Leonard Cohen

Leonard Cohen

Il poeta zen con voce di rasoio

Poeta, romanziere, cantautore, Leonard Cohen è un artista complesso e affascinante. Turbamenti religiosi e malinconie esistenziali hanno fatto scrivere ai critici americani: "Impossibile ascoltare un suo album quando fuori splende il sole". Ma la sua voce "simile a un rasoio" e le sue canzoni hanno influenzato generazioni di cantautori (da Nick Cave a Fabrizio De André) e hanno fatto sognare milioni di fan nel mondo. Storia di un lungo viaggio, iniziato nel 1968 con dieci "Songs"...

di Claudio Fabretti, Valerio Bispuri

"Per sua natura, una canzone deve muovere da cuore a cuore". È questa la poetica e la filosofia con cui Leonard Cohen ha costruito non solo la sua carriera artistica, ma la sua stessa vita. Da una montagna sovrastante Montreal a un'isola greca, attraverso un incredibile viaggio che lo ha portato a Los Angeles, ha esplorato quella "remota possibilità umana", divorando sensazioni, senza rimorsi. La sua musica si avvicina alla poesia, al sentimento delle cose sfiorate, allusive solo in apparenza. La grande passione è sempre stata la scrittura, il succedersi delle parole. Negli ultimi trent'anni sono usciti otto volumi di poesie, due romanzi e undici album, che negli States non tutti conoscono. In Europa, invece, il cantautore canadese è un vero idolo. In Polonia vende più dischi di Michael Jackson, e a Cracovia si svolge ogni anno un Leonard Cohen Festival. Innumerevoli personaggi del rock da Nick Cave a Morrissey hanno riconosciuto di essere stati fortemente influenzati dalla musica di questo menestrello delle emozioni. Il tempo di Cohen ha un suo ritmo: "Di solito tendo alla tristezza. Per alcune canzoni ho impiegato diversi anni. Nessuna di essa è stata un parto facile, dopo tutto questo è il nostro lavoro. Tutto il resto va spesso in malora, in bancarotta totale, e così quel che rimane è il lavoro, ed è quello che faccio per tutto il tempo, lavorare, creare l'opus della mia vita. Il nostro lavoro è l'unico territorio che possiamo governare e rendere chiaro. Tutte le altre cose rimangono confuse e misteriose".

Nato da genitori ebrei, a nove anni Leonard perse il padre. Un fatto che segnerà in maniera indelebile la sua personalità. La sua attività artistica inizia soprattutto in veste di poeta e scrittore. La sua prima collezione di poesie, "Let Us Compare Mythologies", viene pubblicata nel 1956 quando è ancora studente universitario. "The Spice Box Of Earth" (1961), la sua seconda collezione, lo lancia verso la fama internazionale. Dopo una breve parentesi alla Columbia University a New York, Cohen ottiene una borsa di studio e parte per l'Europa, stabilendosi alla fine nell'isola greca di Hydra, dove convive per sette anni con Marianne Jenson e il figlio di lei Axel. In Grecia scrive due romanzi, due piccoli capolavori: "The Favorite Game", nel 1963, ritratto di un giovane ebreo di Montreal con ambizioni artistiche, e "Beautiful Losers", nel 1966, dalle venature noir, un'opera epica e incomprensibile con accenti sacrilegi e religiosi. Ogni suo libro venderà nel mondo oltre ottocentomila copie. Ma la vita di Cohen è stata sempre contrassegnata da una costante irrequietezza: "Per scrivere libri hai bisogno di un posto dove stare. Quando uno scrittore lavora a un romanzo, tende a circondarsi di determinate cose. Ha bisogno di una donna. Ed è bello anche avere dei bambini fra i piedi, poiché cibo non manca. Siccome io queste cose le avevo già, ho deciso di diventare 'songwriter'".

Ma già a vent'anni si era avvicinato alla musica, fondando la band di country-western Buckskin Boys: "Ero pieno della frenesia di suonare e dimenarmi battendo i piedi, celebrando una sorta di vita emozionale insieme a tanti che la pensavano come me. Il country, allora, soddisfaceva queste esigenze". In modo naturale, seguendo un percorso interiore, Cohen ha trovato un suo stile, iniziando così ad essere il cantore della malinconia. Giunto a New York in pieno folk revival, con Dylan che spopola al Greenwich Village, Cohen entra così in contatto con Judy Collins, che lo fa debuttare al Festival di Newport. Il suo talento non sfugge al discografico John Hammond che gli propone il primo contratto. Da lì alla pubblicazione di un disco il passo è brevissimo.

Il suo album d'esordio, Songs Of Leonard Cohen, uscito nel 1968, è quanto di più lontano si possa immaginare dagli umori "rivoluzionari" dell'epoca: mentre songwriter come Bob Dylan e Joan Baez scendono nell'arena politica, Cohen rpiega sull'individuo. Il suo universo ruota attorno a una serie di "coppie": sesso-religione (il binomio su cui Nick Cave costruirà una carriera, e che carriera!), santo-discepolo, peccato-redenzione, vincente-perdente, schiavo-padrone. E la tensione biblica di Dylan in Cohen si fa più umana e indulgente, anche se non meno "apocalittica". Originario di Montreal, città francofona del Canada, Cohen è anche il più "europeo" dei cantautori d'oltre oceano. Il suo repertorio è figlio della chanson francese di Jacques Brel e George Brassens, del folk americano, ma anche di una peculiare predilezione per i temi biblici (forte in tal senso l'influsso delle sue radici ebree, così come per il suo umore nero, vagamente yiddish) e per la mitologia classica. Cantore della malinconia, della solitudine, dell'emarginazione e degli amori persi, Cohen scandaglia il cuore di tenebra dell'umanità, componendo un affresco di struggente lirismo. Le sue dieci "Songs" colpiscono subito l'ascoltatore per la delicatezza del tocco, per il tono soffuso e romantico, per la dimensione profondamente intimista che le pervade e per la straordinaria grazia delle melodie.

L'iniziale "Suzanne", ripresa qualche anno dopo anche da Fabrizio De André (il suo miglior discepolo insieme a Nick Cave), è una canzone di straordinaria eleganza, dominata dal registro profondo del cantautore di Montreal che infonde un senso di smisurata tenerezza. La protagonista (che può essere liberamente considerata una santa, una vagabonda, una pazza o una puttana) diventa l'unica ancora di salvezza, l'oggetto di una devozione soprannaturale. Cohen narra pacatamente la sua fiaba, contornato da teneri arpeggi di chitarra (classica), gemiti di violino e angelici cori femminili. Le atmosfere sinistre di "Master Song", con fiati in evidenza e riverberi di tastiere sullo sfondo, devono aver insegnato molto a Nick Cave e ai tanti suoi emuli degli anni 90. La dicotomia schiavo-padrone è letta qui in un continuo ribaltamento di ruoli: per Cohen, infatti, c’è sempre gloria e luce nella sconfitta, e spesso tra vinti e vincitori si annullano le differenze. I toni si fanno ancor più soffusi e caldi nella lenta "Winter Lady", melodia per flauto e clavicembalo, mentre "The Stranger Song" sfodera quell'arpeggio di chitarra classica in pochi accordi, eppur velocissimo, che diventerà un classico coheniano (qualcosa di simile realizzerà Fabrizio De André in "Amico Fragile").

La combinazione della voce, che sussurra con la delicatezza d’un menestrello medievale, e della chitarra classica, finemente arpeggiata, è impeccabile. Basta anche solo questo binomio a rendere magica l'atmosfera di "Sisters of Mercy", un'altra ballata trasognata in bilico tra una ninnananna e un salmo religioso. Anche se le protagoniste sono prostitute. Attorno all'asse voce-chitarra, però, affiorano altri suoni: sprazzi di fisarmonica, trilli di campanelli, tintinnii di xilofono. È la canzone da cui prenderà il nome uno dei gruppi più "scuri" della storia del rock: i britannici Sisters Of Mercy. Perfetto crooner in giacca e cravatta, come da copertina, Cohen non si scompone mai. Nemmeno quando la musica sale di ritmo, come nella struggente serenata di "So Long, Marianne", con batteria e violino a dar man forte al suo canto. Nemmeno quando c'è da dirsi addio, come nella ballata di "Hey That Way To Say Goodbye", intrisa di umori country. E nemmeno quando scende per strada tra i disperati di "Stories Of The Street", dove pure si mette a nudo con feroce realismo. La cupa parabola di "Teachers" e la gelida "One of Us Cannot Be Wrong", infine, chiudono l’album nel segno di una contrita mestizia.

Songs Of Leonard Cohen insegnerà a tanti aspiranti songwriter come si possa creare il massimo della drammaticità con il minimo necessario di arrangiamenti. Il paesaggio è scarno, freddo, invernale: un grande vuoto popolato di spettri che vagano senza meta o perfino "per sbaglio"("Some Girls Wander By Mistake" in "Teachers"). Eppure in tanta desolazione l'emozione è dietro l'angolo, pronta a sorprenderti e a colpirti al cuore. Perché Cohen sa come scalfire la scorza amara della solitudine e violare l'intimità dei sentimenti.

Songs From a Room (1969), il suo secondo disco, prosegue sulla stessa falsariga, tra arrangiamenti scabri e claustrofobici, e storie d'ordinaria disperazione. "Seems So Long Ago Nancy" è una meditazione al ralenti che implode su se stessa in un vortice di pura angoscia. Le epiche "Story Of Isaac" e "The Partisan" scavano nel rapporto tra l'uomo e la barbarie della guerra. Ma il capolavoro assoluto del disco è "Bird On A Wire", disperato apologo su libertà e solitudine: "Like a bird on a wire/ Like a drunk in a midnight choir/ I have tried my way to be free". Ad aprire uno spiraglio di luce in tanta oscurità sono le conclusive "Lady Midnight" e "Tonight Will Be Fine", declamate da Cohen su toni fiabeschi e trasognati.

Songs Of Love and Hate (1971) consacra ancora una volta Cohen maestro del senso di mortificazione e cantore della solitudine. Aumenta la durata dei brani e affiora talvolta un leggero accompagnamento d’archi, ma restano sempre scarne e tese le atmosfere, improntate a un cupo esistenzialismo. L'abbinamento chitarra-voce continua a funzionare, mantenendo intatto l'originario incanto. Il capolavoro stavolta è "Famous Blue Raincoat", quadretto ghiacciato di un'amicizia finita e tradita: "And what can I tell you my brother, my killer/ What can I possibly say?/ I guess that I miss you, I guess I forgive you/ I'm glad you stood in my way". Lo spirito epico di Cohen, invece, si esprime al meglio nella struggente ode a una Giovanna d'Arco altera e stanca (un altro brano che sarà reinterpretato da De André). "Last Year's Man" è invece l'ennesima parabola para-religiosa di un uomo sempre più perso nei suoi tormenti esistenziali.

Nel 1972 esce Live Songs, l'unico suo album dal vivo, con una incredibile improvvisazione di 14 minuti su "Please Don't Pass Me By" oltre alle versioni live di canzoni tratte dai suoi tre album. Su New Skin For the Old Ceremony (1973), che musicalmente ha un sound più orchestrale (opera del produttore John Lissauer), proseguono le sue investigazioni sugli anfratti più reconditi dello spirito umano.

Per alcuni anni, poi, Cohen si allontana dalle scene, pubblicando solo un album di successi, Best of Leonard Cohen (1975). Nel 1977 torna con Death Of A Ladies' Man, disco dalla gestazione controversa a travagliata: inizia come una collaborazione con il famoso produttore Phil Spector ma si conclude con Cohen escluso dalle ultime sedute di registrazione. "Fu una catastrofe", ricorda Cohen. "Le voci sono tutte mal fatte e Phil ha mixato il disco di nascosto. Dovevo decidere se mettermi a fare una guerra o lasciare perdere. Ho preferito lasciare perdere".

Recent Songs, del 1979, è un disco ancor più complesso. Coadiuvato da Henry Lewy, Cohen non celebra solamente i travagliati amori di coppia, ma comincia a riflettere sulle sue lunghe esplorazioni nell'arena delle religioni, arrivando perfino a far parte di Scientology, prima di approdare finalmente al buddismo. Una volta Allen Ginsberg gli domandò come faceva a conciliare la religione giudaica con la dottrina Zen, e Leonard ribatté che lo Zen è più una forma di meditazione atea che una religione deistica. Anche quando viveva a Chelsea Hotel e ingeriva Lsd, coltivava un profondo e mai superato senso di autocompassione. Non diede mai colpa del suo malessere alla famiglia, ovvero alle usanze della sua "tribù".

Various Positions, del 1984, è un approfondimento delle sue riflessioni religiose, ma queste specie di salmi, tutti nati da una dolorosa odissea spirituale ("Hallelujah", "The Law", "Dance Me To The End Of Love", "If it Be Your Will") suonano talmente fresche e gradevoli da poter essere scambiati per "ordinarie" canzoni d'amore. In realtà, in questo periodo il dramma filosofico e religioso del cantautore canadese è talmente profondo da sbilanciarlo completamente. "C'erano molti lati di me che avevo sostenuto con la religione" dichiarò Cohen a L.A. Style nel 1988. "Se hai a che fare con questo materiale non ci puoi mettere Dio. Pensavo che potevo illuminare il mio mondo e quello della gente intorno a me e di potere prendere il cammino di Bodhisattva cioè il cammino dell'aiutare gli altri. Pensavo di poterlo fare ma non ci sono riuscito. Questa è una strada dove persone molto più forti, generose e nobili di me si sono bruciate. Quando si comincia a trattare materiale sacro ci si lacera profondamente".

I'm Your Man, l'album del 1988, è la sintesi di tutta l'amarezza e la paura di affrontare l'esistenza. Un disco accolto finalmente in maniera entusiastica dalla critica americana, che definisce la sua voce "simile a un rasoio". La stessa critica che riteneva "impossibile ascoltare un suo album quando fuori splende il sole". Grazie a ballate formidabili, come "First We Take Manhattan", "Tower Of Song" e "Ain't No Cure For Love", e a una fortunata fusione tra la radice folk di Cohen e arrangiamenti più ritmati e moderni, l'album conquista il primo posto nelle classifiche di molti paesi europei. Con questo disco, Cohen conferma di non essere solo il glorioso fossile di un'epoca morta e sepolta, quella del folk e dei sogni hippie, ma di essere davvero un cantautore universale, in grado di aggiornare il proprio suono e i propri testi allo spirito del suo tempo senza mai perdere la sua aura di "classicità".

Nel 1992, con la pubblicazione di The Future, il suo undicesimo disco, Cohen torna a levare la sua voce per un'angosciata e apocalittica profezia sul futuro dell'umanità: "Give me back the Berlin wall/ Give me Stalin and St Paul/ Give me Christ or give me Hiroshima/ Destroy another fetus now/ We don't like children anyhow/ I've seen the future, baby: it is murder" (la memorabile title track). Un pessimismo cosmico che pervade un po' tutta l'opera, trascinata anche da brani come "Waiting for the Miracle", "Closing Time" (che qualcuno ha definito la sua canzone più bella di sempre) e "Anthem", capaci ancora una volta di aggiornare il Cohen-sound al ritmo dei tempi: niente più folk acustico, ma una sorta di pop d'autore dai contorni oscuri e inquietanti. L'album diventerà un grande successo internazionale e si rivelerà il più venduto in assoluto della sua discografia.

Molti sono i registi che hanno voluto la sua musica come colonna sonora, da Robert Altman (il cui film "I Compari" del 1971, divenne una sorta di lungo video delle sue canzoni) a Nanni Moretti che in "Caro Diario" ha inserito proprio "I'm Your Man". E Jennifer Warnes ha pubblicato nel 1986 il fortunato "Famous Blue Raincoat", un disco composto interamente di canzoni di Cohen.
Oltre a scrivere e a fare canzoni, l'artista canadese ama anche elaborare i propri video: nel 1984 ha scritto, diretto e musicato "I Am A Hotel", un corto di mezz'ora che si è aggiudicato il primo premio al Festival International de Television de Montreux (Svizzera) ed è stato sottoposto alla giuria degli Oscar. Ha collaborato con il cantautore Lewis Furey su "Night Magic", una opera rock cinematografica per la quale ha vinto il premio Canadian Juno per la "Miglior Colonna Sonora" nel 1985. Ha anche interpretato un cameo, come attore, nella serie "Miami Vice".

Per lungo tempo, poi, il maestro canadese scompare dalle scene. Dal 1993 al 1999, vive in un monastero zen a Mount Baldy, 200 chilometri da Los Angeles. Solo, lontano dal mondo, in un silenzio senza alterazioni. Dal suo esilio volontario, filtrano poche notizie. Ma arriva ancora della musica. È quella di Field Commander Cohen, un album dal vivo con materiale la cui registrazione risale al suo tour del '79. Un disco che si avvale di arrangiamenti particolarmente ricchi, che donano nuova luce a classici come "Lover, Lover, Lover", "Hey That's No Way To Say Goodbye", "The Stranger Song", "Memories" e "So Long, Marianne". Un album che suona molto rock e testimonia la naturale paternità di Cohen sulle frange più colte e poetiche del cosiddetto post-rock.

Nel 2001 Cohen rompe definitivamente l'esilio zen in cui si era rifugiato e pubblica Ten New Songs, primo lavoro in studio dopo quasi dieci anni, registrato con l'aiuto della vocalist e autrice Sharon Robinson. Da due anni è tornato nel suo appartamento da scapolo, un duplex che divide con la figlia. "Lo dice sempre anche Roshi, il mio maestro zen che ora ha 94 anni: il paradiso non è su questa terra - ha commentato ironicamente in un'intervista a "Musica"-. Ho cercato per anni di convertirlo al vino rosso, ma continua a preferire il sakè... Decisi di entrare nel monastero di Roshi perché cercavo delle risposte. E ci sono rimasto più di quanto pensassi perché il maestro era affidato alle mie cure e adorava le mie zuppe di pollo. Non cercavo una nuova religione né l'ebbrezza di una conversione. Sono nato ebreo e morirò ebreo, la religione di famiglia già soddisfa tutti i miei appetiti spirituali. Tornare a casa è stata una bella sensazione". Il disco comunque riflette ancora il periodo-zen di Cohen, come testimoniano alcuni dei brani ("Love Itself", "In My Secret Life").

Cohen, che nel frattempo ha compiuto settant'anni, torna il 25 ottobre 2004 con un nuovo disco, Dear Heather, comprendente dodici brani inediti e una versione live del pezzo country "Tennessee Waltz", già reso popolare da artisti come Patti Page e Chet Atkins. "Il disco è come un quaderno di appunti, una miscellanea di idee e stati d'animo, di osservazioni e di digressioni", scrive di lui lo scrittore e critico Leon Wisielter nelle note della casa discografica. Ancora accompagnato in pianta stabile da Sharon Robinson, Cohen riduce il peso degli arrangiamenti e trasforma molti brani in un esercizio di puro "spoken word". Nella title track, sembra quasi di rivedere passare davanti gli spettri delle amanti del disco d'esordio, ormai invecchiate e stanche: ""Cara Heather, per favore cammina ancora a fianco a me/ Con un drink nella tua mano e le tue gambe bianche/ Retaggio dell'inverno".
"The Letters", invece, riprende il discorso di "Famous Blue Raincoat", quello della lettera di un uomo tradito al suo rivale. "On That Day" è la sua rievocazione dell'11 settembre americano, scritta da par suo, ovvero con intensità e senza retorica. E a commuovere è anche l'ironia senile di "Because Of", dove Cohen canta di nude signore che urlano "Guardami Leonard, guardami per l’ultima volta". Quasi un malinconico omaggio alle (tante) amanti che hanno segnato la sua vita.

Otto anni dopo, è Old Ideas a rompere nel 2012 il lungo silenzio di Cohen. Complice l'esperienza del ritorno sul palco, Cohen riporta le sue canzoni all'essenza, spogliandole di quella patina leziosa che le aveva offuscate nei precedenti Ten New Songs e Dear Heather. Old Ideas ritrova così quell'equilibrio che da almeno un ventennio mancava alla musica del songwriter canadese. Perché i suoi versi non hanno mai avuto bisogno di scenografie posticce: chiedono solo lo spazio per lasciar riecheggiare la propria voce.
Il crooning di Cohen è un sussurro in cui il peso del tempo palpita di fumo e desiderio. In "Going Home" si lascia sfiorare solo da un'aura di archi e tastiere, insieme alla carezza di un controcanto femminile. Il territorio in cui si addentra, faccia a faccia con lo spettro della mortalità, è lo stesso delle "American Recordings" di Johnny Cash, lo stesso del Dylan di "Time Out Of Mind". E più dylaniane che mai sono le tinte blues che avvolgono "Darkness" tra volute di hammond, interrogandosi nella penombra del crepuscolo sul tempo che rimane.
Tra un baluginare di tromba e i ricami gitani del violino, "Amen" è la parola che risuona nel deserto, parlando d'amore alle orecchie degli assetati. Old Ideas è un dipanarsi di sfumature, che dal gospel dimesso di "Come Healing", guidato dal coro delle Webb Sisters, vanno a trascolorare nel country meditativo di "Banjo". Non manca qualche momento di stanchezza, ma nell'architettura complessiva del disco nulla suona giustapposto.

Non c'è rassegnazione, nello sguardo di Cohen, ma quel destino che si pensava di avere in pugno diventa piuttosto una strada su cui lasciarsi condurre: "Show me the place where you want your slave to go", mormora, con il tono di una preghiera, accompagnato dal pianoforte di "Show Me The Place". Lo sguardo amaro di The Future è lontano, ma le domande non suonano meno impellenti: "Show me the place where the word became a man".
Dio stesso lo guarda dall'alto, scrutando la sua anima come un volto di cui si conosce a memoria ogni ruga: "I love to speak with Leonard/ He's a sportsman and a shepherd/ He's a lazy bastard living in a suit". Sono i versi iniziali di "Going Home", in cui Cohen tratteggia con l'inconfondibile eleganza del suo humour un autoritratto da trovatore inquieto, sempre alla ricerca di una canzone d'amore capace di insegnare a convivere con la disillusione. Ma quello che conta è la certezza di essere sulla strada verso casa: "Going home without my burden/ Going home behind the curtain".
Il vecchio poeta prende tra le mani il suo Borsalino e china il capo con un cenno di gratitudine. "Going home without the costume that I wore".

Nel 2014, Popular Problems fa la sua comparsa, quasi a sorpresa, ad appena un paio d'anni di distanza da Old Ideas. Non basta l'età a cancellare i problemi di cui è fatta la trama della vita, sembra voler dire il neo-ottuagenario chansonnier canadese. Semmai, permette di affrontarli con una saggezza più disincantata nello sguardo.
Quasi a volersi giustificare per la passata assenza dalle scene, il beat insistente di "Slow" apre il disco con un elogio della lentezza ironicamente allusivo, mentre l'organo volteggia verso tonalità blues: "It's not because I'm old/ And it's not what dying does/ I've always liked it slow/ Slow is in my blood". È Cohen stesso, però, a dirsi sorpreso della velocità con cui il nuovo disco ha preso forma. L'accelerazione è dovuta soprattutto alla collaborazione con Patrick Leonard, produttore di Old Ideas e ora accreditato nientemeno che come coautore della quasi totalità dei brani. Da lui derivano, per ammissione diretta di Cohen, la maggior parte delle idee musicali del disco. Ed è proprio questo, in realtà, il punto debole del nuovo lavoro.
Le atmosfere di Popular Problems crescono in varietà, ma - soprattutto nella parte centrale del disco - non sempre riescono a replicare fino in fondo l'equilibrio del predecessore. È quando il contorno si fa più sobrio, allora, che i versi di Cohen riescono a risuonare con più profondità. A partire dal singolo scelto per anticipare l'uscita del disco, "Almost Like The Blues", con un tappeto di percussioni e una magmatica linea di basso ad accompagnare il tocco del pianoforte e i controcanti di Charlean Carmon.

"Essere un songwriter è come essere una suora: sei sposato con un mistero", riflette Cohen con un sorriso. Così, accanto alle contraddizioni dell'amore (il monologo allo specchio di "Did I Ever Love You") e della politica (la vibrante apostrofe post-Katrina di "Samson In New Orleans"), è il problema del destino a dominare ancora una volta le sue canzoni. Allo scetticismo dei sapienti, Cohen contrappone la semplicità dei peccatori: "There is no God in heaven and there is no hell below/ So says the great professor of all there is to know/ But I've had the invitation/ That a sinner can't refuse/ And it's almost like salvation, it's almost like the blues".
Così, le acque del Mar Rosso si aprono sulle note del gospel liturgico di "Born In Chains", invocando una liberazione dalla schiavitù capace di abbracciare "la misura di tutte le misure". E il canto di Davide torna a riecheggiare nell'epilogo di "You Got Me Singing", incurante delle infinite versioni di "Hallelujah", per affidarsi agli accenti folk del violino di Alexandru Bublitchi: "You got me singing even though it all looks grim/ You got me singing the Hallelujah hymn". Non conta la durezza dei tempi: nulla può mettere a tacere il cuore, quando sta di fronte al Signore della Canzone con il proprio canto sulle labbra.

Già in occasione dell’uscita di Popular Problems, Cohen confessa di avere una raccolta di nuove canzoni nel cassetto. Ci lavora intensamente per un anno insieme a Patrick Leonard, poi le sue condizioni di salute subiscono un improvviso peggioramento. “La situazione era buia, la sofferenza acuta, il progetto era abbandonato”, ricorda. Ed è allora che gli si fa vicino il figlio Adam.
Non avevano mai lavorato insieme: troppo ingombrante l’ombra di un padre del genere, per un figlio deciso a seguire le sue orme lungo il sentiero impervio del cantautorato. Ma stavolta le cose erano diverse. “Ha capito che il mio recupero, se non la mia stessa sopravvivenza, dipendevano dalla possibilità di rimettermi al lavoro”. Quando aveva 17 anni, Adam era rimasto per mesi in coma dopo un terribile incidente stradale. Il padre trascorreva le giornate accanto al suo letto, leggendogli versetti della Bibbia. La vita a volte gioca a invertire i ruoli: “Adam ha preso in mano il progetto, mi ha sistemato su una poltrona ortopedica per permettermi di cantare e ha portato a termine queste canzoni incompiute”.

Il disco, intitolato You Want It Darker, esce nell'ottobre del 2016 e a introdurlo sono le voci di un coro. Non il consueto controcanto femminile, ma il coro della congregazione Shaar Hashomayim, la più antica sinagoga aschenazita del Canada. La sinagoga della famiglia di Cohen. Ed ecco il groove pulsante del basso stendere il tappeto per quell’inconfondibile baritono. Il coro intona insieme a lui l’inizio del Kaddish: “Magnified and sanctified/ Be Thy Holy Name”. La preghiera della lode, la preghiera del lutto. Un inno funebre a sé stesso, o forse all’umanità. “I’m ready, my Lord”, mormora Cohen. Ma le sue parole non sono semplicemente un commiato. Riecheggiano l'antica risposta di Abramo: hinneni, eccomi. Lo sguardo del padre che affida completamente sé stesso.
Occorreva l’amore di un figlio, per restituire a Cohen il rigore del classico. E che You Want It Darker sia destinato a occupare il posto di un classico lo si capisce già dall’essenzialità della copertina, da quel gioco di contrasti in bianco e nero che chiama in causa direttamente il passato. Il capitolo finale di una trilogia che lascia da parte i residui orpelli di Popular Problems, per raggiungere una sobrietà ancora più misurata di quella di Old Ideas.
Dal pianoforte di “Treaty” si leva un fremere di archi che anticipa la ripresa orchestrale posta in chiusura del disco. “I wish there was a treaty/ Between your love and mine”, invoca Cohen. Non con la rassegnazione del compromesso, ma con la sofferta consapevolezza dell’irriducibilità dell’altro a qualsiasi conquista. La collaborazione con Patrick Leonard lascia in eredità i tratti musicali più elaborati, dall’organo che introduce il gospel in chiaroscuro di “If I Didn't Have Your Love” al lirismo gitano di “It Seemed The Better Way”, mentre l’unico episodio firmato insieme a Sharon Robinson, “On The Level”, contribuisce ad alleviare la trama dell’album con le sue tonalità soul.
È un disco fatto di congedi, You Want It Darker. È il testamento di un uomo pronto a fare un passo indietro rispetto al trasporto della passione (“I turned my back on the devil/ Turned my back on the angel too”, confessa in “On The Level”), un passo indietro rispetto alla battaglia quotidiana (“I do not care who takes this bloody hill”, proclama in “Treaty”). Un passo indietro per contemplare finalmente il disegno delle cose, non per rinunciare a possederle. Tra nostalgici riverberi twang e ricami di pedal steel, “Leaving The Table” lo riassume con la semplice forza di un’immagine (“I’m leaving the table/ I’m out of the game”), mentre Cohen si ritrova a osservare con distacco il gioco della commedia umana.
“I’m traveling light/ It’s au revoir”. Il viaggio è lungo, il bagaglio leggero. Il coro di “Traveling Light” risuona come il canto lontano delle donne di uno shtetl, come la memoria di una danza klezmer sulle corde del violino, una “Dance Me To The End Of Love” offerta in dono a Matt Elliott. Nella valigia resta solo l’indispensabile, mentre quel crooning grave come il tempo declama l’ultimo arrivederci.
Uno dopo l’altro, cadono tutti i fardelli inutili. Ombre di donna e rovine di centri commerciali, cicatrici di ferite e certezze consumate. Sulle partiture da camera di “Steer Your Way”, il vecchio chansonnier le attraversa come se fossero vestigia di un altro tempo, di un’altra vita. “Year by year/ Month by month/ Day by day/ Thought by thought”. A restare, più di tutto, è il bisogno di portare a compimento ciò che si è iniziato. Ed è proprio questa, in fondo, l’essenza di You Want It Darker.

L'11 novembre 2016 a gelare tutti arriva la notizia pubblicata dal suo agente sulla pagina Facebook ufficiale: "È con profonda tristezza che diamo notizia della morte del poeta, compositore e artista leggendario Leonard Cohen. Abbiamo perduto uno dei visionari più prolifici e rispettati del mondo della musica". Solo pochi mesi prima, Cohen aveva dovuto dire addio a Marianne Ihlen, la donna incontrata negli anni Sessanta sull'isola greca di Hydra e che gli aveva ispirato canzoni come "So Long, Marianne" e "Bird On A Wire": "Ti ho sempre amata per la tua bellezza e per la tua saggezza - furono le sue parole - ma non serve che io ti dica di più poiché lo sai già. Adesso voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica, amore infinito. Ci vediamo lungo la strada".
A David Remnick del “New Yorker”, in occasione dell'uscita di You Want It Darker, Cohen aveva confidato i versi su cui stava ancora lavorando. A occhi chiusi, in un sussurro. “Listen to the mind of God, wich doesn’t need to be”. La tradizione ebraica la chiama bat kol, la voce dal cielo: “Un’altra realtà che canta sempre al tuo orecchio dal profondo, anche se per la maggior parte del tempo non sei grado di decifrarla”. A volte, esserci non significa altro che ascoltare. E non c’è voce più grande di quella di chi ha imparato ad ascoltare. “Listen to the mind of God/ Don’t listen to me”.

Ma i titoli di coda che scorrevano sulle note di “String Reprise /Treaty”, non avevano esaurito del tutto il dialogo di Leonard Cohen con il pubblico, era un addio in parte canonico, romantico, sofferto, ma era facile intravedere dietro quelle note, uno spiraglio, una speranza, un ultimo colpo da maestro.
Spetta dunque a Thanks For The Dance la perfetta chiusura del cerchio, è un po’ come se il corpo di Cohen non avesse conosciuto il livor mortis, il cuore pur fermo ancora pompa sangue, e qualche lacrima, ma anche una sottile lieve speranza. 
Non importa se alcune tracce erano già state parte di altri progetti, questo non è il canto del cigno, ma la storia di un brutto anatroccolo.
E’ un Cohen schietto e inaspettatamente felice quello che recita “Ho sempre lavorato stabilmente, non l'ho mai chiamato arte. ho messo insieme la mia merda, ho incontrato Cristo e letto Marx”, mentre scorrono le note di un piccolo capolavoro (“Happens To The Heart”), che da solo giustificherebbe l’esistenza di questo album postumo, messo insieme dal figlio del cantautore scomparso tre anni fa, con l’aiuto di  numerosi musicisti, tra i quali Daniel Lanois, Jennifer Warnes, Javier Mas, Patrick Leonard e Beck

Ancora una volta lo stupore prevale sulla ragione, la musica e la parola di Cohen abbattono di nuovo la Torre di Babele, l’universalità dell’arte si manifesta con romantico pudore, a volte sospesa a poche note che dialogano con il cantato/recitato di “It's Torn”, o trascinata dal passo di danza intonato a più voci (Jennifer Warnes, Leslie Feist), il cui fascino evoca le piovose calde note avvolte nel "famoso impermeabile blu". Lievemente didascalico il flavour latino (ad opera dei due chitarristi Carlos de Jacoba e Javier Mas) di “The Night Of Santiago” regala uno dei momenti più leggiadri dell’album, mentre Patrick Watson inietta un po’ del suo estatico pathos nella trascinante “The Hills”.
Gli arrangiamenti sono quasi sempre intensi eppur rarefatti, spesso vicini a quella sublimazione sonora che spetta solo alla parola: vera protagonista di questo prezioso imprevisto, forza motrice di intense narrazioni che corrispondono a titoli poco altisonanti (“The Goal”, “Puppets”, “Listen To The Hummingbird”), che conducono l’ascoltatore verso la fine del sogno, delle illusioni ma anche del dolore. 

Thanks For The Dance  è' quasi un invito a celebrare una resurrezione virtuale, per metà pagana e per metà biblica, un’ulteriore provocazione intellettuale di uno dei più grandi poeti dei nostri tempi, cantore delle umane debolezze e virtù mancate, un poeta innamorato del silenzio e del suo assordante fragore : Ascolta il colibrì, ci implora di trovare la bellezza in Dio e nelle farfalle, Non ascoltare me".

Contributi di Gabriele Benzing ("Old Ideas", "Popular Problems", "You Want It Darker"), Gianfranco Marmoro ("Thanks For The Dance")

Leonard Cohen

Discografia

Songs Of Leonard Cohen (Columbia, 1968)

9

Songs From A Room (Columbia, 1969)

7

Songs Of Love And Hate (Columbia, 1971)

8,5

Live Songs (Columbia, 1972)

New Skin For The Old Ceremony (Columbia, 1973)

6,5

Best of Leonard Cohen (Columbia, 1975)

Death Of A Ladies' Man (Columbia, 1977)

5

Recent Songs (Columbia, 1979)

6

Various Positions (Columbia, 1984)

6

I'm Your Man (Columbia, 1988)

8

The Future (Columbia, 1992)

7

Cohen Live (Columbia, 1994)

Field Commander Cohen (Columbia, 2000)

7

Ten New Songs (Columbia, 2001)

5

The Essential Cohen (anthology, Columbia, 2002)

Dear Heather (Columbia, 2004)

5,5

Live In London (Columbia, 2009)
Live At The Isle Of Wight (Columbia, 2009)
Songs From The Road (Columbia, 2010)
Old Ideas (Columbia, 2012)

7

Popular Problems (Columbia, 2014)6,5
Live In Dublin (Columbia, 2014)
Can't Forget: A Souvenir Of The Grand Tour (Columbia, 2015)
You Want It Darker (Columbia, 2016)7,5
Thanks For The Dance(Columbia, 2019)7,5
Pietra miliare
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