Elvis Costello

Elvis Costello

L'impostore del rock'n'roll

Un rocker fuori tempo massimo. Con un look da Buddy Holly e una rabbia acida nelle vene. Trent'anni di carriera all'insegna delle metamorfosi. Dal punk alla Deutsche Grammophon, dal crooning pop alla riscoperta delle radici folk americane. E' una strana storia, quella di Declan Patrick MacManus, l'uomo che si scelse il nome del re del rock e si proclamò "impostore"

di Mauro Vecchio

Il fatto è che non sono mai stato un giovane incazzato, sono sempre stato un vecchio incazzato. Mi sono sempre sentito più vecchio e sono sempre sembrato più vecchio, quindi lo ero. Ci sono cose che riescono ancora a farmi molto incazzare e ho paura che, in questo caso, le mie reazioni non seguano esattamente la logica, né la calma o l’intelligenza. E’ un fottuto meccanismo che può portare alcuni alla violenza. Il fatto è che sono tutto d’un pezzo quindi non arrivo mai a provare odio e non permetto al vetriolo di sgorgare fuori. Al massimo, esprimo tutto il mio disgusto. Molti pensano di conoscermi, ma non è affatto così.
(Elvis Costello)

Intro
I’m not angry

Verso la fine degli anni Settanta.
E’ dura avere vent’anni se sei perennemente incazzato e aspetti la fine del mondo.
Il sarcasmo e il cinismo scorrono nelle tue vene nere. Telefoni alla tua ragazza solo per buttarla giù.
Le canzoni che si ascoltano in giro sono piene di rabbia e, spesso, non vanno al di là di tre accordi sparati, vomitati.
Tu sembri Buddy Holly e ti chiami come il re del rock and roll. Roba sorpassata.
Da piccolo apprezzavi “Song For Swinging Lovers”.
Ora tutto quello che sai è che non vuoi camminare per le vie di Chelsea. Molto punk.
Eppure ti piacciono Sinatra e le Supremes e i giochi di parole ti fanno cantautore raffinato.
Echi di Bob Dylan e Graham Parker nel 1977 inglese.
Forse già sai che ti darai al soul e al country.
Forse già sai che un certo Brodsky Quartet ti porterà a studiare armonie e composizione e che porterai Shakespeare nel camerismo novecentesco.
Oppure sai soltanto che ora hai vent’anni e sei incazzato. E non vuoi mettere piede a Chelsea.
In fondo, hai soltanto un nome strambo. Elvis Costello.

Aspettando la fine del mondo

Declan Patrick MacManus nasce il 25 agosto 1954 in un ospedale di Paddington, Londra.
Il piccolo è l’unico figlio di Ronald “Ross” MacManus, trombettiere, e di Lillian MacManus, proprietaria di un negozio di dischi.
Sette anni dopo, la coppia si trasferisce nel Middlesex e, mentre il ragazzino frequenta la Hounslow High School, decide di dividersi.
Declan, sedicenne, segue la madre a Liverpool dove supera gli esami di maturità.
Circondato dalle nuove melodie pop ricamate dai genitori, inizia ad appassionarsi alla voce di Sinatra e compra il suo primo disco, “Please, Please Me” dei Beatles.
Tra i suoi verginali, folgoranti incontri musicali c’è lo swing paterno della Joe Loss Orchestra e, più che i Jefferson Airplane, moltissimi dischi della Tamla Motown.
Dalla Motown alle prime composizioni, il passo non è poi così lungo.
Nel 1970 mette in piedi un duo folk – Rusty – con Allan Mayes, presentandosi anche sul palco davanti a un pubblico. E’ solo un gioco creativo perché, quattro anni dopo, Declan fa le valigie per sistemarsi a Stag Lane, Roehampton insieme ai due amici Mick Kent e Malcolm Dennis con i quali condivide una forte passione per Bob Dylan e Beach Boys.
I tre formano una band chiamata Flip City, ispirati dagli Schwarz del bassista-amico Nick Lowe. Il gruppo ottiene un discreto successo in ambito locale, arrivando a fare da supporter al pub-rock di Dr. Feelgood, ma, alla fine del 1975, si scioglie di comune accordo.
E’ questo il momento in cui si fa chiamare, per la prima volta, DP Costello (dal cognome della nonna paterna), iniziando a esibirsi come musicista solista. I soldi, tuttavia, scarseggiano e, dovendo badare a moglie e figlioletto, Declan lavora come operatore informatico presso Elizabeth Arden.
In Wales Farm Road tira avanti, così, un ragazzo inquieto che, durante le pause, scarabocchia le sue strambe idee per l’unica cosa che realmente desidera, una carriera musicale.
Costello imbraccia, coraggioso, la chitarra acustica e registra un demo che spedisce ad alcune case discografiche. Nessuna risposta. Persino piccole performance dal vivo non riescono ad attirare l’attenzione. L’unico a notarlo è Charlie Gillett, conduttore radiofonico della Bbc, che decide addirittura di produrre a sue spese un primo album intitolato “DP Costello”.

Fine 1976. L’etichetta indipendente Stiff Records pubblica un annuncio, richiedendo demo inediti di artisti vogliosi di emergere. Declan Patrick non se lo fa ripetere due volte. Dave Robinson, manager di Graham Parker, ha appena ingaggiato Ian Dury e Nick Lowe, mentre Jack Riveria fiuta il talento del nuovo aspirante, acconsentendo a fargli da manager e spingendolo a un nome nuovo di zecca, sulla scia stellata del re del rock and roll.
E’ il primo vagito di Elvis Costello.
Il pigmalione della Stiff unisce il suo ragazzo occhialuto a una band californiana chiamata Clover (nota successivamente come Huey Lewis And The News), scaraventandoli nei London’s Pathway Studios sotto l’occhio vigile di Nick Lowe.
In fretta e furia viene, così, registrato il primo disco di Elvis Costello, anticipato dal singolo “Less Than Zero/Radio Sweetheart”. L’orecchiabilità schizoide del lato A, abbinata a uno swing gusto fifties, non dà i frutti sperati e mette in discussione l’uscita dell’album stesso. Elvis abbandona Elizabeth Arden, ma i soldi continuano a scarseggiare, sebbene i successivi singoli, “Alison” e “Red Shoes”, ottengano critiche più che positive.

27 maggio 1977. Al London’s Nashville, Elvis Costello tiene il suo primo concerto, come supporter dei Rumour. Il pubblico presente applaude l’esibizione e questo sembra bastare alla dubbiosa Stiff Records. A giugno, sul magazine Melody Maker, appare un annuncio dove si legge che la casa discografica è alla ricerca di una band di sostegno al musicista.
Il primo a rispondere è il batterista Pete Thomas (ex-Chili Willi And The Red Hot Peppers), seguito da Steve Nason, studente della Royal Academy Of Music, ma, soprattutto, brillante tastierista di appena diciassette anni. Il basso, infine, va a Bruce Thomas (ex Quiver).
E’ il luglio del 1977. Debuttano sul palco gli Attractions di Elvis Costello.

My Aim Is True (Stiff, 1977) flirta con la rabbia del ciclone punk, ma non consuma il rapporto a causa di una splendida nevrosi compositiva, intellettuale e ricercata. Mentre divampa l’anarchia nel regno, il nuovo Buddy Holly sembra una creatura ibrida, divisa interiormente tra il tam-tam di guerra di “Waiting For The End Of The World” e la Chicago sixties di “Blame It On Cain”.
La rabbia di Costello è quasi efferata, ma viene racchiusa in una sensibilità epilettica e frustrata, personificata dallo “angry young man” che scarica la sua sessualità mancata tra le armonie doo-wop di “No Dancing”.
I Clover sono session-men onesti, ma sicuramente aulici rispetto ai soliti tre accordi vomitati: ecco, così, toni nostalgici in chiave di swing come “Sneaky Feelings”. Elvis non sputa come Vicious e non corre per le strade come Strummer e Jones. “Less Than Zero” custodisce il suo tenero nervosismo elettrico che si trasforma, a piacere, nel martellare psicotico di “I’m Not Angry” o nella ballata per cuori spezzati, “Alison”. Il dramma d’amore si consuma in un silenzio graffiante, mentre sullo sfondo le parole che danno il titolo al disco vengono snocciolate con insolita tristezza.
Costello non riesce a stare fermo e l’attitudine punk si mostra in una prematura capacità di fregarsene degli schemi, saltellando tra i generi come in un vecchio negozio di dischi. Il veloce retrogusto rock and roll di “Mystery Dance” passa con disinvoltura a boogie-blues energici come “Pay It Back” e “Miracle Man”.
Tradizione punk, quindi, che accoglie un compositore straordinariamente grezzo nella sua versatilità, capace di bagnare di folk il rock gridato di “Red Shoes” o guidare un mellotron schizoide nel reggae di “Watching The Detectives”.

Non voglio andare a Chelsea

Elvis Costello & The AttractionsMy Aim Is True
ottiene buone recensioni, salendo nelle classifiche inglesi anche grazie al primo hit “Watching The Detectives”.
Costello ha fame di fama e, così, inizia a fare pressioni su Riveria per suonare, inaspettatamente, davanti ad alcuni manager della Cbs in visita a Londra. Il manager accetta l’idea che frutta un arresto, ma, alla fine, anche un contratto con la casa discografica americana.
Nell’ottobre del 1977, Elvis lascia la Stiff, formando, con Andrew Lauder, una nuova etichetta, la Radar Records. Il lavoro in studio con gli Attractions inizia qui, all’alba di un primo, atteso tour a stelle e strisce.
Due mesi più tardi, Costello blocca il suo gruppo durante una puntata del Saturday Night Live, dicendo al pubblico di fregarsene altamente del divieto, imposto dagli autori del programma, di suonare “Radio Radio”, nuovo brano incazzato contro gli Stati Uniti. Il musicista viene, così, escluso dalle liste future dello show, ottenendo, tuttavia, una grossa e gradita fetta di pubblicità.
Elvis matura un’aura da duro ribelle, divampata grazie alla decisione di non concedere alcuna intervista. “La mia vocazione definitiva nella vita è essere irritante. Non qualcuno di realmente distruttivo, solo una persona che dà fastidio, che disorienta. Qualcuno che spezzi il lento processo quotidiano della vita e riesca a farlo in modo tanto convincente da lasciare che qualche vittima pensi che, forse, esiste qualcosa di più della semplice monotonia dell’esistenza”.
Risultato: My Aim Is True entra nella Top 40 Usa e spiana la rotta commerciale al disco successivo, primo con gli Attractions.

Frutto di una produzione più attenta, This Year’s Model (Radar, 1978) è il decisivo scatto in avanti, intriso da un suono ossuto e nervoso, che aggiorna il glorioso beat anni 60 di Kinks e Rolling Stones.
Elvis Costello è sempre più incazzato e, munito di sarcasmo e grinta melodica, inizia la sua personale guerra contro tutto e tutti.
Gli Attractions sono musicisti veri e permettono alle miniature rock del leader di innalzare un fragoroso muro strumentale, ricamando – come in “The Beat” – tessiture di chitarre sparate e Farfisa da spiaggia californiana. A partire dal beat al fulmicotone di “No Action”, l’album dilaga in un nervosismo pop gusto sixties (“This Year’s Girl”), testimone di nuovi incubi psico-sessuali.
Il punk galoppa sulla gelosia metallica di “You Belong To Me”, ma si guarda indietro, scoprendosi proto-punk, quando a deflagrare è l’incendio di “Pump It Up”, vomito simile alla “Subterranean Homesick Blues” dylaniana. Costello lotta contro spettri di misoginia e insicurezza, ma, per vincere, ha bisogno della melodia tenera di “Little Triggers” e di ritornelli pop grintosi come quello di “Hand In Hand”. Viene, tuttavia, fuori un album schizoide, psicolabile, fatto di frantumi ritmici tenuti insieme da una band all’altezza della situazione. Le ripetizioni sprezzanti a tempo di twist di “(I Don’t Want To Go To) Chelsea” tengono, così, per mano, i rimbalzi gommosi di “Living In Paradise” e la marcetta notturna per organo di “Night Rally”.
Costello è, dunque, pronto a portare il suo personaggio kafkiano sul grande palcoscenico della new wave. La nuova crisi epilettica dylaniana di “Lipstick Vogue” e la forza ritmica della controversa “Radio Radio” sono gioielli deliranti di un ragazzo-musicista, futuro cantore del pop.

This Year’s Model accresce la fama di Elvis Costello, raggiungendo il quinto posto in Inghilterra e vendendo bene negli Stati Uniti, dove spopola il ritmo frenetico di “Pump It Up”.
Cavalcando prontamente l’onda del primo successo, i quattro partono, nella primavera-estate del 1978, per un lungo tour nordamericano.

Due cuori e una classifica

Los Angeles Hollywood High, 4 giugno 1978. Lo spettacolo di Elvis Costello & The Attractions è finito, dopo il solito fuoco di note. Tra il pubblico c’è una certa Bebe Buell, modella ventiquattrenne, meglio conosciuta come groupie assatanata nel mondo maschilista del rock and roll. Uno spinello placa la timidezza del ragazzo strano con gli occhiali ed è amore a prima vista.
La decisione è subito unanime: lui lascerà la moglie Mary, lei Todd Rundgren.
Al ritorno in Inghilterra, i due entrano nell’occhio del ciclone della stampa scandalistica, inseguiti praticamente ovunque. La storia è, dunque, pubblica, ma finisce improvvisamente e amaramente a causa di insicure gelosie e cavilli legali.
Depresso come pochi, Costello decide di buttarsi a capofitto nella sua musica, tornando in studio con gli Attractions per lavorare al terzo album. Mentre in patria il singolo “Radio Radio” entra nella Top 20, il gruppo riparte per una tournée prima in Australia e poi ancora negli Stati Uniti.

Ripieno di metafore e giochi di parole, Armed Forces (Radar, 1979) allarga il sound di Costello, proiettandolo verso un miscuglio di generi sempre più accattivante.
Ancora prodotto da Nick Lowe, l’album strizza l’occhio a tematiche socio-politiche, imbevute d’amore distrutto e disperato. I pomposi barocchismi strumentali di “Chemistry Class” sono la radiografia, così, di un musicista sensibile e intellettuale, che sta progressivamente perdendo la frenetica rabbia che fu. Importanti mutamenti, dunque, che partoriscono un disco in equilibrio perfetto sul filo di diverse anime sonore.
Costello ha ancora aggressività sarcastica da vendere, ma, per la prima volta, non la fa esplodere in ogni direzione. Cartucce nella fuciliera, il ritornello marziale di “Goon Squad” e il tetro sintetizzatore di “Big Boys”. La provocazione si trasforma in inno. “Two Little Hitlers” è la sua “Rebel Rebel” a tempo di reggae.
Il ritmo globale si espande, avvitandosi su nuove sperimentazioni anni 60. “Busy Bodies” richiama armonie à-la Beach Boys, mentre la psichedelia avvolge il valzer di “Sunday’s Best” e l’organetto rave di “Moods For Moderns”.
Nevrosi che accolgono, tuttavia, un dolce cuore pop, raffinato e mai melenso. Il tenero lato oscuro di Elvis Costello. “Accident Will Happen” è una cartolina rubata ad “Abbey Road”. “Oliver’s Army” è puro Tamla-soul. Gli Attractions accompagnano splendidamente le marcette funk (“Senior Service”) e il pop-rock più allegro (“(What’s So Funny ‘Bout) Peace Love And Understanding”).
Fino a “Party Girl”, secondo capolavoro cortese per la novella Alison, Bebe Buell, che sussurra echi beatlesiani sulle parole “potrei darti tutto, a parte il tempo”.
E il tempo sembra avere un piano ben preciso per Elvis Costello.

Le atmosfere poliedriche di Armed Forces riscuotono un grande successo commerciale, raggiungendo la Top 10 negli Stati Uniti e, con il singolo “Oliver’s Army”, il secondo posto nelle chart inglesi.
Nel corso del 1979, Costello e gli Attractions intraprendono una lunga tournée, infuocando Inghilterra, Europa e, ancora, Stati Uniti. Lo stress è evidente e, abbinato ai problemi sentimentali con la Buell, portano Elvis a bere più del solito.
All’Holiday Inn, in Ohio, Costello, completamente ubriaco, si scatena in una rissa con l’entourage di Stephen Stills che lo provoca sostenendo una netta superiorità dei musicisti americani su quelli inglesi. Elvis viene accusato da alcuni giornali di razzismo nei confronti degli artisti afro-americani (nonostante testi dichiaratamente anti-fascisti, come l’attacco ad Oswald Mosley di “Less Than Zero”) e, conseguentemente, costretto a scusarsi pubblicamente in conferenza stampa.
La parte americana del tour viene, così, interrotta, causando un generale e vistoso calo di stima, suggellato dalla promessa di non rimettere più piede sulla terra di Colombo.

La Columbia Records ci mette, poi, del suo, decidendo di non pubblicare il singolo “Peace, Love And Understanding” e, addirittura, di valutare un’ipotetica rescissione del contratto.
Riveria suggerisce a Costello di non rilasciare interviste, ma le riviste scandalistiche si scatenano ancora una volta dopo la storia con Bebe che, nel frattempo, decide di lasciarlo definitivamente per tornare con Todd Rundgren.
Travolto dal marasma mediatico, Elvis torna in Inghilterra dalla moglie Mary, ma, soprattutto, agli Eden Studios per registrare il quarto album. I nuovi arrangiamenti lo lasciano, tuttavia, insoddisfatto, costringendolo a tornare sui suoi passi alla ricerca provocatoria di un sound nero e multirazziale.

Con Get Happy!! (F-Beat, 1980), Costello lascia la sua identità di musicista incazzato con tutti per abbracciare una nuova veste, più morbida e orecchiabile. Per la prima volta, quindi, giochi di parole e testi veementi vengono dirottati al servizio di arrangiamenti più curati e attenti.
Il solito taglio di organo e chitarre accompagna “Black And White World” che cerca di fare il punto sulle infamanti accuse di razzismo da parte della stampa statunitense. Elvis, insomma, calca la mano su un disco di colore che omaggia generi di colore. Le armonie di “Love For Tender” sono il suo personale inchino alla Motown, rincarate dal minuetto soul di “Secondary Modern”.
E’ una chiave nostalgica che toglie la polvere a sonorità da soffitta dei ricordi per distribuire cartoline agèe come nei coretti di “High Fidelity” o sul beat sixties di “Beaten To The Punch”. Costello punta a una certa raffinatezza autoriale, mescolando nello shaker la danza beatlesiana di “New Amsterdam” e il funky-pop di “B-Movie”.
Continuamente ricamato dalle tastiere atmosferiche di Steve Nieve, l’album apre a ventaglio un’anima pop dal retrogusto sicuro. La frenesia è ancora viva in “Man Called Uncle”, ma sono piacevolezze melodiche come “Opportunity” e “Possession” a caratterizzare i veri intenti di Elvis.
Un fiume in piena di ritornelli suadenti che investe brani non sempre messi completamente a fuoco. Get Happy!! è un disco abbondante che, a tratti, suona un po’ confuso e dispersivo.
Le dissonanze ska di “The Imposter” si alternano all’orecchiabilità ripetitiva della cover di Sam & Dave, “I Can’t Stand Up For Falling Down”. La voglia di fare finisce con il trasformarsi in pericolo di strafare e, così, “Temptation” è una blanda imitazione di Booker T, bagnata di sole melodrammatico col reggae di “Human Touch”. Per fortuna Costello ha alle spalle un gruppo solido che gli permette di imbastire il funerale pop per tastiere di “Riot Act”, finale d’artificio di grande impatto.
Fine lavoro autoriale, dunque, ma disco più canonico rispetto alla rabbia schizoide fin qui vomitata.

Get Happy!! sfrutta la buona reputazione di Armed Forces ed entra nella Top Ten inglese, ma viene praticamente ignorato negli Stati Uniti, dove l’ostracismo nei confronti di Costello continua senza tregua.

La strada per Nashville

1980. Poco prima dell’inizio di un nuovo tour europeo, il tastierista Steve Nieve rimane ferito in un grave incidente d’auto. Costello lo sostituisce provvisoriamente con la seconda chitarra di Martin Belmont, cercando un sound più potente in stile David Bowie seventies. L’esperimento finisce nell’estate dello stesso anno quando gli Attractions tornano in formazione tipo e proseguono il giro in Canada.
La band decide di ritagliarsi uno spazio proprio, pubblicando l’album Mad About The Wrong Boy (Demon, 1980) che, tuttavia, viene accolto con scarso entusiasmo dagli addetti ai lavori.
Più tardi, a sorpresa, la Columbia americana decide di dare alle stampe un’antologia di rarità e b-side, Taking Liberties.
Il disco, ancora più a sorpresa, vende bene e, così, viene seguito dal suo equivalente inglese.

Ten Bloody Marys And Ten How’s Your Fathers (F-Beat, 1980) è la prima, intelligente antologia alla maniera di Elvis Costello. Non un semplice insieme di successi, quindi, ma un variegato microcosmo di brani inediti, rarità e lati B.
Dopo soli quattro album arriva, per Elvis, il momento di mettere un punto esclamativo ai suoi disegni mentali e sonori, percorrendo all’indietro stili diversi e influenze sparse. Un musicista in mutamento che cerca di legare tessere schizoidi di un mosaico sonico.
Alla base, così, del primissimo Costello c’è il beat, abrasivo in “Clean Money”, arso dal sole californiano in “Big Tears” (con Mick Jones alla chitarra). L’amore per “ragazzi della spiaggia” e “sergenti pepe” si concretizza nella psichedelia da marcetta di “Talking In The Dark”, resa fanfara in “Dr. Luther’s Assistant”. Le nevrosi epilettiche di un ragazzo dagli strani occhiali accompagnano il ciclone punk che travolge la velocità di “Crawling To The Usa” sulle note di un organetto psicopatico (“Wednesday Week”).
Costello, tuttavia, ha un profondo cuore nostalgico che gli permette di andare oltre. Le armonie pop di “Tiny Steps” si abbinano alle piacevolezze del country (“Stranger In The House”) e lacrimano nella versione del classico “My Funny Valentine”. Viene, così, fuori il figlio di Tin Pan Alley che compone canzoni per il solo gusto di farlo. Lo schizzo dylaniano di “Hoover Factory” e il crepitare soul di “Gettin’ Mighty Crowded”. Fino alla filastrocca di chiusura, “Ghost Train”.
Più di una semplice raccolta per capire il lato B di un musicista che si arrampica sulla scala dell’arte.
Poco dopo la pubblicazione di Ten Bloody Mary’s, Costello torna agli Eden Studios per registrare, insieme al fido Nick Lowe, un nuovo album di materiale originale. I due cercano, a questo punto, un sound diverso, mettendo in soffitta il sintetizzatore e aggiungendo occasionalmente l’altra chitarra di Belmont, ipotetico quinto Attraction.

In Trust (F-Beat, 1981), il volume strumentale si alza sensibilmente, lasciando più libero il piano di Steve Nieve. Costello registra un’ormai matura consapevolezza artistica, mettendo insieme due anime sonore apparentemente distanti. Il tribalismo à-la Bo Diddley di “Lovers Walk” e il rock and roll pulsante in “From A Whisper To A Scream” sono nuove vampate di un primigenio furore punk.
L’album insegue, dunque, la nevrotica spontaneità degli esordi, tra un veemente rockabilly (“Luxembourg”) e un carosello schizoide a tempo di beat (“Fish’N’Chip Paper”). Elvis, tuttavia, affina i suoi mezzi e pare trovare un gusto particolare nel duro mestiere di architetto del suono. Il ritmo beat si trasforma, così, in lamento accorato per pianoforte (“Clubland”), lasciando il passo ai barocchismi strumentali di “You’ll Never Be A Man” e alla cara ballata soul di “New Lace Sleeves”.
Più che nevrosi epilettiche, ad accogliere sono le ricercatezze salmodianti di “Different Finger” e filastrocche marziali come “White Knuckles”. L’organetto psicotico di “Pump It Up” finisce un corso di buone maniere e accompagna, fermo e classicheggiante, lo sprezzante spiritual di “Watch Your Step”.
Costello, insomma, ha voglia di eccellenza strumentale e raffinatezze da mastro del pop. La suite melodrammatica di “Shot With His Own Gun” rivela, alla fine, il senso d’evoluzione di Trust verso un’altra forma di vita.

Il nuovo album entra nelle classifiche inglesi, ma i due singoli (“Clubland” e “From A Whisper To A Scream”) si rivelano un flop, deludendo la popolarità delle scelte di Elvis.
Nel 1981 parte l’ “English Mud Tour”, acclamato giro degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Costello, tuttavia, è sempre più insoddisfatto del sua attuale ricerca musicale e, con un colpo di coda, decide di portare i suoi a Nashville per registrare alcune cover country con l’esperto produttore Billy Sherrill.

Almost Blue (F-Beat, 1981) è un fulmine a ciel sereno che sbatte un punk inglese, rachitico e antipatico, sulla strada maestra per Nashville, Tennessee.
Elvis Costello si lascia alle spalle nevrosi e ritmi schizoidi per divagare, mellifluo tra melodie e lamenti country. Una tristezza melensa che, in “Sweet Dreams”, appoggia il capo su maglie orchestrali e trame di pedal steel. Roba ottima per gente come Patsy Cline e Loretta Lynn. L’inglese che fa l’americano getta, così, la maschera, dichiarandosi visceralmente a Gram Parsons e alle sue pennellate raffinate e malinconiche (“I’m Your Toy” e “How Much I Lied”).
L’esperimento, all’alba del nuovo decennio, è decisamente coraggioso, intriso com’è dal romanticismo “bifolco” di “Brown To Blue” e da ballate enfatizzate come “Too Far Gone”. Costello illude con l’iniziale western and roll di “Why Don’t You Love Me”. “Good Year For The Roses” è un omaggio soave a Jerry Chesnut, armonizzato dal gruppo vocale dei Nashville Edition.
Il punk rachitico, così, gioca a fare il crooner di campagna, tenero sconfitto come nella giravolta melodica di “Sittin’ And Thinkin”, a metà strada tra Charlie Rich e Tom Waits.
Il tutto sembrerebbe anche frutto di una raffinata ricerca sonica, ma leziosità di troppo attendono l’album al varco, inesorabili. “Colour Of The Blues” è soltanto un gioco strumentale con il piano di Nieve che galoppa su un tipico barrelhouse in “Tonight The Bottle Let Me Down”. Spontaneità aliena, dunque, che balla sul walzer per saloon depresso di “Success” e si mescola al blues fifties nella “Honey Hush” di Big Joe Turner.
Costello porta alla conclusione, così, una monografia personale sul sound di Nashville, troppo “impura” per piacere ai puristi, troppo radicata per smuovere il culo agli anni 80.

La pubblicazione di Almost Blue divide gli animi.
Il primo singolo “A Good Year For The Roses” piace in Inghilterra e Australia che lo mandano subito in classifica. Gli Stati Uniti, contrariamente, storcono il naso: un inglese con gli occhiali non può suonare il country. La maggior parte della critica spara a zero sul disco e molti fan di vecchia data rimangono delusi dal cambio di rotta.
Costello decide, così, di prendersi un periodo di ozio creativo, producendo l’album "East Side Story" (A&M, 1981) degli Squeeze.

Una camera da letto imperiale

Elvis CostelloFine 1981. La mente musicale di Elvis Costello sembra, ormai, pronta a compiere il decisivo passo in avanti. Venti sono le tessere del nuovo puzzle, da mettere insieme con i fidi Attractions e con un nuovo fonico, tale Geoff Emerick, già al lavoro con una band chiamata Beatles. C’è una riunione da fare agli Air Studios di Londra perché, questa volta, il progetto è decisamente ambizioso. Lavorare sodo per almeno due mesi in un cottage in Cornovaglia.
Imperial Bedroom (F-Beat, 1982) è l’album che consacra la definitiva maturità artistica di Elvis Costello, in veste di autore ambizioso nel decennio che inizia la sua cavalcata.
Lontani, dunque, il country melenso e la schizofrenia anfetaminica. L’ex ragazzo occhialuto diventa songwriter autentico, raffinato, colto e imbastisce un pop sinfonico di elegante calligrafia.
Il sound acustico di “Pidgin English” si fregia di una ricchezza strumentale pomposa, erede delle più geniali regie produttive beatlesiane. L’ingegnere del suono Geoff Emerick aiuta Costello nella lenta e metodica costruzione di architetture che farebbero felici tutti i sergenti pepe del mondo, pronti a (ri)ascoltare brani come “…And In Every Home”.
Imperial Bedroom non è, tuttavia, soltanto un coraggioso omaggio ai fasti inglesi di un tempo, ma il frutto omogeneo di personali schizzi sonori, inzuppati nei mai prolissi arrangiamenti orchestrali di Steve Nieve. Orchestrale come il martellare di “Little Savage” o l’ariosità per piano di “Boy With A Problem”. Costello guarda ancora alla psichedelia (il valzer di “You Little Fool”) e alle vecchie filastrocche teatrali (“Human Hands”), ma corre in avanti nel suo cantautorato, a grandi passi. L’hammond dylaniano si fa maestoso in “Man Out Of Time” che, insieme alla liturgica preghiera soul per archi e fiati “Town Cryer”, è una delle sue migliori ballate. Una versatilità musicale che porta Elvis a passare con estrema naturalezza dalla giravolta pop di “The Loved Ones” ad atmosfere jazz afterhours anni 40 come “Almost Blue” e “Kid About It”.
La sua camera da letto mentale è come l’eterogenea soffitta sonica dell’album bianco: sembra che a comporre siano quattro persone diverse e invece è soltanto una. Conciliando il tango notturno di “The Long Honeymoon” e il ballo acido di “Shabby Doll”; l’ondeggiare romantico di “Tears Before Bedtime” e il cut-up per anime soul di “Beyond Belief”.
L’impostore del punk arriva al suo punto di non ritorno, creando il suo “Sgt. Pepper” o, a scelta, il suo “Pet Sounds”.

Imperial Bedroom viene accolto con fervore dagli addetti ai lavori, pronti a tirare fuori nomi più o meno ovvi come Beatles, George Martin, Burt Bacharach e Cole Porter. L’album, tuttavia, si trasforma in un fiasco di vendite, fallendo miseramente con i due singoli di punta “You Little Fool” e “Man Out Of Time”. Costello non sembra curarsene, avendo a cuore soltanto una nuova vita artistica al di là del successo commerciale.
Le nuove canzoni (oltre a gran parte di “Almost Blue”) trovano il giusto spazio intellettuale in due concerti londinesi con la Royal Philarmonic Orchestra. Successivamente, la band riparte in tour tra Inghilterra, Stati Uniti ed Australia e Greil Marcus di "Rolling Stone" pubblica un’intervista finalmente pacifica dal titolo “Elvis Costello si pente”.

L’estate del 1982 si rivela un periodo confuso. Costello pubblica un paio di cover su singolo (“From Head To Toe” di Smokey Robinson e “The Words Of Broken Hearts”, hit degli anni 60) e scrive l’orrenda “Party Party” per l’altrettanto orrendo, omonimo film di Terry Winsor.

Pressato dalle mancate vendite di Imperial Bedroom, Elvis decide di intraprendere una direzione più orecchiabile, realizzando il singolo populista “Pills And Soap” con lo pseudonimo di The Imposter. Il brano mette d’accordo tutti, critica e pubblico e anticipa l’uscita del nuovo album in studio.

Punch The Clock (F-Beat, 1983) inverte la visione magniloquente del predecessore per approdare su sponde pop decisamente più sicure. Costello arruola un ensemble di fiati – i TKO – con il preciso intento di salpare sulla rotta di un suono più commestibile, capace di saziare palati meno raffinati ed esigenti. Il soul Motown e il pop, così, vengono sapientemente mescolati, frullati e serviti nei bicchieri di “Let Them All Talk” e “Boxing Day”.
L’album è un microcosmo rilassato, allegro che mira all’orizzonte il brio sintetico di “Everyday I Write The Book”, marciando a ritmo di funky su “The Greatest Thing”. Pochi i rimandi alla metafisica orchestrale precedente, dispersi nel pop sixties di “The Element Within Her” e nello splendido lussureggiare jazz di “Shipbuilding” (in origine di Robert Wyatt), arricchito dallo spunto scenico di Chet Baker. Brani come “Love Went Mad” e “King Of Thieves”, tuttavia, corrono su andamenti pop artefatti, culminanti nei fiati scanzonati della conclusiva “The World And His Wife”.
Costello sembra diviso tra tentazioni disilluse e richiami ammalianti di sirene compiaciute. Il pulsare annoiato del basso di “Charm School” contro la sarabanda pop di “Mouth Almighty”. L’oscura tensione del singolo “Pills And Soap” contro il teatro melodico di “The Invisible Man”.
Confusione di fondo? Svendita intelligente?

I brani rilassati di Punch The Clock, prodotti da Clive Langer e Alan Winstanley, funzionano molto bene in radio. La macchietta sonora di “Everyday I Write The Book” scala le classifiche, trascinando con sé tutto il disco che diventa il primo numero uno inglese per Elvis Costello.

Alla metà del 1983, dopo aver prodotto gli Special AKA di “Free Nelson Mandela”, Elvis torna in tour tra Europa e Stati Uniti dove riprende la relazione con Bebe Buell. La tormentata storia d’amore è destinata, tuttavia, a marcire nuovamente dopo inattese gravidanze e solite incomprensioni ossessive. Costello ha, così, bisogno di tornare a comporre, chiudendosi nel suo ufficio con il preciso intento di scrivere canzoni migliori, sicuramente più sobrie.

Definito dallo stesso Costello “il peggior album con le migliori canzoni”, Goodbye Cruel World (F-Beat, 1984) è un passo poco convinto verso tematiche sonore e liriche più adulte. La spensieratezza radiofonica di Punch The Clock lascia il passo a una disillusione di fondo, alimentata dalla seconda rottura con Bebe Buell. “Room With No Number” mette, così, a nudo i nuovi pensieri di Elvis, adagiati su un R&B saltellante.
In effetti si tratta di canzoni più sobrie e riflessive, frutto di un lavoro quasi certosino in nome di un genuino cantautorato pop. “The Comedians” è una posata giravolta strampalata in 5/4 mentre, con Green Gartside degli Scritti Politti, “I Wanna Be Loved” respira atmosfere pop-reggae.
A soffrire, tuttavia, per primi sono gli Attractions, sepolti vivi da una produzione banale, viziata da stereotipi del momento. La potenza raffinata della band viene coperta dal tappeto sintetizzato di “The Only Flame In Town” e deve sorbirsi ballate amare (“Home Truth” e “Lovefield”), ciniche (“The Great Unknown”) che parlano tanto, ma stupiscono poco per originalità.
Tastando gli arrangiamenti di “Joe Porterhouse”, si respira facilmente una sindrome eighties che svaluta le buone idee di Costello, che si muove sinuoso nella notte di “Inch By Inch”, intonando la ninna nanna ipnotica di “Peace In Our Time”. Troppo meccanico, tuttavia, il rockabilly presleyiano di “Sour Milk-Cow Blues” per convincere l’orecchio a ripetere gli ascolti e, soprattutto, a dimostrare che la parentesi per le masse è finita.

Accolto da critiche contrastanti, Goodbye Cruel World vende molto meno di Punch The Clock, ma viene seguito dalla compilation The Best Of Elvis Costello: The Man (Telstar, 1985), ottava nella hit parade inglese e disco d’oro.

Il re d’America

Tra la fine del 1984 e l’inizio del 1985, Elvis Costello decide, a sorpresa, di abbandonare i fidi Attractions, registrando in studio un’ultima canzone – “I Hope You’re Happy Now” – dedicata all’ex moglie Mary.
Preso dal vortice folk-punk dei Pogues di Shane MacGowan, produce il loro secondo album “Rum, Sodomy And The Lash”, accompagnandoli in tour e legandosi sempre più alla bassista diciannovenne Cait O’Riordan.
Verso la metà dell’anno intraprende la sua prima tournée da solista, tra Europa, Stati Uniti e Australia, concludendola insieme a T-Bone Burnett, con cui realizza un brano – “The People’s Limousine” – a firma Coward Brothers.
Allo stadio Wembley di Londra, a luglio, si celebra il gigantesco Live Aid di Bob Geldof: Costello si cimenta in una cover di “All You Need Is Love” dei Beatles.

Dopo un lungo periodo “on the road”, Elvis sente nuovamente l’esigenza di tornare in studio di registrazione e si trasferisce a Los Angeles insieme al nuovo amico-collaboratore T-Bone Burnett. L’idea di base è abbastanza precisa: lasciare in disparte gli Attractions per assoldare musicisti americani per fare musica “americana”. Elvis Costello cambia maschera e, dietro gli occhiali tondi, torna a essere Declan Patrick Aloysius MacManus, musicista solista, intriso di tradizione sonora a stelle e strisce.

King Of America (F-Beat, 1986) è la seconda immersione di Costello nel mare magnum della musica americana.
Laddove Almost Blue inseguiva affannosamente gli spiriti di Hank Williams e Gram Parsons, questo disco rivisita i codici della tradizione, assimilandoli pienamente nella cifra stilistica dell’autore. Elvis diventa, così, Declan Patrick MacManus, intimo cantante folk, pervaso da una matura aura fifties. Un ritorno alle origini sincero e autentico, che passa per un nucleo di ballate acustiche popolari come “Indoor Fireworks”, impreziosite da mandolini rustici (“Little Palaces”) e frammenti d’organo (“I’ll Wear It Proudly”).
Senza la schizofrenia sonica degli Attractions, un’americanità di fondo può venir fuori in tutta la sua ossessione per i robusti rock and western di “Glitter Gulch” e “The Big Light”. Il country-rock delicato di “Our Little Angel” è solo una parentesi in un album più originale e ricercato, suonato da musicisti più precisi tra una serenata tex-mex per hammond e fisarmonica (“Brilliant Mistake”) e la marimba stralunata della versione melodrammatica di “Don’t Let Me Be Misunderstood”.
Il porto sicuro è, ora, New Orleans dove si può ballare il valzer di “American Without Tears” e ritornare al blues grezzo di J.B.Lenoir (“Eisenhower Blues”), non dimenticando mai la melodia jazz come in “Poisoned Rose”. Costello è pieno di sé, spadroneggiando con David Hidalgo nel rockabilly inquietante di “Lovable” o piangendo il dramma nordirlandese di “Sleep Of The Just”. Per il suo vecchio gruppo non c’è che rimembrare il tempo che fu, accordando la chitarrina sixties di “Suit Of Lights”.
Un disco, quindi, intriso di riuscita verve personale che rivitalizza un artista dotato, capace di mutare pelle e rimettersi in gioco senza maschere.

L’americanismo strumentale di King Of America viene accolto bene dai critici, ma non sale in classifica, scatenando le ire della Columbia Records. Il probabile hit “Blue Chair”, infatti, viene lasciato fuori dal disco: l’azzardata decisione convince l’etichetta a rifiutare un nuovo contratto per Costello.
Novello sposo, Elvis tenta di ricucire lo strappo con gli Attractions, tornando a un sound grintoso che stuzzichi nuovamente la fiducia della Columbia.

Elvis CostelloCreato per placare band e casa discografica, Blood And Chocolate (F-Beat, 1986) è l’altro volto di King Of America, eruzione spontanea di rock sferragliante e distorto.
Costello inverte, così, la direzione solitaria e intimista per tornare alle origini di un beat tribale, intriso di melodie marca sixties come in “Uncomplicated” e “I Hope You’re Happy Now”. L’album è registrato quasi in presa diretta, solo per il gusto di sparare “Honey Are You Straight Or Are You Blind?”, rivisitazione della psichedelia di “This Year’s Model”. Tappe di una carriera quasi decennale che scorrono sui robusti accordi dylaniani di “Tokyo Storm Warning” e tra le vertigini strumentali di “Next Time Round”.
Nessun capolavoro di originalità, dunque, ma un sound gradevole e scorrevole che non rinuncia alla ballata pop (“Home Is Anywhere You Hang Your Head”) e a salse agrodolci in soul (“Blue Chair”). Non c’è più intimità d’autore nel pop sgangherato di “Crimes Of Paris”, ma un’attenzione maggiore per il piacere estetico, tra il cuore spectoriano di “Poor Napoleon” e la preghiera gospel di “Battered Old Bird”.
Elvis, tuttavia, non dimentica di essere diventato, ormai, un cantautore maturo e raffinato e decide di ritagliare ancora una volta un piccolo, grande spazio per i suoi dolori minacciosi. Troneggia, così, lo psicodramma sessuale dei sette minuti di “I Want You”, una delle ballate più struggenti di tutto il suo catalogo.
Blood And Chocolate vende poco, soprattutto in Inghilterra, alimentando senza tregua il periodo negativo per l’artista.

Annunciati come The Confederates, Costello e gli Attractions intraprendono un nuovo tour anglo-americano con innesti importanti come Jim Keltner alla batteria, James Burton alla chitarra e Jerry Scheff al basso. Il 1987 è, così, un anno vissuto prevalentemente “on the road”, interrotto solo da una colonna sonora e da un’altra antologia di inediti.

Con Out Of Our Idiot (Demon, 1987), Costello si incarica nuovamente di mettere ordine nel suo affollatissimo archivio sonoro. In questa seconda puntata antologica abbondano chicche e curiosità varie, buone per appassionati e amanti di un certo pop-rock autoriale. La verve eclettica del musicista emerge, così, senza direzione prestabilita, ammassando brani di epoche e stili differenti. A incontrarsi sono palesi contrasti, figli di idee più e meno riuscite.
“Turning The Town Red” e “Heaten Town” ripercorrono, così, il pop sintetico di Punch The Clock, mentre “Flirting Kid” e “Black Sails In The Sunset” sono intrisi di un classicismo non estraneo alla produzione di Elvis. Il mood schizoide di “Walking On Thin Ice” (scritta da Yoko Ono) ben rappresenta un disco prolisso, che punta alla contaminazione dei generi. Il rock and reggae di “Seven Day Weekend” e “So Young” tende la mano a Jimmy Cliff, mentre si balla lo ska su “Big Sister” o il rock and roll anni 50 su “Baby’s Got A Brand New Hairdo”.
Dispersione, dunque, che vale un’antologia, diario di bordo di un più recente intimismo folk (“Withered And Died”), abbinato a scanzonati country-western (“The People’s Limousine” con T-Bone Burnett e “Shoes Without Heels”). Su tutte, poi, lo spoken-mariachi di “A Town Called Big Nothings”, impreziosito dalla tromba del padre Ross.
Non si tratta di brani fondamentali per capire Costello, ma, insieme, costituiscono un disco coraggioso al di là degli stilemi classici del “meglio di”.

Una rosa per Giulietta

Fine 1988. Costello richiama a sé T-Bone Burnett e si prepara, dopo un periodo artistico piuttosto tormentato, a mettere in musica un improvviso fiume di idee. Elvis è, ora, carico a mille con in tasca un contratto aureo con la Warner Bros. Le registrazioni del nuovo album iniziano, così, a Dublino, proseguendo negli States dove si concretizza lo spettacolo di magia pop con “sua maestà” Paul McCartney.

Primo album del nuovo corso, Spike (Warner, 1989) tenta di mettere in mostra tutto l’eclettismo musicale di Elvis Costello, attirando ospiti illustri e stili diversi. Una sorta di kolossal pop d’autore che, tuttavia, finisce per soffrire di un’inconcludenza di fondo che sovrasta la pregevolezza dei singoli brani. In “Deep Dark Truthful Mirror”, il vecchio R&B si fa cinema, girato dal piano di Allen Toussaint e dalla neworleansiana Dirty Dozen Brass Band. La cura per gli arrangiamenti fa saltare, certo, l’orecchio come nel cadenzato teatrale per chitarra di “Let Him Dangle” (con Marc Ribot) e nel subacqueo incubo rockabilly à-la Tom Waits di “Pads, Paws and Claws”.
Costello sembra avere voglia di fanfare strampalate (“Chewing Gum”) e giri di vaudeville pepperiano (“Miss Macbeth”), ma, alla fine, si perde nel vortice delle sue stesse idee. Forse per un forte egocentrismo (lo swing orchestrale di “Stalin Malone”), forse per un’imitazione di troppo (la carica springsteeniana di “This Town”). Non basta la sensualità sfrenata della voce di Chrissie Hynde (Pretenders) nella ballata pop di “Satellite”: l’album si apre a derive flamenco-jazz (“God’s Comic”) e, soprattutto, a nenie celtiche con tanto di arpa (“Tramp The Dirt Down” e “Any King’s Shilling”).
Troppa carne al fuoco finisce per bruciarsi e perdere sapore come nel romanticismo strumentale di “Last Boat Living”, tra campane e mandolini. Manca, quindi, il gesto spontaneo che viene ritrovato soltanto dopo l’incontro con “Macca”, il genio della melodia, che, inforcati gli occhiali neri, scrive “Veronica”, beat-pop semplice quanto raffinato. Un’umiltà da artigiano del suono che avrebbe reso Spike un gran disco.

Trascinato dal singolo “Veronica”, Spike scala le classifiche, diventando disco d’oro e, di fatto, l’album più fortunato di Costello dopo Almost Blue.

Cavalcando l’onda dell’inaspettato successo commerciale, Elvis torna in tour con i Confederates e mette insieme vecchi successi in Girls Girls Girls (Demon, 1989), ricca antologia in doppio Lp/cd. Il 1990 è, quindi, un anno di pausa per il musicista che ricarica le batterie in vista di ulteriori tuffi creativi.

Mighty Like A Rose (Warner, 1991) è un altro guazzabuglio caleidoscopico di suoni e di idee. Costello vira ulteriormente verso lidi musicali spensierati, lanciandosi coraggiosamente nella scrittura di partiture più complesse, impreziosite dalla produzione barocca di Mitchell Froom. Un altro kolossal pop, dunque, che inizia a ritroso con le tastiere solari di “The Other Side Of Summer”, ricordo-omaggio al genio di Brian Wilson. Il disco è, così, bagnato di luce accecante, melodia squillante nel soul californiano di “Georgie And Her Rival”, orecchiabilità pop nella dylaniana “How To Be Dumb”.
L’obiettivo di Elvis sembra quello di mettere insieme gli arrangiamenti lussureggianti di Imperial Bedroom e l’eclettismo intimista di King Of America. Da una parte, quindi, la psichedelia da camera di “All Grown Up” e “Harpies’ Bizzarre”, dall’altra la foschia acustica à-la Leonard Cohen di “After The Fall” e il minimalismo spettrale di “Broken”.
Il plot, tuttavia, soffre di amnesie temporanee: i salti mariachi di “Invasion Hit Parade” e il falsetto orchestrale di “Sweet Pear” fanno la fine dei più classici pesci fuor d’acqua. Splendidamente integrata, invece, la raffinatezza pop di “So Like Candy”, scritta con McCartney e suonata con il talento puro di Marc Ribot che, a sua volta, ricama le apocalittiche dissonanze di “Hurry Down Doomsday”, poco solari, ma estremamente efficaci.
Il film arriva all’epilogo e, per chiudere il cerchio, Costello torna in America, destinazione New Orleans. “Couldn’t Call It Unexpected No. 4” balla, così, un valzer allegro, sintomo di un artista che ha, ormai, trovato se stesso.

Mighty Like A Rose vende molto bene in Inghilterra, spinto dal video di “The Other Side Of Summer”, che mette in mostra un Costello versione hippy, con barba e capelli lunghi.
Per l’imminente nuovo tour, vengono formati i Rude Five con Marc Ribot alla chitarra, Jerry Scheff al basso e Pete Thomas alla batteria. Elvis, tuttavia, nasconde una profonda stanchezza nei confronti del rock and roll e, nei ritagli di tempo, si diletta con le esibizioni del Brodsky Quartet, ensemble d’archi formato da Michael e Jacqueline Thomas, Ian Belton e Paul Cassidy.
Costello ama il Brodsky, ma, soprattutto, il Brodsky ama Costello. Il quartetto, durante un concerto del 1992, invita il musicista a salire, a sorpresa, sul palco, ma quest’ultimo si accorge ben presto di non essere in grado di leggere le note sul pentagramma, essendosi sempre basato sul suo orecchio. Elvis, così, ci mette l’anima e, tagliatosi barba e capelli, inizia a studiare musica per poter scrivere parti per archi.
Nello stesso periodo un articolo di giornale colpisce la sua attenzione: un professore di Verona sta dedicando il suo tempo a rispondere alle lettere della Giulietta shakespeariana. “Bisognerà coinvolgere anche il Brodsky” pensa immediatamente Costello.

The Juliet Letters (Warner, 1993) allarga a dismisura il pop cameristico di “Mighty Like A Rose” e diventa esperimento poetico, sinfonico. Costello mette, così, l’abito buono, trasformandosi in un Frank Sinatra degli archi al servizio dell’eterno dramma amoroso. Al posto del funambolico Hollywood String Quartet c’è, ora, un altro quartetto, il Brodsky, che asseconda pienamente gli stralci epistolari per la Capuleti e, soprattutto, un nuovo spirito celestiale, bizzarro e sofisticato, di incontro-fusione tra melodia pop e musica classica.
“The Birds Will Still Be Singing” è lo struggente esempio finale di una serie delicata di piccoli lied da camera, eredi diretti delle atmosfere di Vaughan Williams e degli insiemi di Shostakovich. Strumentali in minore (“Deliver Us”) e passaggi toccanti e malinconici (“Dead Letter” e “Last Post”) infiocchettano un’opera coerente che, allo stesso tempo, è opera con un’anima, pastorale e vibrante come in “Taking My Life In Your Hands”.
Il caos anarchico di Costello entra, così, in una sorta di ritiro spirituale, dotato di una voce mai così intonata (“For Other Eyes”) e strumentale (il violino-voce in “Expert Rites”). L’album è una continua danza spirituale, tenuta per mano dai virtuosismi ternari di “Swine” e da incontaminate allegrezze, come “I Almost Had A Weakness” e “Who Do You Think You Are?”, unico brano in cui il pop prende decisamente il sopravvento.
L’unità indistruttibile tra Costello e il Brodsky permette virate improvvise ed elastici cambi di tono. Il dramma sfuma in “Jacksons, Monk And Rowe” che tinge il suono di un colore Broadway. In “The Offer Is Unrepeatable” e “Damnation’s Cellar”, il tragicomico trasforma l’opera in operetta, come avrebbero fatto Rodgers & Hammersmith o Gilbert & Sullivan.
The Juliet Letters è, così, un disco riuscito in pieno, presuntuoso quanto abile nel sapersi sporcare le mani con intelligenza. Un album da leggere e da ascoltare (magari in una notte di mezza estate) che ha il rilevante merito di portare per mano un inossidabile cuore pop al cospetto di sua maestà musica da camera. Le avanguardie del Novecento passano, in piccola parte, anche da qui.

L’epistolario in musica sale in classifica, dividendo immediatamente i critici sull’idea che un ex-punk abbia contaminato se stesso e la purezza del Brodsky. L’album vende abbastanza bene e spinge Costello a rimettere le mani nel suo catalogo, pronto a sfornare un altro “meglio di”, questa volta con una sorpresa.

Nel cofanetto 2 And Years (Demon, 1993), brilla l’inclusione del raro promozionale Live At El Mocambo, registrato a Toronto nell’ormai lontano 1978.
Nel primo album dal vivo della sua carriera discografica, Elvis Costello inforca i vecchi occhiali da musicista incazzato per dare sfogo a un rock and roll fatto di punk. Quando parte l’R&B al fulmicotone di “Mystery Dance” e “Welcome To The Working Week”, si intuisce immediatamente che siamo distanti anni luce dalle raffinatezze sinfoniche sperimentate con il Brodsky Quartet.
Correndo a ritroso, quindi, non c’è Shostakovich, ma una band di eccentrici chiamata Attractions. C’è, soprattutto, il vecchio amore per il riff anni 60 (“The Beat” e “(I Don’t Want To Go To) Chelsea”) che deflagra nel pirotecnico finale di “Pump It Up”.
Sul palco, la band riesce a dare il meglio di se con Steve Nieve sugli scudi e una sezione ritmica precisa come un orologio svizzero. Costello è, così, libero di vomitare parole e accordi (la discussa “Radio Radio” e l’insinuante “Less Than Zero”) per rendere ancora più brucianti i suoi splendidi primi due album.
L’ossatura della performance è tutta qui, festa tribale di un beat rivisitato in chiave new wave che fa felici nostalgici e nuove leve.

Gioventù brutale e bellezze inutili

Elvis CostelloNel marzo del 1994, Costello inizia a lavorare su un nuovo album da intitolare “Idiophone”. Per l’occasione invita il batterista Pete Thomas negli stessi studi di My Aim Is True, registrando alcuni brani con Elvis in un’inedita versione polistrumentista (basso, tastiere e chitarra). L’esperimento funziona solo a metà e, di conseguenza, vengono richiamati il tastierista Steve Nieve e il produttore Mitchell Froom che, a sua volta, insiste per richiamare Bruce Thomas.
Elvis Costello si trova, allora, nello stesso punto da cui è partito, quasi venti anni prima.

Riunione di famiglia con gli Attractions, Brutal Youth (Warner, 1994) è una versione rivisitata di Blood And Chocolate, altro tuffo nella new wave arrabbiata delle origini. Dopo l’abbuffata sinfonica, Costello imbraccia la chitarra impolverata per riscoprire i vecchi ritmi marziali di “Pony Street” e “Just About Glad”. L’età sembra un fattore molto relativo per tutta la band che si diverte ancora a scatenarsi con balzelli beat-pop come “Kinder Murder” e “My Science Fiction Twin” o a deflagrare su vibranti rimasugli garage (“13 Steps Lead Down”).
La gioventù del disco, tuttavia, si trascina guardandosi le spalle, attratta dal fascino andato del giro twist di “Clown Strike”, del rockabilly rabbioso di “20% Amnesia” e di groove sinuosi come quello di “Sulky Girl”. Si cerca, insomma, l’impatto sonoro, ma la vena di Costello sembra piuttosto vuota dopo gli sforzi di The Juliet Letters.
“You Tripped At Every Step” non va oltre la solita armonia dylaniana, così come esangue pare il country malinconico di “Still Too Soon To Know” o il soul in salsa ballabile di “All The Rage”. Ancora, quindi, il miscuglio potenza-raffinatezza melodica che, questa volta, non riesce a trovare una direzione precisa, tra una ballata elettroacustica (“This Is Hell”) e un piano liturgico (“Favourite Hour”). A salvarsi dalla calma piatta è il piano-gocce di pioggia di “London’s Brilliant Parade” che, al di là di un manierismo romantico marca sixties, riesce a colpire l’attenzione con un’identità autoriale forte. Costello canta: “Mi sto divertendo molto o qualcosa di veramente simile”. Ad ascoltare Brutal Youth viene spontaneo credergli.

Il nuovo disco piace al pubblico che lo spedisce al secondo posto nella classifica inglese, sospinto dall’ammiccante singolo “Sulky Girl”. Soddisfatto, Costello decide di rifiatare e prendersi tutto il 1995 di pausa, pubblicando un disco di sole cover, inciso nel 1990 in Giamaica.

Registrato ai Blue Wave Studios delle Barbados, Kojak Variety (Warner, 1995) è, più che un vero e proprio album, una playlist di brani amati. Costello si dimentica – preso da una smania di divertimento – di essere principalmente un musicista e si ritaglia uno strambo ruolo da dj per il suo stesso pubblico. “Remove This Doubt”, addirittura, va a scavare in uno degli album meno conosciuti delle Supremes, confermando il taglio da “intenditore” che l’inglese vuole dare al disco. Il problema è che Elvis non riesce a pennellare come vorrebbe, limitandosi a sparuti blues senz’anima come “Strange”, “Hidden Charms” e “Leave My Kitten Alone”.
I Confederates – con Marc Ribot e James Burton alla chitarra, Pete Thomas alla batteria – sono una band precisa e, soprattutto, pulita, ma rimangono sprecati davanti a un insieme insensato di brani. Il Kenny Rogers di “Running Out Of Fools” diventa miele, così come infame è il rock and roll sguaiato di “Bama Lama Bama Loo”. C’è l’omaggio (banale) a Dylan (“I Threw It All Away”) e la versione fedele da Mose Allison (“I’ve Been Wrong Before”), ma un po’ di luce appare soltanto quando Ribot si mette a studiare la storia di Burt Bacharach (“Please Stay”).
Per il resto Costello sembra non esserci, dj intellettuale e scostante che fuma una sigaretta dietro ai piatti mentre tutti ballano in pista senza nemmeno sapere perché.

Nell’estate del 1995, Costello viene scelto per curare la direzione artistica del Meltdown Festival della città di Londra. E’ l’occasione buona per allargare i suoi eclettici gusti musicali, ma, soprattutto, per esibirsi a Southbank con il chitarrista jazz Bill Frisell.
Deep Dead Blue (Warner, 1995) è un piccolo disco dal vivo, basato interamente sul dialogo tra la chitarra scarna di Frisell e la voce romantica di Costello.
Elvis diventa, così, crooner d’altri tempi, spaziando tra brani propri e bizzarri esperimenti da palcoscenico. “Weird Nightmares” è una meditazione intima sul genio di Mingus, mentre “Gigi” immerge in salsa jazz il vecchio teatro Broadway della coppia Lerner/Loewe. Gli arrangiamenti spectoriani di “Poor Napoleon” vengono tolti di mezzo senza mezze misure in nome di un languore strumentale che domina brani come “Love Field” e “Baby Plays Around”.
Costello si diverte con il latin jazz (“Shamed Into Love” con Ruben Blades), ma il problema fondamentale di tutta l’esibizione (album) è una noia costante che appiattisce i pur ottimi arrangiamenti di Frisell. Brani monotoni e monocordi, dunque, annaffiati dal miele della voce che rovina l’ottimo spunto di "Deep Dead Blue”, emblematica nel rappresentare lo spirito della collaborazione.

Dopo il Meltdown, Costello torna in tour con gli Attractions, provando sui palchi una serie di nuovi brani. Geoff Emerick, già produttore di Imperial Bedroom, decide di tornare al lavoro con Elvis che, con più di quaranta canzoni in mano, sta pensando di realizzare un disco doppio. La Warner, tuttavia, non apprezza questa prolificità, specie se seguita da una scarsissima abilità nelle vendite. Il musicista deve, così, rivedere il suo progetto, selezionando il materiale in favore, soprattutto, di un’orecchiabilità da ballata.
Grazie a All This Useless Beauty (Warner, 1996), Costello riesce nel magico intento di descrivere un intero album con un semplice titolo. Il genio di Geoff Emerick, questa volta, gira a vuoto e l’eleganza lussureggiante del vecchio Imperial Bedroom si trasforma in una “bellezza inutile”, appunto, che assomiglia a una donna straordinariamente avvenente, ma inevitabilmente vuota di spirito. Estetica ed etica si trovano, così, a giocare a nascondino tra i solchi di un disco che non appartiene a Elvis (non ci sono i quaranta pezzi che aveva in mente) e nemmeno ai musicisti attorno a lui (gli Attractions, ma, soprattutto i vari Johnny Cash, Roger McGuinn e Paul McCartney).
Cardini di questa divisione sono, su tutte, le tenere ballate “All This Useless Beauty” e “I Want To Vanish” che, tra raffinati arpeggi discendenti e cromatismi per archi, si fanno guardare in tutta la loro estrema bellezza. Bellezza, si diceva, fine a se stessa.
Costello torna – forse per forza – alle languide armonie pop di “The Other End Of The Telescope” per sconfinare in un soul-pop al sedativo per elefanti (“Distorted Angel”). Steve Nieve gioca a fare l’amico fragile con il piano religioso di “Little Atoms” e il lamento da cocktail-jazz di “Why Can’t A Man Stand Alone”, ma i momenti più freschi vengono dal rockabilly horror di “Shallow Grave” e dal comune senso western di “Complicated Shadow”. Non è poi molto, visto che “Poor Fractured Atlas” scimmiotta “Al chiaro di Luna” e Bonnie Raitt si deve accontentare del rock and roll sinfonico di “It’s Time”.
Costello, dunque, sembra non trovarsi a suo agio con un album bello quanto effimero, che costringe in un angolo la sua prolificità in nome di spietate leggi di mercato. L’attenzione dimostrata per The Juliet Letters sembra, insomma, svanita in nome di una rincorsa sfrenata alla pubblicazione, anche se si tratta di cover banali (l’inutile Kojak Variety). “Starting To Come To Me” non va oltre tastiere brillanti e coretti da spiaggia così come “You Bowed Down” non allarga la melodia à-la Byrds.
Brani raffinati, certo, e realizzati ad arte, ma l’inglese dovrebbe rifiatare un po’ per coccolare meglio la propria originalità.

Nonostante le precauzioni della Warner, All This Useless Beauty non va oltre il ventottesimo posto in Gran Bretagna, peggior posizione in classifica mai raggiunta. Costello torna in tour con gli Attractions e, negli Stati Uniti, si ritaglia uno spazio dal vivo in duo con il solo Steve Nieve.

Costello & Nieve: For The First Time In America (Warner, 1996) è il ricercato souvenir di cinque concerti americani della primavera, sotto forma di altrettanti dischi singoli a lunga durata, raccolti in un prezioso cofanetto a tiratura limitata.
In duo con il suo elemento migliore – l’Attraction del piano Steve Nieve – Costello è libero di abbandonare i vecchi fracassi rock and roll per indossare una veste minimale e sinuosa. E’ un “on the road” (dal palco di Los Angeles a quello di New York City) scarno, essenziale che rilegge in chiave acustica un intero repertorio, dalle recenti melodie struggenti di All This Useless Beauty ai fasti del passato con l’immancabile “Alison” e “Red Shoes”.
Non mancano, poi, le solite cover da intenditore, soprattutto la “I Just Don’t Know What To Do With Myself” che apre la strada alla collaborazione più riuscita della carriera di Elvis.

Il maestro ed Elvis

Durante la tournée della primavera del 1996, emergono nuove-vecchie tensioni tra Costello e Thomas che spingono il primo a sciogliere per la seconda volta gli Attractions dopo l’ultimo concerto giapponese a settembre.
Alla fine dell’anno, il contratto con la Warner scade e, per celebrare una storia ormai passata, viene assemblata una nuova antologia.

Extreme Honey: The Very Best Of The Warner Bros. Years (Warner, 1997) rinuncia alla formula anarchica cara a Elvis e viene messa insieme a partire da classici del periodo Warner, ruotanti intorno al successo indiscusso di “Veronica”.
Costello, tuttavia, non rinuncia agli inediti. “The Bridge I Burned” – con il figlio Matthew al basso e Danny Goffey dei Supergrass alla batteria – si rifà, al limite della cover, a “Pop Life” di Prince. “My Dark Life” è una collaborazione con Brian Eno per la compilation “Songs In The Key Of X”, ispirata direttamente alla serie-tv X-Files.

A partire dalle cover di “Please Stay” e di “I Just Don’t Know What To Do With Myself”, Costello dimostra ampiamente la sua ammirazione per le orchestrazioni melodiche di Burt Bacharach. La prima volta con il maestro avviene durante le registrazioni di Spike, nel 1989. Bacharach ha un’impressione positiva di Elvis e, quando i produttori del film “Grace Of My Heart” gli chiedono di comporre un brano per la relativa colonna sonora, risponde entusiasta all’idea di farlo assieme all’inglese con gli occhiali.
I due iniziano a lavorare con veloci incontri agli Atlantic Studios e i risultati vengono presto a galla. “God Give Me Strenght” si trasforma in un successo planetario, vincendo addirittura un Grammy Award. Ci vuole poco per fare una somma: insieme si può creare qualcosa di importante, un intero album di inediti.

Elvis Costello con Burt BacharachParole e voce di Elvis Costello, arrangiamenti e orchestrazioni di Burt Bacharach: Painted From Memory (Mercury, 1998) è l’inusuale, affascinante incontro al vertice che punta dritto a rinverdire la stagione d’oro del Brill Building e del più nobile artigianato pop.
In “What’s Her Name Today?” l’alchimia svela la sua formula più o meno segreta: il classicismo di Bacharach accoglie la voce pop di Elvis, contaminandosi senza snaturamento alcuno. Il maestro abbraccia il suo allievo più talentuoso sulle note del piano lacrimante della title track, squarciata da aperture degne della più enfatica Broadway. E l’allievo non teme di superare il maestro quando chiama l’ex-organista pazzo Steve Nieve e detta il ritmo per tastiere di “The Sweetest Punch”.
Un gioco ben congegnato, dunque, che, in “The Darkest Place”, mette in cerchio orchestrazioni intime, cori soul e piccole derive jazz, condite da un’intonata voce al miele già vincente in The Juliet Letters. E’ un sound ricco, colto e tremendamente sexy nella sua malinconia onnipresente, “trombeggiante” in “Toledo”, psicodramma vibrato in “This House Is Empty Now”.
L’album è uno di quelli dove tutto sembra funzionare alla perfezione, miracolo acustico di un lirismo crescente (“I Still Have That Other Girl”), di romantiche armonie soul (“Such Unlikely Lovers”). I tasti di Bacharach sembrano annullare gli ultimi melodrammi di Costello (vedi All This Useless Beauty), portando in dote un antico sapore pop che viene leccato con le gocce di pioggia di “Tears At The Birthday Party”.
E’ un modo splendidamente inattuale di fare musica, tra una vecchia ballata da camera (“My Thief”) e fiati da Broadway (“The Long Division”). Eppure, Painted From Memory si presenta nella sua freschezza, maturata attraverso due carriere ricche e raffinate, esplodendo nel finale jazzy di “God Give Me Strenght” per coronare una delle collaborazioni più riuscite degli ultimi decenni.

L’album di Costello e Bacharach viene accolto con grandissimo entusiasmo dalla critica, piazzandosi molto bene in classifica, nonostante le riserve della PolyGram che avrebbe voluto un disco più jazz con la collaborazione di Bill Frisell.
The Sweetest Punch (Universal Classic, 1999) viene effettivamente pubblicato per rileggere Painted From Memory in chiave jazz, con il talento chitarristico di Frisell e la voce di Cassandra Wilson).
I due nuovi eroi del pop portano i loro brani in giro negli Stati Uniti, prima che Costello inizi il Lonely World Tour ancora da solo con Steve Nieve.

Nel frattempo, la Universal decide di realizzare un nuovo, doppio greatest hits.
In The Very Best Of Elvis Costello (Universal, 1999) compare “She” (successo di Charles Aznavour) che trascina a livello commerciale tutto il disco grazie alla sua presenza nel film-boom “Notting Hill”.

Terminata la tournée mondiale in Giappone, Costello parla con la sua nuova etichetta e decide di prendersi un nuovo periodo di pausa.
Tra l’ottobre 2000 e il gennaio 2001, il talento di Elvis Costello realizza, in uno studio di registrazione, due degli ultimi sogni che gli sono rimasti: farsi donna nell’arte e avere un disco sulla leggendaria etichetta Deutsche Grammophone.
La “Costella” che consente l’ultimo prodigio di contaminazione è Anne Sophie Von Otter, mezzosoprano svedese, gran virtuosa di Bach, Mozart e Stravinsky.

In Anne Sophie Von Otter Meets Elvis Costello – For The Stars (Deutsche Grammophone, 2001) lo sghembo cantante pop convince l’interprete classica a rinnegare la propria essenza artistica, a lasciarsi guidare in un repertorio alieno e tremendamente terreno. Costello, questa volta, si defila dalle prime linee, rimanendo più che presente nell’ombra e lasciando campo libero ai virtuosismi vocali della Von Otter (la tragica “Go Leave” ne è un buon esempio).
E’ un lavoro certosino da stilista, che mette la sua essenza artigiana al servizio di una classicità che non ha intenzione di torcere un capello a un originario mood pop. Assenti, infatti, gorgheggi esasperati e rigidità da Conservatorio: la cantante avvolge il pop con un mantello di gomma, più Joan Baez, quindi, che Katia Ricciarelli.
La beatlesiana “For No One” è specchio di questa suggestione, grazia vocale accompagnata da un quartetto d’archi post-moderno, i Fleshquartet. La selezione è, come al solito, colta e curiosa, con riguardo particolare ai Beach Boys di “Pet Sounds”: il retrogusto gershwiniano di “Don’t Talk” si abbina, così, ai preziosismi di “You Still Believe In Me”. Costello lavora su arrangiamenti raffinati, suonando occasionalmente piano e chitarra e – con umile intelligenza – si limita a dettare con la Von Otter in brani propri (“Baby Plays Around” e “No Wonder”) o di altri artisti terreni (il Tom Waits di “Broken Bicycles” o il Ron Sexsmith di “April After All”).
Lo sconfinamento, quindi, viene debellato, in nome di una armoniosa connivenza che, tuttavia, non sempre riesce a evitare qualche smanceria di troppo. E’ questo, forse, il prezzo da pagare per portare alla luce esperimenti intelligenti come For The Stars.

Dopo la parentesi lirica con la Von Otter, Costello decide di rimettersi al lavoro a Dublino, alla metà del 2001. Per il nuovo album, vengono richiamati il batterista Pete Thomas e l’immancabile Steve Nieve, mentre Davey Faragher sostituisce Bruce Thomas al basso.
Nascono, così, gli Imposters, nuova incarnazione di una vecchia band impossibilitata, ormai, a risorgere.

When I Was Cruel (Island, 2002) è l’eterno ritorno al rock più immediato a quasi dieci anni di distanza da Brutal Youth. Dopo l’artigianato pop con Bacharach e i lirismi della Von Otter, Costello sente un nuovo bisogno: tornare con la band di (quasi) sempre per sfogare tutte le sue imperfezioni da musicista ruspante.
Ecco, allora, che in “45” rivive un’orecchiabilità rock’n’roll, mentre “Dissolve” mette un’armonica al servizio di un grintoso rock-blues. Torna, soprattutto, un primigenio spirito sixties (il beat di “Tear Off Your Own Head”), manipolato a piacimento dall’Impostore che taglia Mina, inserendola in “When I Was Cruel No. 2”, ballata languida su ritmi programmati.
Il coraggio non è mai mancato ad Elvis che non può, ovviamente, limitarsi ai tre accordi canonici. “15 Petals” è una sarabanda orientaleggiante per fiati e organo hammond, mentre “Episode Of Blonde” latineggia strampalata con tanto di voce vomitata à-la Dylan.
Che si tratti di un disco raffinato non v’è dubbio (basta ascoltare il tribalismo jazz di “Spooky Girlfriend”), ma la prolificità dell’autore inizia a diventare un vero e proprio masso di Sisifo. Costello non riesce a evitare una certa ripetitività, ripescando melodie ormai note (“Tart”) sui soliti ritmi seducenti di chitarra (“Dust 2…”). Non si tratta di mediocrità, ma di un’autoreferenzialità di fondo, evidente nella balbuziente “Alibi” o nello stornello elettro-acustico di “My Little Blue Window”. Ci sono, vero, divertenti distorsioni carnevalesche (“Daddy Can I Turn This?”), ma l’album è costantemente sul bilico della noia, inciampando sugli inutili ritmi effettati di “Soul For Hire” e nella malinconia estenuante di “Radio Silence”.
When I Was Cruel è, dunque, un disco sicuramente riuscito, ma è impossibile ignorare il volto più affaticato – nella sua estrema creatività – di Elvis Costello.
L’album va forte negli Stati Uniti, spingendo Costello a intraprendere l’ennesimo tour con gli Imposters.

Con Cruel Smile (Universal, 2002), Costello torna alla compilation alternativa, ma il sapore “commerciale” del disco è troppo forte sull’orecchio. Operazione forzata, dunque, dal successo di When I Was Cruel, che vede in questa raccolta una sorta di piccola anima gemella.
Cruel Smile, invece, è un’accozzaglia poco coerente di esibizioni live (la classica “Almost Blue” in versione elettrica da Sydney e la più recente “Spooky Girlfriend” dalla stazione radio KFOG) e rifacimenti più o meno riusciti delle ultime canzoni (la virata cosmic-pop di “Revolution Doll”).
Curioso il mix dal vivo di “Watching The Detectives/My Funny Valentine”, ma non basta a giustificare un disco che, forse, risulta eccessivo anche per il fan più accanito. Inutile, quindi, ingolosire con il tempo jazz di “Smile” (lato A giapponese) perché si tratta in maniera evidente di un’operazione furba, evitabile da parte di un artista intelligente come Elvis Costello.

Un punk alla Deutsche Grammophon

Alla fine del 2002, Costello e la moglie Cait O’Riordan decidono di mettere fine al loro rapporto durato più di quindici anni. L’inglese, in realtà, frequenta segretamente la pianista jazz Diana Krall, conosciuta a una cerimonia dei Grammy Awards a New York.
Il nuovo rapporto stimola la creatività di Elvis (scrive alcuni pezzi per “The Girl In The Other Room”, album di grande successo per la Krall) che mette nuovamente in soffitta gli Imposters per registrare un disco solista incentrato sul tema dell’amore.

North (Deutsche Grammophone, 2003) è la seconda prova di Costello per la prestigiosa etichetta di Emile Berliner e, questa volta, il lirismo pop si tinge di jazz, essenza autunnale di una romantica metropoli occidentale. Probabilmente ispirato dal pianismo sensuale della nuova compagna Diana Krall, Elvis inanella una serie di gemme sonore intime e raffinate, tra l’amarezza di un amore che fugge e l’euforia di un sentimento che nasce.
Il preludio d’archi di “You Left Me In The Dark” illumina la via a un confessionale per piano, sceneggiato nei minimi dettagli attraverso squarci cinematografici come “Fallen” e “When Green Eyes Turn Blue”.
Costello smette nuovamente i panni del rocker approssimativo per cenare, in abito da sera, al lume di candela di “When It Sings”, epitome di un romanticismo da jazz club newyorkese. Manhattan è, dunque, nuovo nido personale e artistico, accogliente nella sinfonia lunare di “I’m In The Mood Again”, ottima per tutti quelli che non dimenticano certi film di Woody Allen. E’, soprattutto, la veste del crooner strappalacrime che viene investito dai suoi sentimenti, non riuscendo a spiegarli se non con la coda di fiati di “Someone Took The Words Away”.
L’album gioca sapientemente con i chiaroscuri, tra i cromatismi ritmici di “Let Me Tell Her About Her” e il saliscendi allegro del ritornello di “When Did I Stop Dreaming?”. Sarebbe, certo, lecito intravedere tra i solchi un certo manierismo presuntuoso, imbevuto di classicismo forzato (ancora il Brodsky in “Still”), ma la scarna magia melodica di “You Turned To Me” dice una cosa sensata: la presunzione è un punto di forza se mostrata con classe. Solo di classe, infatti, si può parlare quando Marc Ribot imbraccia la chitarra nella splendida, timida samba di “Impatience”.
Ancora una volta, quindi, la brutale giovinezza rock di Costello viene equilibrata dallo spirito coraggioso e maturo. Forse l’inglese con gli occhiali dovrebbe ascoltare di più quest’ultimo.

Poco prima dell’uscita di For The Stars, Elvis Costello dichiara in un’intervista: “All’inizio di quest’anno ho ricevuto un invito ad assistere alla rappresentazione del ‘Paradiso’ di Aterballetto e valutare la possibilità di partecipare alla successiva produzione, un adattamento del ‘Sogno di una notte di mezza estate’. Per la verità non avevo nessuna minima nozione del mondo della danza. Recentemente, quando mi è stato domandato da una seria testata giornalistica quale fosse il mio danzatore preferito, ho onestamente risposto Cyd Charisse. Comunque sia, quella sera sono stato totalmente travolto dalla sensazione di trovarmi nello stesso ambiente della Compagnia Aterballetto. Scrivere questa partitura è stata un’esperienza incredibile. E’ senz’altro la partitura strumentale più corposa che abbia scritto. E’ stata pensata per un’orchestra di più di sessanta elementi, con speciale attenzione ad alcuni dei miei strumenti preferiti: il clarinetto basso, il clavicembalo, il vibrafono. Dal tanto scrivere, adesso in casa non mi è rimasta più neanche una matita”.

Con Il Sogno (Deutsche Grammophon, 2004), Costello porta a esasperazione il classicismo di For The Stars, componendo un’opera magniloquente per il balletto “Sogno di una notte di mezza estate”, progetto nato in collaborazione con Aterballetto di Reggio Emilia. L’intera partitura si rivela in un’essenza di danza moderna, impressionista nelle emozioni con ricordi più o meno vaghi di George Gershwin e Igor Stravinsky. Vibrafono e cymbalon guidano orchestrazioni à-la Prokofiev che servono per snocciolare personaggi e trame, alimentate da un vecchio e gracchiante giradischi.
Da “The Jealousy Of Helena” a “Oberon And Titania”, il disco è una giostra sensuale che corre a ritmo di jazz, ma l’entusiasmo sovrannaturale spesso cede il passo a un vortice di idee non messe degnamente a fuoco. La London Symphony Orchestra di Michael Tilson Thomas guida i vari climax narrativi con esperienza, ma il cuore del progetto sembra più hollywoodiano che sinfonico.
D’accordo, Costello non ha più paura di nulla e, probabilmente, la coppia pop-classica gli deve davvero qualcosa, ma il mondo magico di Oberon e Puck potrebbe scoprire presto l’inghippo.

Come per sfogare un lato più aggressivo, Elvis torna in studio con gli Imposters e, quindi, con il suo primigenio amore per blues, country e folk.
The Delivery Man (Lost Highway, 2004) è un disco sudista, partorito dalle viscere degli Stati Uniti più profondi. Costello abbandona duetti sinfonici e siparietti shakespeariani per emergere, nuovamente, come strimpellatore country-rock, genuino, aggressivo, malinconico.
La melodia sincopata di “Country Darkness” e il martellare campagnolo di “There’s A Story In Your Voice” (con la voce di Lucinda Williams) aprono la strada a un disco che sembra King Of America legato a When I Was Cruel. Elvis sfida apertamente la noia, aprendo con la sarabanda rock’n’jazz di “Buttom My Lip” e proseguendo sulla scia del boogie del sud (“Monkey To Man”) e del blues vorticoso (“Bedlam”).
The Delivery Man non è più rabbia fragorosa, ma pietra di un percorso verso una maturità pop. Si balla, abbracciati, sul gospel per innamorati di “Either Side Of The Same Town” o, allegri, sulla giravolta meticcia della title track. Solo “Needle Time” riesce a strappare un sorriso nostalgico con il vortice psicotico del piano di Steve Nieve. Ecco, allora, che Costello indugia in qualche leziosità di troppo, ammorbidendo i toni con “Nothing Clings Like Ivy” e “Heart Shaped Bruise”, tenere ballate con la voce gorgheggiante di Emmylou Harris. E’ la proiezione di uno stile ormai compassato che, dopo l’inno chiesastico di “The Judgement”, sciorina un ukulele da giostra infantile (“Scarlet Tide”).
L’occhialuto c’è ancora, ma che stia iniziando a non vederci più tanto bene?

The Delivery Man viene accolto bene da gran parte della critica e porta Costello in tour per tutto l’anno successivo. Le due anime di Elvis convivono sui palchi di mezzo mondo, tra esibizioni orchestrali con le musiche di “Il Sogno” e il più classico repertorio pop e rock.

Con il doppio My Flame Burns Blue (Deutsche Grammophon, 2006), l’inglese di Londra colora l’ennesima sfaccettatura del suo nobile spirito eclettico, affidandosi al fido Steve Nieve e alla MetropoleOrkest guidata da Vince Mendoza. In diretta dal North Sea Jazz Festival, Costello sfodera un sontuoso jazz orchestrale per uno spettacolo sofisticato, aperto in pompa magna con il Mingus di “Hora Decubitus” in puro stile Broadway.
Presentato come il disco che “spiega che cosa ho fatto negli ultimi dodici anni quando non avevo una chitarra in mano”, My Flame Burns Blue sfoggia un abito da sera alquanto formale, intristito dalla sinfonia malinconica di “Favourite Hour” e da certi romanticismi da musical come “Upon A Veil Of Midnight Blue” e “Put Away Forbidden Playthings”. L’orchestra di Mendoza serra le fila, cercando una strada meticcia, tra datate luci newyorkesi (“That’s How You Got Killed Before”) e le strambe inflessioni latino-americane di “Clubland”.
Emerge, tuttavia, una confusione generale che non riesce a legare il languore di Almost Blue (con tanto di trombe e violoncelli) con il funky caraibico di “Almost Ideal Eyes”. Il vecchio reggae-wave di “Watching The Detectives” sparisce tra i vicoli della Manhattan di Woody Allen (la title track), prima di cenare al lume di candela di “Can You Be True?”.
E’ una pacatezza nostalgica che funziona solo a tratti, soffocata da strati di miele orchestrale, ma che trova la sua finale rivincita con il capolavoro “God Give Me Strenght”, perfetta anche per una serata come questa.
Il bonus disc di My Flame Burns Blue contiene una versione più corta dell’operetta “Il Sogno” che, tuttavia, si presenta senza meta e direzione, cercando invano qualcosa sul palco come un’opera di Beckett.

Il ritorno dell’impostore

Elvis CostelloNell’inverno del 2005, Elvis Costello è il primo musicista che torna a lavorare a New Orleans dopo la spaventosa devastazione dell’uragano Katrina.
Registrato con il pianista Allen Toussaint e prodotto da Joe Henry, The River In Reverse (Verve, 2006) raccoglie, in quasi un’ora di musica, le lacrime e la speranza della città “più unica” degli Stati Uniti. Costello smette i panni del sofisticato direttore d’orchestra per una nuova collaborazione pop, in nome di un ritrovato spirito melodico.
Archiviati kolossal sinfonici e partiture jazz, l’inglese può concedersi una vacanza creativa, tornando al sensuale R&B di brani come “On Your Way Down” e “Six-Fingered Man”. Il magnifico spirito musicale di New Orleans rialza, così, la testa, trascinato dalla sarabanda corale di “Tears, Tears And More Tears” e dalla festa per fiati di “Who’s Gonna Help Brother Get Further?”.
Allen Toussaint conosce bene la sua terra e conferisce al disco un tono genuino soprattutto nei gospel per pianoforte, “The Sharpest Thorn” e “Freedom For The Stallion”. E’, forse, proprio questa negritudine a rendere fresco tutto il lavoro che, altrimenti, sarebbe tentato da deviazioni classicheggianti fuori luogo (“Ascension Day”) e soul claptoniani al limite del melenso (“Nearer To You”).
New Orleans è una città che vuole ridere dopo la tragedia e allora l’intimismo bandistico di “Broken Promised Land” lascia sfogare il barrelhouse di “International Echo” o il philly sound di “Wonder Woman”.
Certo, The River In Reverse non è tra le migliori collaborazioni di Costello, ma porta una buona ventata d’aria fresca in un catalogo che iniziava a farsi un po’ viziato.

Con Momofuku (Lost Highway, 2008), Costello chiude una quadrilogia “del ritorno”, iniziata quattordici anni prima con Brutal Youth. Radunati gli Imposters, Elvis ritrova la sua chitarra e, conseguentemente, un certo artigianato rock, dipinto con la solita varietà di colori sonici. Dopo Mingus, insomma, il riff hard di “Stella Hurt” appare sul palco decisamente inatteso.
L’album è fresco, dinamico e, al contrario di certi manierismi di When I Was Cruel, lascia intravedere una strada rock and roll mai persa negli anni, nonostante sinfonie e partiture jazz. Merito, come al solito, degli scudi di Steve Nieve che trasformano “American Gangster Time” in un rave per organetto da spiaggia e fanno di “Go Away” un nuovo lampo psichedelico beat.
Rock per adulti, forse, alimentato da un soul intellettuale e sinuoso (“Flutter And Wow” e “Pardon Me Madam, My Name Is Eve”) che sconfina nella ballad romantica “My Three Sons”.
Eppure Momofuku ha il suo lato infantile, innamorato della filastrocca sgangherata di “Mr. Feathers” e della piccola cornice folk-blues di “Dream And Bone”. Qui sta il gioco di tutto il disco che riesce, saggiamente, a non cadere nelle solite tentazioni di Costello, tra un latin-jazz (“Harry Worth”) e un soul-pop luccicante (“Song With Rose”). Allora meglio la semplicità di “No Hiding Place”, country and roll melodico d’impatto o del blues corale di “Turpentine”.
Dopo tanto clamore, il ritorno dell’impostore è qualcosa che fa stropicciare gli occhi.

Nashville è sempre stata un “buen ritiro”, un refugium blasonato per tutti gli eccentrici, se non proprio peccatori, della grande musica. Dopo anni divorati a esacerbare stili e trame musicali, Elvis Costello ritrova il passaggio a Sud, quello del country del mais e dei balli sull’aia. In Secret, Profane & Sugarcane (2009) recupera le radici e quel filo che legava la sua Londra giovanile alle magnolie sempre in fiore sull’asse New Orleans-Mississippi-Clarksdale.
Prodotto da T Bone Burnett, il disco ha tutta la fragranza radiofonica degli anni 40/50 di provincia americana, con voci del country stars & stripes che si frappongono all’indimenticabile aroma di Johnny Cash che pervade ogni angolo. Costello imbraccia la sua Gibson J-50 e un pezzo di storia, un tassello di “Americana” si ricompone in tutto il suo dolente “old spirit” tra west e Jack Daniel’s Old Since.
Infatuato da una storia dell’Ottocento di una cantante lirica svedese, Jenny Lind amante dell’impresario americano P.T.Barnum (quello del circo), Costello ne ripercorre le trame e gli orditi portandone le vicissitudini a scoprire le analogie, pregi e virtù dell’America del tempo old-country (“Red Cotton”, “How Deep Is The Red?”, “She Handed Me A Mirror”, “She Was No Good”), e da qui si snoda il percorso di un disco che alterna ballate, country-swing, square dance, walzerotti e quant’altro si rivolti nei cassetti del tempo che fu, odoranti di sogni e fieno. Spiccano la ballad field cantata con Emmylou Harris (“The Crooked Line”) e “I Felt The Chill Before The Winter Came, in coppia con Loretta Lynn, oltre a una cover di un pezzo di Bing Crosby (“Changing Partners”) e all’omaggio al Man In Black Johnny Cash (“Complicated Shadows”). 

Un ritorno a “prima vita”, questo del cinquantacinquenne Costello, che si pregia di vecchio stile “predicato” da modern american. Si aveva sete di nuovo, e lui disseta con la diversità stagionata del suono rappacificante della “frontiera”, che una volta oltrepassata dentro fino al collo, offre un paesaggio di grandi canzoni.

La tarda primavera del 2013 vede la concretizzazione, non proprio annunciata, di un progetto gestito insieme alla popolare soul band The Roots. L'album Wise Up Ghost And Other Songs diventa l'occasione per Costello per commentare la situazioni in cui versa la Gran Bretagna del 2013, a bordo di una colonna sonora vintage, tra spunti funky, soul, hip-hop che condiscono una pietanza cantautoriale di ottima fattura.
Il cantautore e la sua big band riescono a illuminare con urgenza ed entusiasmo il funky hip-hop insolente di “Refused To Be Saved” come pure il soul reggae di “Wake Me Up”, ma anche il recitato ruvido con chitarra wah wha ed echi gospel di “Stick Out Your Tongue” o ancora la ballata movimentata e sussurrata (alla “Boy With a Problem”) di “Tripwire”. Costello che si fa ora equilibrista ora sguaiato, mentre intorno monta un ritmo sincopato e spezzato, e le tastiere modello clavinet puntellano e il sousafono di Tuba soffia in modalità New Orleans, tra “Come The Meantimes” e “(She Might Be A ) Granade”, per poi trasportare il mood blues su territori latini in “Cinco Minutos Cos Vos”, in bilico militante tra il Robert Wyatt di “Caimanera” e i Working Week di “Vencemeros”.
Il disco appare teso, vibrante e fantasioso, utile come sottofondo, come soundtrackdel momento, ma anche come strumento di critica sociale. Un bel risultato, tra danze pirotecniche e ballate struggenti.

Dopo cinque anni di silenzio discografico il musicista ritorna sul luogo del delitto con l'album Look Now, celebrando il ventesimo anniversario dell’encomiabile collaborazione con Burt Bacharach.
Elvis Costello rimette in moto la perfetta macchina pop dei tempi migliori, mettendo insieme una raccolta di canzoni non solo credibile, ma perfino affascinante. 
Sono infatti numerosi i brani che catturano l’attenzione anche durante il più distratto degli ascolti possibili (mentre conversate, o durante la visione della decima replica di un documentario di Focus), questo accade non solo in virtù della familiarità dello stile, l’album è quasi un incrocio tra Punch The Clock e Imperial Bedroom, ma soprattutto a causa dell’evidente qualità della scrittura.
Costello rinnova il sodalizio con Bacharach in ben tre brani (“Don’t Look Now”, “Photographs Can Lie”, “He’s Given Me Things”), i quali, pur elaborati con le consuete trame pop in chiave orchestrale e jazz, non sono privi dell'antico slancio creativo. 
Non ci sono solo autocitazioni musicali in Look Now: per l’introduttiva “Under Lime”, l’autore riporta in vita uno dei tanti personaggi delle sue canzoni (Jimmie da “Jimmie Standing In The Rain”), celebrandone il ritorno con un delizioso baroque-pop-beat.
Sacro e profano tornano a convivere nell’apparente contrasto tra l’irruenza di “Mr. & Mrs. Hush” e la sensualità r&b di “Burnt Sugar Is So Bitter” (scritta in coppia con Carole King), ma è solo un’illusione: entrambi i pezzi sono frutto del costante amore di Costello per le radici della musica americana. 
Tra le dodici tracce (sedici nella deluxe edition), è agevole trovare almeno un paio di canzoni da aggiungere ai classici di Elvis: che sia il toccante lirismo di “Stripping Paper”, il malinconico tono empio di rassegnazione di “I Let The Sun Go Down” (Costello vs Brexit) o il delizioso soul alla Sam Cooke di “Unwanted Number”, non importa.
La sensazione costante che accompagna l'ascolto di Look Now è quella di un artista che sembra aver non tanto ritrovato l’ispirazione (in verità mai persa), quanto la capacità di offrire un insieme organico e appassionante.

Ripristinati i canoni compositivi più tipici e caratteristici, il musicista londinese riattiva anche quel raffinato eclettismo stilistico che lo ha visto passare dal punk al jazz, dal country al soul, dall’Inghilterra all’America, ribadendo con l'album Hey Clockface quella curiosità intellettuale e culturale che è stata sempre alla base dei suoi progetti migliori.
A nutrire questa rinnovata eterogeneità creativa è anche la scelta di Elvis Costello di registrare l’album in tre diverse città, Helsinki, Parigi e New York, senza peraltro ricorrere ai consueti musicisti e collaboratori, fatta eccezione per Steve Nieve che ha avuto l’incarico di scegliere i membri delle session di Parigi.
Il risultato è straniante e stimolante. Hey Clockface è un disco posseduto da un’inquietudine che lascia il segno, il vigore di “No Flag” e l’originalità del frizzante disco-boogie di “Hetty O'Hara Confidential” entrano con forza nel canzoniere del musicista, album reso ancor più insolito dall'arabeggiante flusso orchestrale dell’introduttiva “Revolution #49” e dalle distonie jazz-pop-soul di “Newspaper Pane”, una delle pagine più originali del disco.
Abile narratore delle incongruenza e dell’empatia umana, Costello sembra animato da una disinvoltura e da un disincanto alla Randy Newman e da uno spirito bohemienne alla Tom Waits, l’ansioso contrappunto di sax, violino e chitarra in “They're Not Laughing At Me Now”, il tono mesto e funereo stile New Orleans di “I Do (Zila's Song)”, ed il miscuglio di swing, pop e blues di “Hey Clockface/How Can You Face Me?” sono in tal senso esemplari.

Nel puzzle multicolore di Hey Clockface trovano spazio anche gli slanci melodici più solenni, non solo l’ormai consueto richiamo a Burt Bacharach nella passionale e nostalgica “The Whirlwind”, o l’elegante struttura tipica delle torch song che anima la lasciva “The Last Confession Of Vivian Whip”, ma anche quella sublime arte del songwriting senza tempo e senza luogo che ha illuminato il passo di pochi autori (Jimmy Webb, Fred Neil, Harry Nilsson) che Elvis Costello raggiunge senza alcuno sforzo nella splendida “Byline”, perfetta chiosa per un album destinato ad arricchire il già cospicuo canzoniere dell’istrionico autore.  

La pubblicazione di un Ep con sei brani di Hey Clockface cantati in francese, La Face De Pendule A Coucou,  ed una stramba versione in spagnolo di This Year's Model, intitolata Spanish Model, mandano in crisi il pubblico e i fan, convinti che la parentesi positiva aperta da Look Now stia per chiudersi di nuovo. 
Inaspettatemente il musicista compie il passo più coraggioso e arduo, ovvero rielaborare la giovinezza e l’irruenza degli esordi, operazione concettualmente semplice ma non priva di ostacoli.
The Boy Named If (2022) rinnova la furia e gli impeti di This Years Model (“Mistook Me For A Friend”) le colte dissonanze di Blood And Chocolate (“What If I Can't Give You Anything But Love?”), il romanticismo di Painted From Memory (“Paint The Red Rose Blue”), il virtuosismo barocco di Imperial Bedroom (“The Death Of Magic Thinking”), e la consapevolezza di King Of America (“Mr. Crescent”).
Costello fa dunque Costello, cita se stesso, si autoriproduce, compie una simbolica partenogenesi, ma senza alcuna velleità autocelebrativa.
Il set di tredici canzoni di The Boy Named If è si familiare, ma altresì fresco e vigoroso, lo slancio e la vitalità dell’insieme sono percepibili in ognuno dei tredici brani.
L’aver messo mano su This Year’s Model per la versione spagnola ha offerto al musicista inglese l’opportunità di recuperare lo spirito rock’n’roll di Buddy Holly, il risultato è una delle canzoni più potenti di Costello da molto tempo a questa parte, “Farewell, OK”. Un brio che contagia anche il timbro vocale, di nuovo acuto e tagliente, nonché autentico punto di forza dell’altro caposaldo del disco “Magnificent Hurt”, un punk’n’roll contraddistinto da un suono più rude della chitarra e dal delizioso suono dell’organo farfisa.
Disco di routine?, forse, Elvis Costello dimostra di sapersi ancora divertire nel ruolo di musicista e autore di canzoni piacevolmente futili, valgano come esempio la circense giostra verbale e strumentale di “The Man You Love To Hate”, lo ska-pop di “The Difference” e lo sghembo power-pop di “Penelope Halfpenny” (una nuova “Veronica”).

The Boy Named If scioglie infine i dubbi di coloro che dopo l’esplosione di vita di Look Now avevano accolto Hey Clockface come un interessante esercizio di stile: queste tredici nuove canzoni dell’inglese sono senza dubbio alcuno il set più convincente pubblicato nel nuovo millennio. 

Contributi di Massimo Sannella ("Secret, Profane & Sugarcane"), Davide Sechi ("Wise Up Ghost And Other Songs"), Gianfranco Marmoro ("Look Now", "Hey Clockface", The Boy Named If") 

Elvis Costello

Discografia

ELVIS COSTELLO

My Aim Is True (Stiff, 1977)

7,5

This Year’s Model (Radar, 1978)

8

Armed Forces (Radar, 1979)

7,5

Taking Liberties (antologia, Columbia, 1980)
Get Happy!! (F-Beat, 1980)

6,5

Ten Bloody Marys And Ten How’s Your Fathers (antologia, F-Beat, 1980)

6,5

Trust (F-Beat, 1981)

6,5

Almost Blue (F-Beat, 1981)

5,5

Imperial Bedroom (F-Beat, 1982)

8

Punch The Clock (F-Beat, 1983)

6,5

Goodbye Cruel World (F-Beat, 1984)

5

The Best Of Elvis Costello: The Man (antologia, IMP, 1985)

King Of America (IMPC, 1986)

7

Blood And Chocolate (Demon, 1986)

6,5

Out Of Our Idiot (Demon, 1987)

6

Spike (Warner, 1989)

6

Girls, Girls, Girls (antologia, Demon, 1989)

Mighty Like A Rose (Warner, 1991)

6,5

The Juliet Letters (Warner, 1993)

7,5

2 ½ Years (box-set con "Live At El Mocambo", Rykodisc, 1993)

7

Brutal Youth (Warner, 1994)

5,5

The Very Best Of Elvis Costello And The Attractions (antologia, Demon, 1994)

Kojak Variety (Warner, 1995)

4

All This Useless Beauty (Warner, 1996)

6

Extreme Honey: The Very Best Of The Warner Bros. Years (antologia, Warner, 1997)

The Very Best Of Elvis Costello (antologia, Universal, 1999)

When I Was Cruel (Island, 2002)

6

Cruel Smile (Universal, 2002)

5

North (Deutsche Grammophon, 2003)

7

Il Sogno (Deutsche Grammophon, 2004)

5

The Delivery Man (Lost Highway, 2004)

6,5

My Flame Burns Blue (Deutsche Grammophon, 2006)

5,5

The Best Of Elvis Costello: The First Ten Years (antologia, Hip-O, 2007)
Momofuku (Lost Highway, 2008)

7

Secret, Profane & Sugarcane (4 ½ Records, 2009)

7

Look Now(Concord, 2018)

7,5

Hey Clockface(Concord, 2020)

7

La Face De Pendule A Coucou(Concord, 2021)

5,5

Spanish Model (Universal, 2021)

6

The Boy Named If(Emi, 2022)

7,5

ELVIS COSTELLO AND BILL FRISELL
Deep Dead Blue (live, Warner, 1995)

5.5

The Sweetest Punch (Universal, 1998)
COSTELLO & NIEVE
Costello & Nieve: For The First Time In America (box set, live, Warner, 1996)

7

ELVIS COSTELLO - BURT BACHARACH
Painted From Memory (Warner, 1998)

8

ELVIS COSTELLO - ANNE SOPHIE VON OTTER
Anne Sophie Von Otter Meets Elvis Costello – For The StarsFor The Stars (Deutsche Grammophone, 2001)

6,5

ELVIS COSTELLO - ALLEN TOUSSAINT
The River In Reverse (Verve, 2006)

6,5

ELVIS COSTELLO AND THE ROOTS
Wise Up Ghost And Other Songs (Blue Note, 2013)7,5
THE ATTRACTIONS
Mad About The Wrong Boy (Demon, 1980)
Pietra miliare
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 VIDEO
  
Alison (prima apparizione tv, da My Aim Is True, 1977)
(I Don'T Want To Go To) Chelsea (videoclip da This Year's Model, 1978)
Veronica (videoclip da Spike, 1989)
I Still Have That Other Girl (live, con Burt Bacharach, da Painted From Memory, 1998)