non si preclude svolazzi bluegrass e alt-country (emblematiche la scelta dello studio di Levon Helm a Woodstock e le cover inserite nella raccolta o nel relativo documentario edito in Dvd, “Cabin Fever”). Before The Frost… si presenta con il piano blues brillante e ben innervato di “Good Morning Captain”, nuova appassionata incursione negli aromi veraci (e nei paesaggi fangosi) della tradizione sudista.

Proprio come in Warpaint, Chris si mostra equilibrato, non eccede con le fiammate enfatiche e si accontenta del più sobrio (e ormai navigato) ruolo di cicerone in questo accuratissimo viaggio nell’universo delle radici. La traccia della chitarra solista resta preminente, ma non è da meno l’attenzione “scenografica”agli umori, alle nuance sempre ebbre al punto giusto. Il southern-blues, misurato ma amabilmente aspro, rimane la stella polare tramite la quale il gruppo si orienta, spaziando ora verso un alt-country terroso, ora verso un rock di marca seventies screziato appena di psichedelia, sempre e comunque nei solchi di un’Americana dal pungente retrogusto.
Con “Appaloosa” i ragazzi si giocano la carta di una malinconia sottile e ariosa nella più classica delle ballate yankee del repertorio: limpida, fluida, bucolica e densa di armonie di ampio respiro. In questo quadro lo spazio per la griffe da axeman di Rich è per forza di cose ridotto al lumicino, per quanto le divagazioni decorative non risultino comunque ingombranti o fini a se stesse. Prevale abbastanza chiaramente la linea di Dickinson e il suo culto – per certi versi impressionista – per un roots-rock cristallino, ricco e mai teatrale. Nel mucchio le belle canzoni non mancano certo, a cominciare dal pop-rock (ancora una volta di stampo tradizionalista) e dal memorabile refrain di “A Train Still Makes A Lonely Sound”, una nostalgica train-song nomen omen – come le scrivevano una volta, con il valore aggiunto della calda e ruvida voce del frontman e dell’accompagnamento di questo manipolo di fenomenali musicisti. Sulla stessa strada già battuta per loro dai Creedence Clearwater Revival, e della medesima pregevole fattura, è anche “Houston Don’t Dream About Me”, dove Chris risparmia le batterie e incanta con pochissimo mentre il fratello cesella morbide meraviglie con la sua Gibson.

21270x220_xxxviiIl disco ha un battito discreto ma irresistibile, assicurato come al solito da una sezione ritmica eccellente: un pulsare costante e vitalissimo che rende sia l’attualità che il potenziale di generi considerati minori dai più solo perché, nelle mani di altri, suonano come esercizi oleografici e senz’anima, pallide collezioni di diorami musicali. Con i Black Crowes, però, è tutta un’altra storia. Stilisticamente siamo davvero agli antipodi rispetto all’esordio e si ha l’impressione di trovarsi al cospetto di una band sì invecchiata, ma in modo magnifico, ormai trasfigurata nella compagine di incisivi veterani che forse i Robinson sognavano di diventare da sempre. La tavolozza dei riferimenti non è mai stata, peraltro, sfaccettata come in questi frangenti: dal rigore intimista e country-folk di “The Last Place That Love Lives” al radioso revival naturalista di “What Is Home?” (dalle parti dei Mountain Home, figliocci di Greg Weeks), passando magari per l’affilatissimo Delta-blues col turbo di “Kept My Soul”, non c’è che l’imbarazzo della scelta e il sestetto di Atlanta si conferma ispido, frizzantino e soprattutto a fuoco anche quando prova a declinare lo stesso verbo “irregolare” di Lions (“Make Glad”). A proposito di (felici) anomalie, l’episodio più bizzarro e godibile del lotto è “I Ain’t Hiding”, inatteso sconfinamento nei settanta più reietti (persino remoti echi dance, a questo giro), che si infiamma all’improvviso da gospel urbano a indiavolato blues sferragliante: l’amore per la musica nera in tutte le sue forme si rivela qui incontenibile e fa funzionare alla grande un pastiche particolarmente acre e ispirato. Non si tratta nemmeno dell’unico strano ibrido dell’album. Qualcosa di simile fa pure “And The Band Played On” (così come “The Shady Grove” nell’Lp supplementare), incrociando i consueti stilemi della casa con altri più leggeri e beatlesiani, dalle parti del vaudeville: solo la schiettezza yankee evita di far scadere in suggestioni barocche che sarebbero fuori luogo.
La seconda parte della raccolta, …Until The Freeze, si apre tra pennellate di sitar, con un lungo strumentale dalle disparate ascendenze folkloriche che ha tutta l’aria di un affettuoso omaggio al misticismo gentile di George Harrison. Anche stavolta, però, i Nostri mostrano di non volersi crogiolare al sole di una formula pur convincente e tirano dritto nella loro esplorazione. Umori e echi appalachiani (con tanto di violini rustici a segnare il passo) ribadiscono in “The Garden Gate” la prospettiva del divertissement privo di particolari controindicazioni, e lo stesso fanno i pochi siparietti in cui la ribalta è riservata al pianoforte (su tutti quello magnetico – à la “Hunky Dory” – di “Lady Of Avenue A”), l’assurdo gospel-blues-redneck di “Shine Along” e l’ideale ponte che in “So Many Times” raccorda il verbo Manassas (Chris Hillman & Stephen Stills) alla grande pastorale Americana degli amici Jayhawks. Le tonalità veraci e campestri rimangono credibili perché non degradano mai in caricature grottesche del bluegrass o del rockabilly, per rivelare piuttosto inflessioni in odor d’ascetismo sempre genuine. Per i Crowes questa è anche l’occasione per il ritorno a una dimensione più spirituale, anche se assai lontana rispetto a quella più contagiosa ed espressionista di The Southern Harmony And Musical Companion: qui l’orientamento di massima guarda più che altro a un ingenuo panteismo e celebra l’armonia intima nella natura, in una rappresentazione espressiva che avrebbe potuto riservare più di una lezione di sincerità alle truppe ormai sparse della New Weird America. Con questo disco gli ex bad boys di Atlanta si dimostrano davvero molto al di là di tutto quanto fatto in passato. Ripartono da Warpaint, lo sviluppano e lo superano in agilità aprendosi innanzi innumerevoli nuove strade, senza poi sceglierne una in particolare per non precludersi nulla nella loro coraggiosa ricerca. Sembrerà, a seconda dei casi, strano o inevitabile ma è proprio in conclusione alla loro straordinaria avventura artistica che i Black Crowes confezionano il loro album più adulto e libero, nel vero senso della parola, da ogni forma di condizionamento.

22270x220_xxxiiiNon contenti, nell’agosto del 2010 i georgiani raschiano il fondo del proprio barile con una nuova uscita, Croweology, doppia rilettura di alcuni classici del repertorio in formato esclusivamente acustico, registrati ancora in studio da Stacey. A completamento di questo ingente sforzo auto-celebrativo ecco il doppio tour “Say Goodbye To The Bad Guys”, con show di tre ore (per metà elettrici, per metà acustici) in calendario alla fine dell’anno e nel luglio successivo, rispettivamente negli Stati Uniti e in Europa. Al termine di questo pellegrinaggio che, come suggerisce l’intestazione, vorrebbe essere definitivo, il gruppo annuncia in effetti la seconda pausa a tempo indeterminato nelle proprie attività. Che dura tuttavia solo un anno o poco più, interrotta dalla pubblicazione dell’ennesimo (e non certo indispensabile) album dal vivo, “Wiser For The Time”, e dal relativo nuovo carrozzone live di una trentina di date tra States e Regno Unito, con il giovane Jackie Greene a sostituire il dimissionario Luther Dickinson. Anche il secondo e il terzo hiatus (al via nel dicembre 2013) appaiono se non altro preziosi per i due Robinson, impegnati dai rispettivi progetti collaterali: Rich produce e rilascia il proprio sophomore solista “Through A Crooked Sun” a fine 2011 (cui farà seguito “The Ceaseless Sight” nel 2014), mentre per il fratello maggiore è tempo di varare un nuovo collettivo, la Chris Robinson Brotherhood (con il compagno di squadra MacDougall e il più affidabile dei soldatini di Ryan Adams, Neal Casal), che licenzia un paio di dischi nel 2012 (“Big Moon Ritual” e “The Magic Door”) e un terzo (“Phosphorescent Harvest”) nella primavera del 2014.

Le fasi dormienti del gruppo-principe sono ormai una consuetudine e nessuno si sognerebbe di dare più alcun credito ai proclami che parlano di scioglimento, lanciati quasi a orologeria dai due rocker di Atlanta. Il tenore dell’ultima dichiarazione in ordine di tempo, rilasciata da un amareggiato Rich lo scorso 15 gennaio, non sembra però lasciare spazio a equivoci e stronca le residue speranze dei fan, tirando in ballo assurde pretese economiche (e una certa follia tirannica) da parte del cantante: "Voglio bene a mio fratello e rispetto il suo talento, ma le sue attuali pretese, che io rinunci alla mia pari quota nella band, e che il nostro storico batterista Steve Gorman ceda il 100% della sua quota, riducendosi di fatto a un semplice lavoratore dipendente, non sono qualcosa che io possa accettare". Chi abbia amato i Black Crowes nei venticinque anni della loro incredibile carriera non può che pensarla come lui, sconcertato da un finale tanto desolante.
Sempre che di un finale si tratti poi davvero…

Black Crowes

Discografia

THE BLACK CROWES
Shake Your Money Maker(Def American, 1990)7,5
The Southern Harmony And Musical Companion(Def American, 1992)8
Amorica(American Recordings, 1994)8,5
Three Snakes And One Charm(American Recordings, 1996)7
By Your Side(Columbia, 1999)7
Lions(V2, 2001)4,5
Freak’N’Roll… Into The Fog(Eagle, 2006)6
The Lost Crowes(Rhino, 2006)7
Warpaint(Silver Arrow, 2008)7
Before The Frost…(Silver Arrow, 2009)7,5
…Until The Freeze(Silver Arrow, 2009)6,5
Croweology(Silver Arrow, 2010) 6
Wiser For The Time(Silver Arrow, 2013)5,5
JIMMY PAGE & THE BLACK CROWES
Live At The Greek(TVT, 2000)8
CHRIS ROBINSON
New Earth Mud(Redline, 2002) 6
This Magnificent Distance(Vector, 2004)7,5
RICH ROBINSON
Paper(Keyhole, 2004)6
Through A Crooked Sun(Thirty Tigers, 2011)6
The Ceaseless Sight(The End, 2014)6,5
CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD
Big Moon Ritual(Silver Arrow, 2012)6,5
The Magic Door(Silver Arrow, 2012)6,5
Phosphorescent Harvest(Silver Arrow, 2014)6,5
BROTHERS OF A FEATHER
Live At The Roxy(Eagle, 2007)7
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Twice As Hard
(video, da Shake Your Money Maker, 1990)

Jealous Again
(video, da  Shake Your Money Maker, 1990)

Hard To Handle
(video, da  Shake Your Money Maker, 1990)

She Talks To Angels
(video, da  Shake Your Money Maker, 1990)

Thorn In My Pride
(video, da The Southern Harmony..., 1992)

Sting Me
(video, da The Southern Harmony..., 1992)

Remedy
(video, da The Southern Harmony..., 1992)

Sometimes Salvation
(video, da The Southern Harmony..., 1992)

Bad Luck Blue Eyes Goodbye
(video, da The Southern Harmony..., 1992)

A Conspiracy
(video, da Amorica, 1994)

Wiser Time
(video, da Amorica, 1994)

High Head Blues
(video, da Amorica, 1994)

Cursed Diamond
(video, da Amorica, 1994)

Feeling Alright (live)
(outtake, da Amorica, 1994)

Blackberry
(video, da Three Snakes And One Charm, 1996)

Good Friday
(live, da Three Snakes And One Charm, 1996)

Better When You’re Not Alone
(live, da Three Snakes And One Charm, 1996)

Nebakanezer
(live, da Three Snakes And One Charm, 1996)

By Your Side
(video, da By Your Side, 1999)

Go Faster
(live, da By Your Side, 1999)

Kicking My Heart Around
(live, da By Your Side, 1999)

Only A Fool
(video, da By Your Side, 1999)

Live At The Greek
(full concert, da Live At The Greek, 2000)

Soul Singing
(video, da Lions, 2001)

Lickin'
(video, da Lions, 2001)

Miracle To Me
(video, da Lions, 2001)

Cypress Tree
(video, da Lions, 2001)

Greasy Grass River
(video, da Lions, 2001)

Sunday Night Buttermilk Waltz
(live, da The Lost Crowes, 2006)

Goodbye Daughters Of The Revolution
(video, da Warpaint, 2008)

Good Morning Captain
(live, da Before The Frost… Until The Freeze, 2009)

Darling Of The Underground Press
(live, da Wiser For The Time, 2013)

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