Joanna Newsom

Joanna Newsom

Visions of Joanna

L’elfo della California, l’arpista bambina che ha saputo sganciarsi dalla carovana pre-war folk per approdare nell’isola incantata di "Ys". Attirando a sé un supercast e confezionando uno dei dischi più chiacchierati del decennio Zero. Ora, un nuovo, ambiziosissimo album triplo consolida il successo. Il "magic moment" di Joanna Newsom, folksinger sospesa tra fascinazioni ancestrali e freschezza pop

di Claudio Fabretti, Ciro Frattini, Nicola Mazzocca

Un folk bambino

Joanna Newsom. Californiana senza sembrarlo minimamente. Un terzo donna, un terzo elfo, un terzo bambina. Grandi occhi chiari, viso e smorfiette da attrice, l'impressione di vivere in un mondo tutto suo. Suona principalmente l’arpa, in alcune occasioni anche il piano, l’harpsichord e un wurlitzer e, soprattutto, canta in maniera eccezionale. Non tanto in quanto dotata di chissà quale accademica preparazione vocale, ma solo perché si ritrova di natura un timbro fortemente caratteristico e originale, che è capace di sfruttare a dovere e nella maniera più giusta: Joanna Newsom canta con la capricciosa espressività di una bimba piccola. La teatralità con la quale pone l’enfasi su certe particolari frasi e passaggi è quella delle interrogative che vertiginosamente stridulano verso l’alto, delle esclamative che si abbattono verso il basso come il martello sull’incudine, dell’imbarazzo misto all’orgogliosa consapevolezza di stare parlando di "cose da grandi" quando si tratta di frasi d’amore, dell’eccitazione divertita di quando si propone un nuovo gioco che si è appena inventato.
Un talento purissimo, già emerso nelle prime prove da solista e che non poteva sfuggire alla crema dell'indie-rock a stelle e strisce. Ecco allora materializzarsi il sogno di ogni artista in erba. Un supercast di musicisti e produttori a disposizione, per confezionare il disco più acclamato e controverso dell'anno.

Co-prodotto da Van Dyke Parks, registrato nella parti vocali e di arpa da Steve Albini, mixato da Jim O'Rourke e masterizzato da Nick Webb presso gli studi Abbey Road di Londra, Ys diventa il crack del 2006: fa spendere fiumi d'inchiostro alla critica di mezzo mondo, conquistando le copertine dei magazine più prestigiosi, e schiude a Joanna le porte della indie-stardom.
Nuvole di hype, ma anche correnti velenose si addensano attorno all'elfo della California. Aggettivi come "prolisso" e "pretenzioso" iniziano minacciosamente ad accostarsi alle sue "cantate". E' il destino dei grandi? Lei, che non gradisce nemmeno l'aggettivo "childish" (infantile) per la sua musica, tira dritto, e rilancia la sua scommessa un anno dopo, con un Ep di tre brani e un titolo deliziosamente impertinente: Joanna Newsom And The Ys Street Band. Ed è ancora un piccolo incanto, all'insegna di un avant-folk senza tempo e senza etichette. Ma riavvolgiamo pure il nastro, e ripartiamo dall'inizio della storia: Nevada City, California, 18 gennaio 1982.

E' qui che nasce Joanna Newsom. In una famiglia di musicisti, tanto per cambiare: il padre è chitarrista country-folk, la madre una dottoressa aspirante pianista, con la passione per dulcimer, conga e autoharp, il fratello e la sorella si dilettano con batteria e violoncello. Non bastasse, ci sono anche vicini di casa illustri, come Terry Riley, Howard Hersh e W. Jay Sydeman.
A soli 7 anni Joanna comincia a studiare l’arpa classica, poi ne approfondisce le versioni celtica, venezuelana e africana. Impara, così, lo stile "polimetrico", fondato sull’alternanza sistematica di ritmi pari e dispari, in voga tra i suonatori africani di kora (una sorta di liuto a 21 corde).
Nel frattempo, si lascia irretire dal bluegrass e dal folk. E sogna di emulare le gesta dei suoi beniamini: Bob Dylan, Neil Young, Nick Drake, ma anche Karen Dalton, Patti Smith e Billie Holiday. Si iscrive al Mills College di Oakland, dove studia composizione e scrittura creativa. Ed è qui che avviene la nuova folgorazione, sulle rotte dei fratelli Lomax e del loro folk appalachiano.
Joanna scava nelle pieghe di quel canto ancestrale, così lontano e così vicino a quello tradizionale irlandese. E' attratta dai fantasmi del passato, da quelle foto color seppia lasciate ingiallire nei cassetti di famiglia. La sua arpa diventa lo strumento del riscatto di un piccolo mondo antico, costretto a un inesorabile oblio. Ma dietro quella ragnatela di corde, Joanna mette in mostra uno slancio moderno, un piglio sbarazzino di matrice quasi "pop". E, tra una cantata e l’altra, tiene d'occhio, con sorprendente lungimiranza, i "salotti buoni" dell'indie-rock contemporaneo.

L'esordio artistico, così, non ha molto a che spartire con i suoi polverosi numi tutelari. Joanna suona il piano e canta nei Golden Shoulders di Adam Kline, poi viene ingaggiata dall'ex compagno di college Rich Good dietro le tastiere dei suoi Pleased. Due formazioni pop-rock di onesta caratura (i Pleased ottengono anche buoni riscontri con l'album "One Piece From The Middle" del 2002), ma che servono alla Nostra soprattutto come trampolino di lancio per la sua vera missione: quella di contribuire al rinascimento folk del nuovo millennio. Ecco allora, nel giro di un anno, un paio di Ep autoprodotti a tracciare la via maestra: Walnut Whales (2002) e Yarn and Glue (2003) contengono in nuce buona parte del futuro repertorio newsomiano. Sono bozzoli acerbi e sgraziati, come si confà agli esordi, ma trasudano già quel gusto per il folk trasognato e per l'arrangiamento neoclassico che maturerà nei due album successivi.

Il Principe azzurro

Tanto basta, comunque, alla damigella Newsom per colpire al cuore il capofila del nuovo alt-folk americano, Will Oldham, aka Bonnie "Prince" Billy, che la prende sotto la sua ala protettiva, portandosela in tour come spalla e "accasandola" sotto le rassicuranti insegne della Drag City, per la quale esce nel 2004 il primo full-length a firma Joanna Newsom, The Milk Eyed Mender. Un debutto promosso da alcune apparizioni in alcuni show al fianco dell'amico Devendra Banhart e dell'altra stella del songwriting in rosa, Cat Power. Ma, soprattutto, un debutto di valore. Dodici vignette, tenere e gracchianti, dodici favole fra folk tradizionale e cantautorato indipendente. Il tipo di energia e vibrazione che trasmette non è tanto una consapevole e ragionata "gioia" di vivere, quanto piuttosto l’incosciente e smodata "voglia" di vivere, senza filosofeggiare su quanto belle siano le cose del mondo, ma trasformandole in maniera ingenua e automatica in emozioni.

La musica di The Milk-Eyed Mender è dunque il palcoscenico che la Newsom mette su per dare la possibilità alla vera protagonista di muoversi: suonato quasi interamente con l’arpa, maneggiata dalla nostra in maniera assolutamente egregia, il disco si snoda attraverso delicate ballate che pescano sia dalla tradizione folk, sia dalle tipiche armonie di un’altra tradizione molto più recente, che si presume essere quella degli anni del suo avvicinamento alla musica popolare, il pop-rock indipendente di scuola americana. L’utilizzo dell’arpa rende queste due correnti coese e conciliabili, e tutte le canzoni sono musicalmente gradevolissime e ben curate, sia quando sono leggermente sbilanciate da un lato, sia quando lo sono dall’altro.
E poi ci sono i testi: ognuno di essi è una piccola chicca, sospesa tra il fantastico-favolistico e una pungente e sbarazzina ironia. Si sentirà cantare di improbabili accostamenti e allitterazioni ("Bridges & Balloons", "Peach, Plum, Pear", "Clam, Crab, Cockle, Cowrie"), si scoprirà che la differenza tra "The Sprout And The Bean" (nell’omonima canzone") "is a golden ring", ci si troverà al cospetto di professori pedanti e bacchettoni, bravi solo a criticare ("hand that pen over to me, poetaster!" – e quel "poetaster!" dice tutto, come una versione comica e sciancata dell’headmaster di Morrissey) e ancora costellazioni ("Cassiopeia"), cigni bianchi ("Swansea"), gente che succhia limoni ("This Side Of The Blue") e che distrugge la propria cena a colpi di karate ("The Book Of Right-On"). E poi il punto più alto di tutta l’opera, quel coro di bambini che in "Peach, Plum, Pear" canta la frase "I am sad" con il tono di chi non gliene può fregare di meno, esattamente all’opposto (e quindi in maniera identica) dei bimbi che alle feste scolastiche di carnevale intonano quelle canzoni tipo "ah che divertimento!" quando in realtà si stanno evidentemente e bellamente rompendo i coglioni.
E a chiudere il disco stavolta non è l’ultima, splendida canzone, ma quel cuoricino rosso rosso disegnato nel booklet sotto i ringraziamenti, quasi a ricordarci che la musica è, soprattutto, una questione di cuore.

L’album riscuote un buon successo nel giro indie e spinge Joanna a partire per una tournée mondiale, come spalla a personaggi del calibro dei Pixies, di Kristin Hersh e di Devendra Banhart. Il feeling con quest’ultimo e la faciloneria della critica nel coniare e affibbiare etichette fa sì che anche la Newsom finisca ufficialmente imbarcata nella carovana del "pre-war folk". Una scena fantasma, in realtà, frutto soprattutto della volontà di trovare un denominatore comune in quei folksinger d’oltreoceano che stanno facendo della musica popolare americana e della scarna immediatezza acustica il loro vessillo ideologico, abbeverandosi alle fonti degli Appalacchi o inseguendo i demoni che affollano le ballate dell'American Anthology of Folk Music.
I compagni di giro sono allora Animal Collective, CocoRosie, Skygreen Leopards, Devendra Banhart & C.: autori dagli stili disparati, ma uniti da una vaga attitudine psych-folk fricchettona. L’etichetta rischia di ingabbiare la giovane Joanna, di incatenarla a un dogma ideologico nato già vetusto e superato in partenza. E allora, come in una favola, l’elfo di Nevada City si trasforma in principessa.

Arpa letale

Due anni per capovolgere un mondo. La cantante improvvisata guarda oltre, oltre quella che era già una sorpresa. Si chiude in una casa isolata sulle colline nel nord della California. Prepara cinque composizioni, dai sette ai sedici minuti. Affonda ancor più nelle radici, a partire dall'artwork (a cura del pittore Benjamin Vierling) in cui diviene bellezza medievale, capelli biondi sciolti e mossi, corona di fiori, finestra sul fiume e sulle montagne, una tenda rossa.
Ys, questo il titolo dell'opera seconda, prende il nome da un’isola , teatro di una leggenda: la protagonista è una principessa che, trasformata in sirena, incanta i marinai con il suono della sua voce.
Il disco vive una lunga gestazione. Le prove dal vivo, gli arrangiamenti di archi, le collaborazioni eccellenti.
Il primo lavoro è la stesura, per voce e arpa, e il primo nome pesante speso è quello di Steve Albini.
Il secondo è l'orchestrazione (per la quale verranno usati trenta elementi), affidata all'immenso maestro Van Dyke Parks, al quale la Newsom presenta direttive e idee, soprattutto riguardo il mood.
Infine, il terzo, dopo la registrazione, è il missaggio, affidato a Jim O'Rourke.
E' esattamente in questo momento che marketing e ambizione si fondono. Filtrano i nomi, inizia il chiacchiericcio: finisce che Ys, la cui uscita è prevista per novembre, diviene reperibile online sin da settembre. E finire in rete molto tempo prima aiuta parecchio la Newsom, il cui disco è di digeribilità non affatto semplice.
Quando esce nei negozi, Ys ormai è già il disco più chiacchierato dell'anno.

Cinque brani, tutti piuttosto lunghi. Apre l'immaginifica storia di "Emily" (dedicata alla madre), che, col senno di poi, rappresenta anche la cifra stilistica dell'intero disco. Non è una canzone, piuttosto un lungo racconto musicato, intriso di poesia (occhi ai testi). C'è ben poco di rock, c'è molto di folk: il grosso, però, è personalità. L'arpa accompagna, facendo da chitarra, la voce, che è la vera protagonista, assieme alle melodie.
La Newsom ha tagliato le asprezze, che pure erano un valore, del disco d'esordio. Il canto è più misurato, centrato e potente: adattato al campo d'azione del disco. Quel che ha perso in vispezza ha preso in focalizzazione. Il suo è un dono divino, è qualcosa di unico. A venire in mente è Bjork, ma il paragone regge a metà, laddove all'angelicità dell'islandese, la giovane californiana contrappone un timbro molto più umano, e proprio per questo più raro.
Melodicamente colpisce invece la grazia delle linee, che han rotto i ponti con i riferimenti contemporanei, affondando in paesaggi più lontani, eppure meno esplorati, in quanto la Newsom si ritaglia spazi personali, rifuggendo soluzioni sentite, o quanto meno, comode, riuscendo a suonar nuova pur basandosi sull'antico.
L'altro elemento caratteristico sono gli archi, psichedelici, stranianti, spesso semplicemente sovrapposti allo sviluppo della canzone, volando su, o entrando in tagli, anche profondi, con l'intento di rappresentare un piano ulteriore, un effetto allucinante (hallucinatory effect, come testualmente afferma la stessa Newsom). Il risultato, già bellissimo di per sé, è poi nobilitato dal finale, con la voce che cresce e il brano che si velocizza, scandendo in modo accorato quello che potrebbe essere riconosciuto come inciso; andando poi a morire nel congiungimento di arpa e orchestra.
La seconda traccia, "Monkey & Bear", storia di un amore impossibile, porta invece in scena una rappresentazione più tradizionale, se non nella struttura, che resta unica (seppur maggiormente lineare che negli altri pezzi), sicuramente nella melodia e negli archi, dal taglio fortemente classico; eppure sorpresa da un finale thrilling.
La terza, "Sawdust & Diamonds", presenta un'altra variazione al canone, spogliandosi dell'orchestra e basandosi su un ficcante pizzicare d'arpa, a mo' di sonata di piano, appaiato a una recitazione dolce e intensa, scossa dalle aperture emozionali della melodia. Sono i due brani "minori" del disco, pur viaggiando, soprattutto quest'ultima, su livelli di alta scuola.
D'altro canto, "Only Skin" è l'apice della raccolta. Gli elementi di "Emily" sono tutti presenti, ed estremizzati, in sedici minuti e passa di inseguimenti di melodie, a disegnare una meravigliosa struttura in movimento, che scorre fluida grazie ai giochi di rallentamento-ripartenza, dovuti alla deliziosa linea melodica principale, sottolineata, tra gli altri, da fisarmonica e fiati. Il clou, anche in questo caso, è la svolta finale, quando, dopo un lungo passeggiare sugli spuntoni dei violini, Newsom inizia a squittire lanciando il tema principale, cantato in un impeto di grandeur a doppia voce con Bill Callahan (suo fresco partner sentimentale, cui aveva già regalato una comparsata in "A River Ain't Too Much To Love") e il baritono di lui molla le redini alle arrampicate di lei, con tanto di note di banjo e percussioni secche a fare da sfondo.
Conclude, senza sfigurare affatto (anzi), "Cosmia", la più "canzone": arpeggi aggraziati e archi gonfi d'emozione, strepitoso sussulto strumentale folkloristico a metà brano, melodia aperta, ed esplicita, come mai era avvenuto ("and I miss your precious heart"), portata al massimo dell'espressività proprio nell'ultimo minuto.

A dispetto di una pesantezza strutturale, vuoi per la lontananza da canoni noti, vuoi per la scelta di usare gli archi (e non solo) in modo spesso disturbante, Ys si rivela una piccola opera d'arte. Un disco che forse manca della fruibilità e della forza espressiva indispensabili per meritare la parola "capolavoro", ma che non fa rimpiangere la svolta neanche per un secondo, regalandoci, anzi, la conferma, ormai certa, di un'artista curiosa e geniale.

Il 2006 si chiude in gloria per Joanna, coccolata dalla critica e bistrattata solo da uno sparuto gruppuscolo di bastian contrari, quel tanto che basta per far discutere nei mesi successivi, tenendo desta l’attenzione sul suo nome. Neanche il suo manager avrebbe potuto immaginare una sceneggiatura più propizia.

E mentre nelle redazioni delle riviste e nei forum "indie" di mezzo mondo ancora si discute sulle percentuali di monossido di hype che inquinerebbero la sua musica, lei prosegue imperterrita lungo i sentieri del suo Paese delle meraviglie. Nasce così un’inaspettata appendice a Ys, un Ep al quale, parafrasando il verbo springsteeniano, viene dato l’irriverente titolo di Joanna Newsom And The Ys Street Band. A dar man forte alla Newsom, presso gli studi Record Plant di Oakland (California), un ensemble comprendente Ryan Francesconi alla tamboura e alla chitarra, Dan Cantrell alla fisarmonica, Neil Morgan alla batteria e voce e Kevin Barker al banjo e chitarra.
Solo tre i brani, all’insegna di un folk straniante e celestiale. Uno è inedito, e vale il prezzo del disco: la fiaba antica di "Colleen", sospesa tra le malie medievaleggianti della fisarmonica, i soffici ricami d’arpa e chitarre, i sapori celtici (qualche eco dal traditional irlandese "The Well Below the Valley-O") e un canto che svolazza con disinvoltura tra sussurri angelici, gridolini e vocalizzi acrobatici. Il delirante testo narra di una donna che ha dimenticato di essere stata una balena e che ora indossa un corpetto d’osso di balena (e quando il cetaceo le appare in sogno, le chiede: "What's cinched 'round your waist, Colleen?/ Is that my very own baleen?/ No! Have you forgotten everything?").
Gli altri due brani di una tracklist che inizia sempre con la lettera C sono la reprise di "Clam, Crab, Cockle, Cowrie", dolce ballata tratta dall’album d’esordio, corroborata da un’impronta più schiettamente live, e una versione allungata e quasi "progressiva" della "Cosmia" di Ys, infarcita di chincaglierie acustiche e suggestioni esotiche, con una coda free-folk a tinte psichedeliche.
Si rinsalda il vincolo con il folk irlandese, sia nei suoni, sia nel lessico ("Colleen" nell’uso irlandese indica genericamente una "ragazza"), e l’eco di Kate Bush risuona prepotente in un canto ormai profondamente maturato rispetto agli esordi.
Una postilla inattesa e gradita, dunque, che, pur nella sua brevità, riesce a esprimere tutta l’essenza del Newsom-sound.

Conquistato il successo, la Newsom cambia strategia. Sul nuovo album, mantiene il più stretto riserbo sino a un mese dall'uscita: da lì mano a mano vengono rilasciate pillole. La durata, la copertina, la tracklist. Un primo brano, un secondo, un terzo. Non vengono tirati in ballo collaboratori altisonanti, né anticipazioni giornalistiche pronte a decantarne le lodi.

Un madrigale in tre atti (e la sua appendice)


Joanna NewsomCosì quando nel 2010 esce l'ambizioso triplo Have One On Me ci si può soffermare soprattutto sulla sostanza. E' un disco cantautorale, un lunghissimo percorso di fantasia in cui una musicista con una personalità profonda e fuori dagli schemi cerca - e trova - uno status di classico moderno.
Laddove il vecchio album eccedeva nei suoi estremismi, prestando il fianco agli entusiasmi più accesi e alle critiche più strumentali, Have One On Me lavora di lima e cesello. I tre piani strutturali (voce, arpa e archi) si fondono e si arricchiscono, grazie alla maturità raggiunta dalla Newsom musicista, ormai padrona dello sbizzarrio della sua voce e delle sue composizioni.
Il grosso è rappresentato da lunghe ballad di durata fra i sei e i nove minuti, dove per lo più dei casi la Newsom assume il ruolo di band leader o di vocalist d'orchestra. Gli archi non svolazzano più sui brani come un'entità sovrastante ma sono parte fra le altre del suono, tutt'uno coi fiati e l'arpa, con il piano e... con la batteria quando presente. Gli angoli della voce sono arrotondati in una sequela di gorgheggi e mezzi falsetti, in modo che il suo particolare timbro childish suoni più pulito e più nel pezzo, portando alla mente Kate Bush per ben più di una volta.
La Newsom cerca maggiormente la forma, cercando di bagnare le sue melodie nei grandi mari del folk, del country e financo della musica nera (e stavolta le memorie sono di Joni Mitchell). Non può più limitare i suoi percorsi ai duelli di arpa e archi e aprire squarci melodici di tanto in tanto, e allora prova a scrivere canzoni che sono sì ancora romanze e percorsi nobilitati dalle musiche, ma che stavolta devono riuscire a reggersi di per sé quali melodie. L'ispirazione che la accompagna è strabiliante, perché su 18 brani diluiti in due ore quelli calanti si contano sulle dita di una mano, e si mantengono oltre il dignitoso (ad esempio "No Provenance", "Occident").
L'iniziale "Easy" è una delle melodie più fresche, con tanto di strumentazione al completo ad accompagnare le leggiadre evoluzioni canore. Da qui comincia un lungo peregrinare di variazioni a tema: da una dolce sonata per sola arpa ("'81") a un ritmato saltabeccare con mescole country ("Good Intentions Paving Company"), da un vecchio canto rurale aggiornato ai tempi dello slo-core ("Baby Birch", con speciale contributo di qualche nota di chitarra elettrica) a uno splendido folk in evoluzione ("In California"), da una desolata serenata ("Go Long") a un madrigale ("Kingfisher") sino a un mezzo blues pianistico ("Does Not Soffice"). I brani si susseguono come rituali antichi: le melodie diventano familiari, si aprono e si svelano, si assopiscono e si rialzano poderose.

Have One On Me
è un disco partecipativo, che cerca l'emozione e la compassione e che adatta a questo fine - con una naturalezza a dir poco sorprendente - uno stile ostico e che sembrava andare in tutt'altra direzione.

Più di cinque anni dopo, arriva il seguito: Divers (2015). Dopo cotanta ampiezza e ambizione, è un disco che ricalibra la sua monumentalità per un più facile formato medio. E’, banalmente, la versione mignon del predecessore. Come al suo solito la Newsom raggiunge una fusione dimessa e anti-spettacolare tramite arrangiamenti imprevedibili (la title track "Divers", pastorale ode da camera Kate Bush-iana di "Anecdotes", la naivetè di "Goose Eggs", "Sapokanikan"): autentici gioielli, fossero di una cantautrice alle prime armi.
La Newsom ha sempre e comunque un fuoco interiore invidiabile: è proprio questo a scodellare “Time As A Symptom”, la sua via titanicamente wagneriana (e filosofica) all’ode notturna, e “Leaving The City”, meraviglia ancestrale, uno dei suoi migliori travestimenti da fatina postmoderna. I brani brevi poi scavano abissi psicologici con ancor più scioltezza, come “The Things I Say” e il piccolo country lunare “Same Old Man”. E' il primo disco normale della cantautrice di Nevada City. Significa, per i suoi mirabili standard, inventiva ricca, ma anche manierismo. Un'opera dolce più che epica con la forza (e i rischi) di chi si mantiene nel bilico tra onirico e terreno.

Contributi di Michele Saran ("Divers")