Boduf Songs

Boduf Songs

Il sussurro di un demone solitario

Il cantautore inglese Mat Sweet rappresenta una delle migliori tra le coeve produzioni di minimalismo dai toni sommessi, oscuri e avvolgenti, nel suo caso originati da non altro che da una sensibilità artistica tradotta in uno scarno songwriting e in ambientazioni sonore spoglie, ridotte all'essenzialità di una chitarra acustica, appena supportata da campionamenti o drone in lontananza

di Alessandro Biancalana, Raffaello Russo

Schivo artista di Southampton, Mat Sweet non è semplicemente l'ennesimo affiliato al filone dei cantautori tristi e depressivi, né tanto meno il risultato di un'estetica musicale lo-fi studiata o costruita a tavolino, di quelle che negli ultimi anni riscuotono frequenti successi. Con il suo alter-ego Boduf Songs, dalla metà degli anni Duemila, Sweet rappresenta piuttosto una delle migliori tra le coeve produzioni di minimalismo dai toni sommessi, oscuri e avvolgenti, nel suo caso originati da non altro che da una sensibilità artistica tradotta in uno scarno songwriting e in ambientazioni sonore spoglie, ridotte all'essenzialità di una chitarra acustica, appena supportata da campionamenti o drone in lontananza.
Solitario e misterioso, per l'iniziale assenza di fotografie e informazioni biografiche, l'artista inglese si dimostra fin da subito assai ambizioso, visto che, da perfetto sconosciuto, invia il proprio primo demo a un'etichetta di grande tradizione quale la Kranky di Chicago. I nove bozzetti sonori in esso raccolti impressionano a tal punto i responsabili dell'etichetta da essere, di lì a poco, fedelmente tradotti nell'omonimo album di debutto, senza alcuna modifica, produzione o reincisione.
L'immediatezza lo-fi da "musica da cameretta" traspare tutta nella mezz'ora scarsa di durata di Boduf Songs, così come anche si intravede attraverso essa l'ambientazione nella quale l'album è stato creato, nell'intimo isolamento di un autore alle prese con la sua ispirazione e i pochi mezzi tecnici a disposizione, al riparo dal fin troppo banalmente immaginabile paesaggio grigio del sud dell'Inghilterra, tra alberi spogli battuti dal vento e una natura dai contorni aspri ma sublimi al tempo stesso. Gli stessi contorni presenta infatti la musica di Sweet, sospesa tra un approccio cantautorale degno del Kozelek più depresso e l'attitudine concettuale a un'asciutta psichedelia rurale, che intreccia oscure componenti elettroniche all'acusticità più cristallina, in ciò conseguendo un risultato di uno spessore forse mai più raggiunto dall'epoca di "Further" dei Flying Saucer Attack.


Lo scorrere del disco descrive un itinerario in una foresta maledetta, dall'atmosfera sempre più oscura e morbosa, incorniciata dalle note di una chitarra spartana, il cui puntiglioso incedere che sa di dolore e inquietudine, mentre un'elettronica tagliente sfigura i rari interludi di apparente dolcezza armonica.
Il viaggio di estenuante malinconia inizia con la toccante "Puke A Pitch Black Rainbow To": una nota di piano alimenta le ombre, una voce malandata sussurra la sua poesia, gelide folate elettroniche procurano un dolore persistente e piacevole al contempo.
La successiva "Claimant Reclaimed" è un ulteriore passo negli inferi, con un accordo di chitarra frenetico e incessante che viene ripetuto in maniera pedissequa, alternato con cambi di tono e con un lacerante strappo elettronico. Non mancano, tuttavia, intermezzi vagamente ambientali ("Our Canon Of Transportation") e stranianti mantra folk che disegnano un cielo color pece ("This One Is Cursed"). Mentre lo slow-folk di Sweet assume contorni più netti nelle timbriche mistiche di "Lost In Forests" e "Grains", piccoli squarci di luce e linearità melodica, seppure percorsi da prolungati silenzi, incursioni di drone e ondeggiamenti di un suono ferroso, stridente e completamente aritmico.
Boduf Songs non è un disco per animi felici, è un oblio di oscurità, fatto di litanie biascicate, indolenti arpeggi acustici e abrasive dissonanze; un'opera che sa di male e dolore, la narrazione di un universo intimo fantastico e misterioso, attraverso suoni che sanno essere delicati e sinuosi, ma più spesso scostanti e impervi.

Tra i tempi di invio del demo e quelli necessari alla pubblicazione ufficiale, Mat Sweet getta le basi per dare immediato seguito alla ruvidità casalinga del suo debutto. Avviene così che il seguente Lion Devours The Sun venga realizzato ad appena un anno di distanza dal primo album, alla pari del quale raccoglie nove brani ridotti all'osso, costruiti sull'iterazione di pochi, semplici accordi di chitarra, immersi in paesaggi sonori angoscianti, sospesi tra desolazione metropolitana e ascesi isolazionista. La voce di Sweet resta tenebrosa, pur protendendosi pervicacemente alla ricerca di esitanti melodie, in grado di bilanciare almeno in parte l'oscura inquietudine che ammanta tutto il lento fluire dell'album. Il risultato è ancora una volta un'apparente immobilità, che avvolge composizioni esili, di spietata introspezione, nelle quali un timido raggio di sole si affaccia a volte soltanto per enfatizzare il contrasto con un'invariabile malinconia, quasi mai peraltro sfociante in cupezza opprimente.

La discesa nella nuova spirale oscura di Lion Devours The Sun inizia con i battiti in lontananza e gli arpeggi ossessivi che introducono "Lord Of The Flies", sinistra ballata circolare nella quale la voce di Sweet, ridotta a poco di un sussurro, materializza da subito fantasmi e inquietanti visioni ("around your heart, dark wings beat") di una realtà marcia, generata da "seeds of death, lost, disease", mentre quasi incuranti scorrono limpide le poche note di una chitarra dall'austero sapore folk, unico e costante contraltare alle brumose atmosfere di tutto l'album. Qualora il mood non fosse già ben esplicato, "Two Across The South" provvede ad allargarne lo spettro musicale, introducendovi un incipit di distorsione ambientale sul quale si innestano sensazioni di sconfortato fatalismo (il primo e l'ultimo verso del brano sono: "I built a house from my mistakes"), mentre gli scheletrici arrangiamenti di "That Angel Was Pretty Lame" delineano flebili richiami alla scena dark-folk (in primis Current 93) attraverso metallici field recording e smembrati clangori. Elementi che si inglobano l'uno nell'altro e si ibridano progressivamente, esplodono, implodono, si strascicano per sei minuti abbondanti di estasi misteriosa.

Nel corso del lavoro i ritmi di esecuzione rallentano ulteriormente, che tuttavia non concedono un attimo di distensione, né un frangente in cui si manifesta una parvenza melodica; soltanto lentezza, timbri, o per meglio dire, sussurri, aneliti, schizzi di un quadro incompleto o semplicemente incompreso, che descrive la sofferenza che porta alla redenzione attraverso corposi drone e lamenti digitali ("Please Ache For Redemptive"). La conclusione spetta alla composizione più lunga e coraggiosa, "Bell For Harness": quasi dieci minuti di note cadenzate con estenuante calma, un'apparente pace compositiva, falcidiata dalla voce, un anelito incombente e continuo, progressivo, sempre in procinto di esplodere ma mai capace di concedersi. È questa la testimonianza estrema e tangibile di come nella fosca visione di Mat Sweet la speranza non sia contemplata e nemmeno necessaria, dispersa tra il compassato scorrere del brano e l'indolente, rassegnato mantra "is your last lonely drive?".
Opera dalle tonalità mutanti e paurose, eppure dense di un aspro calore umano, nella sua totale assenza di edulcorazione, Lion Devours The Sun offre una coerente testimonianza della schietta vitalità di Mat Sweet e della sua graduale crescita in termini di fluidità espressiva, verso il superamento del mero guscio lo-fi in favore di una scrittura, senza rinunciare alle fosche ambientazioni dell'esordio, le sviluppa secondo un'inquieta dimensione comunicativa.

L'itinerario artistico di Boduf Songs sembra dunque indirizzato verso una matura evoluzione in termini di cantautorato isolazionista, caratterizzato da atmosfere angosciose e stranianti, benché tendenzialmente più "pulite". L'ulteriore passo in questa direzione arriva a distanza di due anni, quando Mat Sweet torna a trasmettere dispacci sonori dalla sua solitaria dimora nella countryside più profonda, nel terzo lavoro How Shadows Chase The Balance.
La sensazione di isolamento è anzi accentuata, poiché per la realizzazione del disco Mat Sweet ha prediletto le ore notturne, con il dichiarato intento di ridurre al minimo i rumori di fondo delle registrazioni e con quello, consequenziale, di farsi circondare da un contesto ancor più intimo e raccolto, il cui silenzio riempire soltanto con compassate spirali acustiche e con il suo cantato tenebroso.

Tali presupposti generano, non a caso, un album dalle strutture, se possibile, ancora più scarnificate del solito, che vede Mat Sweet rielaborare gli elementi essenziali della sua musica, giustapponendoli per enfatizzarne i tratti più aspri, ora portati in primo piano, ora compressi per lasciare spazio a un'inedita indole melodica. Accanto alle abituali litanie al rallentatore, che introducono in una tetra temperie onirica, How Shadows Chase The Balance denota una graduale evoluzione verso una serie di approdi possibili. Le scarne componenti folk della musica di Boduf Songs si colorano, da un lato, di più lievi accenti acustici, che fanno capolino in vere e proprie canzoni dalla chitarra pulita e dalle melodie meglio delineate ("I Can't See A Thing In Here", "A Spirit Harness", "Last Glimmer On A Hill At Dusk"), dall'altro perdono i propri caratteri originari, assumendo una dimensione ritualistica in composizioni incrementali, che sfociano in mantra spettrali ("Don't forget to fall apart/ don't forget to come undone"), mai così prossimi a depressive sfumature gotiche.
Anche a fronte della generale, accresciuta sensibilità melodica, permane tuttavia sempre la costante di uno spirito dolente, esacerbato da una componente lo-fi qui più pulita che in passato, ma sempre tale da aggiungere efficacia tagliente alla cupezza repressa che promana da tutti i brani. A essere in parte mutata non è allora tanto la sensazione di sofferenza autentica e solo parzialmente esternata, quanto invece l'espressione, più piana e melodica, resa in qualche misura meglio fruibile attraverso una temperata destrutturazione sonora e una maturata capacità di scrittura, che testimonia la compiuta transizione cantautorale dell'enigmatico artista inglese.

Reduce da un tour e - a quanto pare - anche dall'inizio di una relazione con Jessica Bailiff, Mat Sweet perviene al quarto album, restando fedele all'isolamento creativo e all'essenzialità della strumentazione dalla quale le sue sofferte composizioni e il suo humming sussurrato vengono originariamente catturate. Anche This Alone Above All Else In Spite Of Everything vede dunque la luce in maniera casalinga, con il solo ausilio tecnico di un microfono; ciononostante, risulta ben più complesso rispetto ai predecessori, non solo in quanto si colloca su una linea di progressivo affinamento sonoro in sede di post-produzione, ma soprattutto perché il percorso evolutivo dell'enigmatico artista inglese giunge al compimento di una sempre maggiore articolazione strumentale e varietà di registri espressivi.
Sfumature fosche e testi di aspra allucinazione trovano adesso il supporto di un songwriting più fluido e melodicamente coeso e, soprattutto, sono arricchiti da contesti sonori non più limitati alle elongazioni di note di chitarra e inserti elettronici, ma comprendenti decise incursioni elettriche, nonché pianoforte, elettronica e ritmiche.
E proprio con una spettrale composizione per piano e voce si apre This Alone Above All Else In Spite Of Everything; non si tratta tuttavia dell'introduzione a un lavoro di ovattato intimismo, poiché le prime brusche scosse arrivano già nella successiva "Decapitation Blues", la liquida quiete del cui incipit a base di gentili tocchi di vibrafono viene squarciata da un'impetuosa irruzione elettrica, che la scaglia in un vortice incandescente, percorso da schegge rumoriste.

Una lentezza esasperante prende corpo e si materializza con dolce insolenza (le gocce di mestizia in "Absolutely Null And Utterly Void", sette minuti di pura rarefazione per "The Giant Umbilical Cord That Connects Your Brain To The Centre"), mentre in altri frangenti si scoprono lati finora nascosti, come l'estensione timbrica e tonale della voce di Mat ("I Have Decided To Pass Through Matter") o strutture fortemente innovative, capaci di proporre una sorta di goth-rock allucinato (le splendide chitarre sulfuree di "They Get On Slowly").
Oltre alle piccole differenze già citate in precedenza, rispetto al passato si percepisce un suono della chitarra più puro, cristallino, meno lo-fi. Questo elemento aiuta a far emergere la bellezza di un fingerpicking ispirato, non virtuoso ma scheletrico, visivamente maturato e cristallino.
Anche in questo caso si tratta di opera di non faclissimo approccio, che richiede impegno e dedizione per essere fruita nelle sue tante sfumature; eppure, ancora una volta, lo sforzo profuso per immergersi nel mondo sonoro di Boduf Songs viene ripagato da sensazioni uniche, che confermano ogni impressione maturata durante i cinque anni trascorsi dal primo omonimo miracolo acustico, che diede l'abbrivio a un incanto che non cessa di turbare i nostri sogni.

Giunto al quinto album di una carriera sinora accudita con cura e dedizione da un'etichetta storica quale è la Kranky, il musicista di Southampton si trovava di fronte a una svolta decisiva. Complici il trasferimento di là dall'oceano per stare al fianco della compagna Jessica Bailiff e l'esigenza di nuovi veicoli espressivi per la sua musica, Burnt Up On Re-Entry (2013) segna il passaggio dall'etichetta di Chicago alla Southern di Londra (label che ha ospitato nomi quali le Babes In Toyland e i Karate di Geoff Farina), ma anche la compiuta transizione verso un sound irruento e aggressivo, mai espresso sinora con tale convinzione.
Chitarre rabbiose, turbolenti rumorismi e una discreta scorza rock erano già trapelati in altre circostanze, specie in occasione dello scorso This Alone Above All Else In Spite Of Everything, in cui la carica di elettricità si concedeva ben più di qualche estemporanea comparsata. L'approccio, al tempo comunque solo timidamente incoraggiato, per questa nuova fase nella carriera di Mat Sweet, viene portato alle estreme conseguenze: l'abrasiva chitarra elettrica che irrompe col suo taglio quasi metal nel bel mezzo di “Fiery The Angels Fell” non lascia nemmeno il tempo di dire “buongiorno” che già svela molte delle dinamiche del disco.
Il tono vocale, quello sì mai cambiato, rimane catatonico e mai sopra il poco più che sussurrato. Sweet, oltre ad iniettare la sua musica con massicce dosi di rock, gioca la carta della manipolazione elettronica a livello ritmico, ottenendo un risultato non dissimile a certo doom-folk di casa Southern Lord. Suoni e melodie non assumono più le vesti da folk pastorale drammatico come in passato: in “Burnt Up On Re-Entry” l'alienazione è sì totale ma assume toni più umani, si distende, lascia spazio a qualche luce. Nelle varie “Song To Keep Me Still” e “A Brilliant Shaft Of Light From Out Of The Night Sky” gli accordi di chitarra e il ritmo generale prendono così le sembianze di torch-song à-la Waits: non si tratta più di un lento discendere ma di una graduale e dolorosa ascensione.
Sono quindi piccole-grandi variazioni, quelle che entrano in gioco, per una formula assodata e difficilmente scardinabile: rimbrotti elettronici di spessore (synth e drum-machine per la tesa “Vermin, Rend Thy Garments”), addirittura una voce robotica in “Drexelius Sick Man Quarles Emblemes Closed Heaven”), concessioni alla vecchia maniera (“Everyone Will Let You Down In The End”, “Long Divider”) e la nuova vena rock che prende il sopravvento (le cavalcate elettriche di “Between The Palisades And The Firmament”).

In generale, pare comunque che Burnt Up On Re-Entry sia un album di passaggio, un qualcosa per cui Sweet ha lavorato molto ma che fatica ad avere una propria identità. Mai sotto la sufficienza a livello qualitativo, la nuova fatica dell'inglese segna elementi di cambiamento non ancora del tutto compiuti. Si spera in una definitiva svolta nel prossimo disco: la musica di Boduf Songs merita una consacrazione di largo respiro.

Contributi di Vassilios Karagiannis ("Burnt Up On Re-Entry")