Trail Of Dead

Trail Of Dead

Codici alt-rock per il nuovo millennio

La parabola della band texana guidata da Jason Reece e Conrad Keely: dagli esordi post-hardcore ai trionfi di “Source, Tags & Codes”, alle derive alt-pop e neo-prog, sino al ritorno lungo la strada maestra. Una delle formazioni di riferimento del panorama alternative rock americano, una delle poche in grado di ridisegnare un’estetica

di Claudio Lancia

Le origini

Nella scena indipendente americana del nuovo millennio …And You Will Know Us By The Trail Of Dead hanno diritto senz’altro a un posto di primissimo piano, in particolar modo per la centralità che ebbe Source, Tags & Codes, uno di quei dischi che fece percepire al mondo quanto il modo di promuovere la musica stesse mutando. In una dimensione sempre più globalizzata, un rating altissimo da parte di uno dei mezzi d’informazione più autorevoli in campo musicale, può decretare la fortuna di una band. Accadde così che, dopo aver ricevuto un tanto clamoroso quanto meritato 10.0 da Pitchfork, la bibbia della scena indie contemporanea, “Source” entrò nelle case di tantissime persone, ricevendo apprezzamenti più che lusinghieri e divenendo uno dei dischi di riferimento dell’intera decade.
Ma facciamo un passo indietro, perché i Trail Of Dead non erano certo all’esordio.
La band sbocciò grazie all’amicizia fra Jason Reece e e Conrad Keely, due cantanti polistrumentisti che dopo varie peripezie fra Hawaii e Olympia (stato di Washington) si stabilirono ad Austin, Texas, dove venne battezzato il primo nucleo della band, assieme a Kevin Allen e Neil Busch. Da lì in poi i cambi di line-up si susseguiranno continuamente, ma Reece e Keely resteranno sempre saldamente gli elementi guida della formazione.
Dopo un paio di cassette fatte circolare ad arte (all’epoca si usava ancora così), nel 1998 arrivò l’esordio ufficiale con l’album omonimo.

Benvenuti nel Post-Hardcore: i capolavori

And You Will Know Us By The Trail Of Dead
, selvaggio e diretto, conteneva già molti germi del futuro sound della formazione. Qualche perdonabile piccola ingenuità era compensata dalla forza di brani straordinari quali l’avvincente post-rock di “Novena Without Faith”, l’hardcore evoluto di “Fake Fake Eyes”, il vortice sonico di “Prince With A Thousand Enemies” ed il primo manifesto del quartetto: “Richter Scale Madness”, che mostrò subito tutte le potenzialità di Reece, Keely e soci.
Il disco inaugurò una serie di bellissime copertine dalla grafica curatissima che caratterizzeranno tutte le emissioni della band texana.

Un anno più tardi arrivò il primo capolavoro dei Trail Of Dead, quel Madonna che iniziò a far parlare di loro in maniera più diffusa. Pubblicato per la Merge Records, recuperava alcune delle composizioni che circolarono a inizio carriera soltanto su cassetta, aggiungendo nuovi pezzi a dir poco clamorosi. Brani come “Mistakes &Regrets”, “Totally Natural”, “Blight Takes All” e “A Perfect Teenhood” definirono l’estetica musicale della band, posizionando I Trail Of Dead all’esatto crocevia fra Sonic Youth e Motorpsycho.
Un disco arrivato al momento giusto, proprio mentre i Sonic Youth vedevano affievolire la propria forza iconoclasta e i norvegesi esploravano nuove direzioni sonore, spaziando dal pop al jazz, al country, fino alla psichedelia cosmica.
Madonna andò a colmare un vuoto in quella nicchia di alt-rock declinata al noise, mantenendo però la giusta attenzione per le linee melodiche, ben presenti sotto la coltre di arrembaggi sonici e muri di feedback.
Il nucleo centrale dell’album è costituito da “Aged Dolls”, formidabile dichiarazione d’intenti in poco più di sette minuti pressoché perfetti che vanno a costituire una sorta di piccola sinfonia sonica. L’intarsio è completato dalle più armoniche (ma pur sempre oblique) “Clair de Lune” e “Mark David Chapman”.

La Interscope intuì l’immenso potenziale del gruppo, e lo mise sotto contratto: il passaggio si concretizzò dapprima nell’Ep Relative Ways, e qualche mese più tardi con quello che secondo molti è considerato il capolavoro assoluto della band, Source, Tags & Codes, pubblicato a febbraio del 2002.
Attacchi al fulmicotone, riff aggressivi, un paio di pezzi più ammalianti, un disco pressoché perfetto che disegnò un nuovo standard di riferimento all’interno del circuito indie. Lo spettro sonoro si ampliò a dismisura in un lavoro che risultò compiuto in ogni sua parte, sia negli aspetti più abrasivi, sia in quelli più relativamente melodici, che riescono a emergere dalla coltre di amplificatori suonati a tutto spiano.
Pitchfork, la bibbia della nuova scena alternativa, il 28 febbraio del 2002 premiò il disco con un inconfutabile 10.0, il rating massimo possibile, evento che scatenò la curiosità del popolo indie di tutto il mondo, il quale riconobbe l’immenso valore del disco. Fu un evento che sancì definitivamente l’importanza delle webzine, strumenti oramai irrinunciabili per contribuire a decretare il successo di una band nel nuovo millennio.
L’album si affermò come  uno dei più importanti della scena alt-rock mondiale del primo scorcio di millennio: un’intrigante esplorazione fra ciò che resta del post-hardcore e certi slanci psichedelici, ben rappresentati dall’iniziale “It Was There That I Saw You”. Furia ed epicità miscelate come a pochi altri è riuscito, con un songwriting che divenne sempre più complesso e variegato.
I furiosi incipit di “Homage”, “Baudelaire” e “Days Of Being Wild” si alternano alla grandeur chitarristica di “How Near, How Far”, “Relative Ways” e “Source, Tags & Codes”, seguita dagli archi che chiudono un disco composto da ”canzoni intense ed incredibili, arrangiate perfettamente e suonate con capacità e passione. Un disco che vi entrerà dentro e vi rispedirà al mittente con un contemporaneo senso di perdita e speranza. E non sarete mai più gli stessi” (citazione da Pitchfork).

All’interno di "Source" iniziava un lavoro di smussamento degli angoli che risultò ancora più palese nel mirabile Ep The Secret Of Elena’s Tomb, pubblicato sulla scia di quel successo. Cinque tracce imperdibili che fecero la gioia dei fan del gruppo, con dentro anche qualche tentativo di esperimento in direzione elettronica.
Se “Mach Shau” e “All Saints Day”, confermavano la linea musicale della band, la meravigliosa “Crowning Of A Heart” e l’acustica “Counting Off The Days” contribuivano non poco ad addolcirla, e “Intelligence” portava in dotazione degli elementi elettronici che diversificavano la proposta, ma che non ebbero un seguito importante nella discografia del gruppo.

Svolte Pop & Prog: un lungo periodo di tranzizione

Il 25 gennaio del 2005 arrivò nei negozi il successore di "Source", Worlds Apart, che proseguì l’opera di smussamento degli angoli intrapresa con il predecessore, un lavoro che, pur rispettabilissimo, non riuscì tuttavia ad assestarsi su quei livelli.
Worlds Apart allontanò definitivamente i Trail Of Dead dal post-hardcore (l’omicidio rappresentato nell’”Overture”?) , per indirizzarsi verso situazioni mediamente più fruibili, arrivando a strizzare l’occhiolino al britpop (“Let It Dive” è puro Oasis-style) o ricercando soluzioni easy attraverso “Worlds Apart” o "And The Rest Will Follow".
La qualità delle registrazioni risultò decisamente migliorate, gli arrangiamenti curatissimi in tutti i minimi particolari, eppure regnava come una sensazione di incompiutezza, con quegli intermezzi snervanti portati un po’ troppo per le lunghe (“The Best”, “Will You Smile Again?”, che però ha un attacco poderoso.
La traccia-manifesto da tramandare ai nipoti è senz’altro "Caterwaul": un attacco degno di "Immigrant Song", chitarre che rimandano agli Smashing Pumpkins dell'ultimo periodo, un break col piano che introduce un finale epico. Echi beatlesiani sono presenti in “Summer 91”, tutta giocata sul piano, mentre i Pink Floyd sono i più evidenti punti di riferimento di “All White” (la perfezione in meno di due minuti) e della parte centrale di “Classic Art Showcase”.
Le influenze si moltiplicano: "Russia My Homeland" è un intermezzo strumentale nel quale interviene per un breve cameo la violinista classica Hilary Hahn, la soffusa "City Of Refuge" è il sogno nascosto degli Air il congedo avviene invece su atmosfere indiane.

Prima della pubblicazione di Worlds Apart, Neil Busch venne sostituito al basso da Danny Wood e un secondo batterista (Doni Schroader) entrò nella line-up. Per rendere meglio dal vivo il suono più arricchito dei nuovi Trail Of Dead venne aggiunto il tastierista David Longoria, successivamente sostituito da Clay Morris. I Trail Of Dead nella formazione a sei divennero ancora più arrembanti nei propri live act.

A metà novembre 2006 So Divided proseguì il processo di normalizzazione del gruppo, finendo per spaccare definitivamente in due sia la critica che il pubblico. Lo smussamento degli angoli produsse suoni sempre più fruibili e accattivanti e meno dogmaticamente "noise".
So Divided è un album decisamente più zuccheroso del solito, attraverso il quale s’intende manifestare l’intenzione di ampliare lo spettro dell’offerta sonora, aprendosi a influenze inedite, come le percussioni afrocentriche di "Wasted State Of Mind", suonate dall’ospite Pat Mastelotto.
Scongiurate le ipotesi di scioglimento, che circolarono all’indomani dell’insuccesso di Worlds Apart, la band doede alle stampe il proprio disco più solare, mantenendo però intatta la carica epica e l’ambizione per la ricerca di suoni vitali. Ogni tanto emerge qualche eccesso di magniloquenza ed alcuni passaggi appaiono oggettivamente ridondanti, ma nel complesso il lavoro si presenta fresco, pur venendo a mancare gran parte della tensione del passato.
"Stand In Silence" è chiaramente ispirata dai Jane’s Addiction, mentre, la title track è puro brit pop à la Gallagher con una cavalcata elettrica centrale degna dei migliori Motorpsycho, "Life" è una giostra psichedelica ed "Eight Days Of Hell" la rappresentazione del circo beatlesiano elevato all’ennesima potenza ludica.
So Divided è anche il mezzo per tentare strade completamente nuove, come il blues elettrico di "Naked Sun", con tanto di spumeggianti fiati, e la melodiosa cover dei Guided By Voices "Gold Heart Mountain Top Queen Directory". Ma i momenti più scintillanti arrivano sul finale, con il pop-rock di "Witch’s Web" e "Sunken Dreams".
I Trail Of Dead con il controverso So Divided, si guadagnarono molte critiche ma dimostrano di saper suonare come nessun’altra band al mondo, caratterizzando il proprio suono in maniera personalissima, frullandoci dentro quarant’anni di storia della musica. Una band capace di produrre particolari sovrastrutturazioni sonore, anche attraverso elaborazioni orchestrali uniche nel proprio genere, arricchite da una propensione al ritornello orecchiabile che li rende potenzialmente accessibili al grande pubblico.

Il successivo The Century Of Self sancì la rottura con la Interscope e il passaggio a una situazione autoprodotta. Fu il disco più spiccatamente prog della band, con tutti i corollari positivi e negativi che ne possono derivare. Tale approccio amplificò i consueti punti di debolezza, individuabili in qualche lungaggine di troppo ed in alcune pause esasperanti che sovente rallentano a dismisura la fluidità delle architetture sonore.
E questa volta c’è da aggiungere certa magniloquenza estrinsecata in barocchismi strumentali che solo dinosauri del calibro di Yes e Gentle Giant si sognerebbero di continuare a proporre.
Quando lavorano di cesello ottengono i risultati migliori, questa volta accade con i brani più tranquilli del lotto (il caso scuola è “Luna Park”), come dire che non si vince sempre urlando e alzando i volumi degli amplificatori.
Puntualizzate le opportune riserve, c’è da dire che anche con The Century Of Self la band si conferma come una delle realtà più musicalmente ricche del uovo millennio, forte di una perizia tecnica e di un flusso magmatico di idee difficile da contenere in forme che canonicamente si suole definire “canzone”.
L’approccio a metà strada fra sonicità (a volte anche violenta) e reminescenze prog, che caratterizzò i Trail Of Dead di mezzo, li rende unici nel panorama rock contemporaneo, anche se a conti fatti qui le tracce più belle paiono quelle già note (“Bells Of Creation” e “Inland Sea”) per essere state edite sull’Ep Festival Thyme pubblicato il dicembre precedente come gustosa anticipazione dell’album.
Gli oltre sei minuti di “Isis Unveiled” o “Halcyon Days”, pesano un po’ troppo nell’economia generale del disco: pur conservando al proprio interno spunti di notevole interesse, paiono confusionarie e fuori fuoco.

Tutti coloro che avevano rivisto al ribasso le proprie aspettative sulla band iniziarono a ricredersi col disco che intendeva  rimetterli in carreggiata: Tao Of The Dead. La formazione venne ridotta e tornò a quattro, con Reece e Keely unici membri originali superstiti.
Quello dei Trail Of Dead si conferma progetto alt-rock importante e ambizioso, sporcato dalle solite venature prog, stavolta non particolarmente invadenti, e relegate nel polpettone finale di oltre sedici minuti "Strange News From Another Planet".
Dal lato opposto del disco si parte con l'arrembante "Pure Radio Cosplay", un ibrido garage di rara efficacia che si posiziona a metà strada fra Rolling Stones e Oasis. Al solito, i Trail Of Dead manifestano un'innata capacità di maneggiare suoni e situazioni diverse, pronti a mediare magniloquenza e punk attitude, come nel caso di "Summer Of All Dead Souls".
Ma è dall'esplorazione della parte centrale, dalla quarta alla decima traccia, che si colgono i frutti più prelibati. Trattasi di una sequenza snella, tra le più fruibili da loro mai realizzate, per di più con (finalmente) l'ormai insperato frutto della sintesi, tanto che in questo segmento dell'album si resta praticamente sempre sotto la soglia dei tre minuti a canzone.
Composizioni apparentemente rilassanti, ma ricche di tensione che vibra sotto pelle, pronte a slanciarsi in frammenti nervosi, se non addirittura sonici, strutturate in modo da tuffarsi una nell'altra, andando a comporre una sequenza ininterrotta, per fortuna senza quei fronzoli o quelle inutili pause che costituirono la maggiore pecca degli album precedenti.
Tao Of The Dead prende le sembianze di un concept moderno, con il raga psichedelico "The Fairlight Pendant" a fungere da ponte per introdurre i fatidici sedici minuti della seconda parte dell’album “Strange News From Another Planet”, brano finale composto da cinque movimenti.
Gli ultimi slanci neo prog prima di tornare verso gli aromi primordiali.

Il ritorno alle origini

Il cammino virtuoso dei Trail Of Dead prosegue con Lost Songs, pubblicato a ottobre del 2012 e acclamato da molti come uno dei migliori lavori alt-rock dell’anno.
A dieci anni da quel 10.0 assegnato da Pitchfork che ne decretò la fama mondiale nel circuito underground, i Trail Of Dead sfornano il progetto più convincente e trascinante da quei tempi.
Messe al bando certe lungaggini di troppo e taluni vuoti che facevano perdere il tiro ad alcune recenti composizioni, questa volta vanno dritti al sodo, puntando dritti al nocciolo della questione senza perdersi in troppe chiacchiere, consegnando dodici tracce esplosive, con quegli attacchi furiosi che caratterizzarono i migliori momenti dei primi album.
Gli arrembaggi al fulmicotone delle prime tre tracce fanno mancare il fiato, e più avanti riaccade con “Catatonic” e “Bright Young Things”, ma è l’intera tracklist a filare dritta come un treno, tornando a lambire in alcuni momenti i confini con l’hardcore (“Up To Infinity”, che meraviglioso singolo!): una potenza di fuoco che oramai in pochi si aspettavano da questi signorotti di Austin.
Non mancano i momenti di provvisoria tranquillità a spezzare la furia per qualche attimo, come nel bridge strumentale di “Pinhole Cameras” o nella coda di “Flower Card Games”.
I Trail Of Dead colpiscono nel segno sia dal punto di vista prettamente musicale, asciugando le strutture e facendo guidare gli assalti sonori da chitarre aggressive, sia da quello meramente testuale, puntando su contenuti indignati, piuttosto politicizzati, talvolta perfino di aperta protesta (l’intero album è espressamente dedicato alle Pussy Riot). E anche quando i suoni declinano verso una maggiore fruibilità, la qualità resta su livelli altissimi, come nel caso della title track oppure della conclusiva “Time And Again”, che con le sue chitarrine alla Smiths e il mood più spensierato pare quasi staccata dal resto del contesto, come fosse una sorta di bonus track.
Lost Songs è un grandissimo disco, ben strutturato e senza battute a vuoto, suonato in maniera diretta e cantato ottimamente, con il quale i Trail Of Dead dimostrano di avere ancora stoffa e idee da vendere.

Trascorrono due anni e nei negozi arriva IX, il nono album, che conferma patrzialmente il ritorno alle origini del combo texano, anche se in maniera meno devastante, ricercando i giusti equilibri fra le diverse anime sonore della formazione guidata da Conrad Keely e Jason Reece. Dentro ci sono undici composizioni di buon livello, che alternano sfuriate al fulmicotone con slanci più rotondamente avvolgenti. E’ un menù già visto, che i Trail Of Dead sanno però ogni volta presentare in maniera sapiente, senza annoiare, affiancando (come consuetudine) elettricità e raffinatezze, sempre all’insegna dell’epicità e del pathos emozionale.
Non mancano i classici assalti frontali che caratterizzarono le opere migliori del gruppo, ed in tal senso il momento superlativo prende le sembianze di “A Million Random Digits”. Ma più che nelle manifestazioni alt-rock, sempre  potenti ma stavolta un po’ troppo “controllate” (le pur egregie iniziali “The Doomsday Book” e “Jaded Apostles”), gli episodi più intriganti arrivano in corrispondenza delle tracce dove è la melodia ad avere la meglio, come nella magistrale sequenza “Lie Without A Liar” / “The Ghost Within”, praticamente un brano diviso in due parti. Tutto il resto galleggia alla perfezione, e gira a meraviglia, con l’unica pecca rintracciabile nel fatto che dentro IX i Trail Of Dead non riescono a dire e a fare assolutamente nulla di nuovo, tendendo a ripetere pedissequamente sé stessi. Realizzano tutto benissimo, ma senza alcuno spunto che possa far gridare al miracolo. Se siete dei loro fan intransigenti, tutto sommato vi andrà benissimo anche così.

A gennaio 2016 Conrad Keely pubblica Original Machines, il proprio esordio solista: 24 tracce, quasi tutte piuttosto brevi, compresse nei 55 minuti di un lavoro obliquo, ricchissimo di influenze e stili, che riflette l’eclettica personalità del suo autore. Dalle melodie disturbate di “Your Tide Is Coming Out” al pop ultra brillante di “Engines Of The Dark”, “Original Machines” è un caleidoscopio di suoni e colori, lontano tanto dal post-hardcore quanto dalle derive prog che hanno caratterizzato molti frangenti del percorso artistico della band madre. Fra i momenti più riusciti spiccano  l’alt-pop ben confezionato di “Out On The Road”, la ballad “All That’s Left Is Land”, gli inserti shoegaze di “Inside The Cave”, l’epicità di “Nothing That I Meant”, le trame sintetiche di “Lost The Flow”.
In un paio di momenti si riconosce la matrice dei Trail Of Dead (“In Words Of A Not So Famous Man” e “Before The Swim”), ma velocemente Keely tende ad allontanarsene, con il probabile obiettivo di rendere il prodotto finale il più possibile personale. Original Machines, occorre dirlo, non è privo di momenti oggettivamente prescindibili (la bruttina “Spotlight On The Victor”, l’inutile synth-pop della title track), in alcuni casi trattasi di veri e propri bozzetti (“Marcel Was Here” è un divertissement di appena 34 secondi) che con tutta probabilità giacevano da anni nei cassetti di casa Keely in attesa di una confortevole collocazione. Qualcosa stona, ma ce ne fossero di simili rimanenze di magazzino in giro per i polverosi archivi di certe star…

Tempi pandemici

Conrad Keely si trasferisce per qualche tempo in Cambogia, e ci vorranno oltre cinque anni per un nuovo album dei Trail Of Dead, annunciato per il 17 gennaio del 2020 con il titolo X: The Godless Void And Other Stories. L’irruenza degli esordi risulta edulcorata dall’età, ma la band di Austin dimostra di saper ancora costruire sprazzi di rabbia micidiale in “Into The Godless Void”, che ben s’incastra col brit pop attualizzato di “Don’t Look Down” (i primi due brani diffusi, nonchè i migliori del lotto), l’altro lato della medaglia di ciò che i Trail Of Dead ora sanno far meglio. Assalti sonori, ma anche momenti di (relativamente) placida ricerca introspettiva (“Something Like This” si chiude con un violino che richiama sentori di gloriosa “americana”).
Resta immutato un certo gusto per la magniloquenza, ben espresso sin dall’iniziale “The Opening crescendo”, titolo che non ha certo bisogno di spiegazioni, e dalla successiva “All Who Wonder”. Ma “X” offre anche momenti piacevolmente insoliti, come l’atmosferica (almeno per metà) “Gone”, o lo speaking Morrison style di “Who Haunts The Haunter”, che rendono il percorso meno prevedibile del consueto. Anche se la seconda parte del disco non mantiene le promesse della prima metà, la band evita quelle lungaggini che appesantirono l’ingombrante periodo prog. I fan della prima ora potranno quindi riavvicinarsi con fiducia al nuovo rassicurante percorso dei Trail Of Dead.

Dopo la pausa forzata imposta dalla pandemia i Trail Of Dead tornano a luglio del 2022 con XI: Bleed Here Now. Si bada al sodo, senza le fastidiose lungaggini neo-progressive che troppo spesso hanno appesantito i loro progetti, ma si smarrisce quasi definitivamente la componente post-hardcore (ne resta una blanda versione edulcorata giusto in “Kill Everyone”) che li aveva imposti all’attenzione a inizio carriera. Questa volta i Trail Of Dead si muovono dal brillante alt-pop di “Field Song” agli istinti classic-rock di “No Confidence” e “Water Tower”, dalle cavalcate in odore di prog “Golden Sail”, “Taken By The Hand” e “Protest Streets” ai frangenti iper melodici di “Contra Mundum”, della sontuosa “Millennium Actress” e di “English Magic”, passando attraverso brevi intermezzi strumentali che legano fra loro le tracce, fra i quali le sinfoniche “String Theme” e “Darkness Into Light”.
Bleed Here Now è un caleidoscopio immerso in un brodo psichedelico, nel quale i Trail Of Dead centrifugano gran parte degli stili frequentati nel corso della propria carriera, un riassunto attualizzato ai nostri giorni, nel quale vengono accolti due ospiti di fama internazionale: Amanda Palmer dei Dresden Dolls e Britt Daniel degli Spoon. In copertina Conrad Keely e Jason Reece ci tengono a specificare che tutto è stato registrato con tecnica quadrifonica; con loro questa volta hanno suonato John Dowey (chitarre), AJ Vincent (tastiere), Alec Padron (basso) e Ben Redman (batteria, più ulteriori linee di chitarra).

Trail Of Dead

Discografia

...AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD
...And You Will Know Us By The Trail Of Dead (Trance Syndicate, 1998)

7

Madonna (Merge, 1999)

8

Relative Ways(EP, Interscope, 2001)

6

Source Tags & Codes (Interscope, 2002)

9

The Secret Of Elena's Tomb(EP,Interscope, 2003)

7

Worlds Apart (Interscope, 2005)

7

So Divided (Interscope, 2006)

7

Festival Thyme(Ep, Richter Scale, 2008)6
The Century Of Self (Richter Scale, 2009)

6,5

Tao Of The Dead (Richter Scale, 2011)

7

Lost Songs (Richter Scale, 2012)

8

IX(Richter Scale, 2014)

6,5

X: The Godless Void And Other Stories (Inside Out, 2020)6,5
XI: Bleed Here Now (Indside Out, 2022)
7
CONRAD KEELY
Original Machines (Superball, 2016)6,5
Pietra miliare
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