Richard Thompson

Richard Thompson

Il gran guru del folk-rock Uk

Membro-cardine dei Fairport Convention, quindi rispettato cantautore con la splendida Linda, oltre che formidabile chitarrista elettrico e acustico, con una sua originale idea di spiritualità: la carriera di Richard Thompson da sola percorre, e oltrepassa, nascita, crescita e maturità della contaminazione tra tradizione folk e spinta rock, in uno dei più grandi canzonieri di sempre

di Michele Saran

Nato nei dintorni di Notting Hill nel 1949, Richard John Thompson cresce in una famiglia di provetti strumentisti e appassionati di musica, conteso, negli ascolti e nella formazione, tra la tradizione della musica britannica, lo stile acustico dei cantori folk, e il pulsare del rock’n’roll proveniente d’oltreoceano, lo stile bakersfield popolarizzato da Elvis Presley, le svirgolate di Chuck Berry che infiammano i juke-box, ma anche l’incalzare fiammeggiante delle ballate di Bob Dylan. Il giovane Richard è già un piccolo asso nell’imitare tanto l’una quanto gli altri, persino quando ascolta jazz cerca di seguire la tipica scansione tra riff e improvvisazione, dimostrando un’attitudine e una versatilità che lo accomunano a Davy Graham. Ma Thompson sarà anche un maestro nell’amalgamare queste sue radici dapprima in raffinato contrappunto d’accompagnamento, e successivamente in una vera e propria seconda voce che lambisce vertici trascendentali.

Quando, 1966, Thompson si unisce alle strimpellate dei due compari Ashley Hutchings e Simon Nicol nella soffitta di Muswell Hill, contribuisce in modo determinante alla nascita di una delle realtà più popolari del folk-rock britannico, i Fairport Convention. La sua ascesa marchia a fuoco la prima maturità del complesso, mettendo in luce non solo un infallibile solista, ma anche via via uno scrittore di spicco e persino un ideologo dietro le quinte.

La fiera ballata di “Meet On The Ledge”, una delle loro canzoni più apprezzate e uno dei primi singoli, e la danza di “No Man’s Land”, sono così le sue prime creazioni. Quindi appronta alcune delle migliori composizioni del complesso, per gli album più conosciuti e amati, Unhalbricking (1969) e Liege & Lief (1969). Nel primo, oltre a “Cajun Woman”, spicca “Genesis Hall”, solenne progressione spartita tra gli accordi rurali delle chitarre e il soprano della cantante Sandy Denny, destinato a rimanere uno dei capolavori della band, e nel secondo vi è almeno la splendida ninnananna di “Farewell Farewell”, piccola matrice delle sue future canzoni-salmo.
Nel successivo Full House (1970) il suo apporto alla composizione è invece marginale, adombrata dal violinista Dave Swarbrick, nuova eminenza grigia del complesso. Qui Thompson lascia la brigata, e non a caso la parabola dei Fairport inizierà a declinare, trasformandosi poco a poco da complesso a infinita saga.

Il fuoriuscito musicista, sulle prime, non ha idee granché precise sul da farsi, se non continuare a scrivere e suonare, ma i buoni rapporti che continua a stringere con i membri dei Fairport (Denny e Hutchings, oltre a una schiera di apprezzati musicisti folk) gli consentono di mettere a fuoco la sua arte, fino a spingerlo a incidere il suo primo album.
Henry The Human Fly (1972), il suo debutto lungo, non per niente riprende e fa avanzare le idee dei primi Fairport Convention, donando però compostezza e pulizia, e pure un significativo tocco di eccentricità. Fedele alle sue radici, Thompson impiega accordion e passi di danza nel preludio di “New St. George”, e ancora meglio in “Nobody’s Wedding”, con un cambio di tempo che ne spezza la linearità, e quindi una serie di ballate forse ancora troppo accennate, tra cui “Angel’s Took My Racehorse Away”, lirica e pompata con cori gospel (che comunque anticipa di tre anni quelle di Springsteen). Ma si emancipa soprattutto nelle fiabe fataliste, ognuna adornata di un timbro diverso, da “Roll Over Vaughn Williams”, saltarello su cui sfumano volatili accenti mediorientali, il fiddle nel refrain aurorale di “Poor Ditching Boy”, il piffero trascendentale di “Shaky Nancy”, l’arpa nella maestosa “Old Changing Way”, fiati e organetto da New Orleans in “Mary And Joseph”, e su tutto il tono altamente cerimonioso di “Wheely Down”, aumentato dagli accordi di piano a mo’ di gong tibetano e dai droni di violino, persino con un loop elettronico in sottofondo.

Le successive evoluzioni del cantautore sono già tutte all’appello, non ultima una delle chiavi di volta della sua carriera: Linda, conosciuta tre anni prima, e già rodata nei circoli folk a partire dal 1966 grazie alle preziose amicizie dei membri dei Fairport, prima tra tutti la stessa Sandy Denny. La provetta cantante Linda Peters nei successivi due anni perviene a successi un po’ anonimi, incidendo un jingle pubblicitario e un paio di cover pubblicate come singoli con Paul McNeill, a nome Paul And Linda. Richard e Linda si incontrano quindi nel 1969, proprio nei giri dei Fairport, e tra i due vi è subito un grande feeling dapprima artistico e poi sempre più personale. Dopo aver inciso i cori per un album solista della Denny, Sandy (1972), Richard la vuole proprio nelle registrazioni di Henry The Human Fly. Poco dopo l’uscita del disco, la loro relazione diventa ufficialmente matrimonio. Anche il sodalizio musicale è cresciuto e si è fortificato: i tempi sono maturi per fondare una premiata ditta tra il solido talento di Richard e la neo-signora Thompson, divenuta da semplice corista a vero controcanto, e infine fiorita anche come voce principale.

L’apporto di Linda all’estetica dell’autore è più che determinante; la sua spontanea, innata vocalità cristallina, emotiva e velatamente medievale, riempie alla perfezione i vuoti lasciati dal canto di Richard, non limitandosi a una semplice nuova versione delle armonie vocali già in voga nella musica pop o nelle cantate folk, ma donando nuove coloriture emotive e quasi naturaliste.
Il perfetto risultato è I Want To See The Bright Lights Tonight (1974), il cui sentore sacrale si estende e trasfigura ogni canzone, anche le più baldanzose (“The Little Beggar Girl”, “When I Get To The Border”), in creazioni di sovrannaturale austerità.
Nonostante sia praticamente una principiante, Linda impreziosisce e persino domina le filigrane acustiche di Richard, in un sempiterno, funereo processo di assottigliamento che porta l’opera verso una conclusione cupa, improntata a un pessimismo cosmico che è davvero alieno a buona parte del movimento folk-rock (“Has He Got A Friend For Me”, “The Great Valerio”).

Forti di quel successo, i due registrano subito Hokey Pokey (1975), raggiungendo nuove vertigini in “A Heart Needs A Home”, metafisica, degna della “musica delle sfere”, e in un altro paio di salmi acustici (“I’ll Regret It All In The Morning”, “Never Again”). L’album è però un succedaneo più vigoroso del predecessore, come testimoniato dalla title track, da “Smiffy’s Glass Eye” e soprattutto dall’iconica “Georgie On A Spree”.

E’ Richard il regista a occuparsi della struttura, dell’atmosfera, dell’arrangiamento, ma le canzoni da lui personalmente cantate sono in netta minoranza. E’ Linda ad apportare quel candore che le rende sia magie di misticismo che perfetti conguagli di cantabilità. In un momento del disco (“The Egypt Room”) fanno poi brevemente capolino stilemi arabeggianti che provano la crescente passione di Richard per il sufismo, che nello stesso anno porta la coppia ad abbracciare in pieno il culto e a entrare in una comunità sufi di Londra. Qui il mullah di Richard preme perché il cantautore abbandoni la chitarra elettrica e si dedichi a pieno titolo all’ascetismo dell’acustica, più consona alla preghiera. La controparte pagana, il produttore della Island, viceversa preme perché continui a rinverdire il suo marchio di fabbrica all’elettrica.

Richard ThompsonDa questo compromissorio dissidio nasce l’impianto chiesastico e la temperatura misticheggiante di Pour Down Like Silver (1975). Thompson adotta le scale piane del folk arabo come mai prima, il suo canto e quello della consorte sono diluiti in una cantillazione che rimanda al raga del muezzin, la scrittura sciorina canzoni che esalano un lunghissimo ultimo respiro prima di spegnersi nell’eternità. Le meditazioni rurali di Neil Young e Bob Dylan sono portate alle estreme conseguenze, mostrandone e amplificandone il lato contemplativo. L’accordion è libero di vagare indefinitamente tanto nella camminata solenne di “Streets Of Paradise” quanto in “For Shame Of Doing Wrong”.
In “Beat The Retreat” la chitarra dipinge e intesse trame trascendentali con cui tiene in sospensione tocchi e vagiti misteriosi, fino a frapporsi a riverberi sottilissimi di dulcimer e silenzi siderali nell’interminabile “Night Comes In”. Così in “Dimming Of The Day”, uno dei capolavori assoluti della coppia e una delle vette di tutto il movimento folk-rock, un’atmosfera quasi dimessa costruita su tocchi liturgici e voci armonizzate verso il perfetto rapimento estatico, che sfuma in una conclusiva rilettura di “Dargai” di John Skinner, il momento di massimo raccoglimento della carriera del duo.

Dopo questo raggiungimento la coppia si prende un periodo di pausa per dedicarsi alla vita della comune, limitandosi soltanto a compilare una raccolta di rarità (Guitar Vocal, 1976). Le nuove canzoni iniziano ad apparire in un breve tour verso la fine del 1977, e il risultato è un nuovo album imbevuto di sufismo, First Light (1978). Linda torna a essere protagonista, tanto immacolata interprete nelle odi corali di “Sweet Surrender”, “Strange Affair” e della title track, quanto persino novella cantautrice nell’ancor più perfetta “Pavanne”. Il gioiello del disco è però il medley che dallo spettacolare pastiche acustico di Richard di “The Choice Wife”, il primo strumentale della sua carriera, conduce alla vivace “Died For Love”, condotta dal pianoforte.
Pur evitando i drammatici abissi religiosi dell’opera precedente, la coppia è abilissima nel condurre una lieve, armoniosa modulazione di umore di appagamento e gaiezza. L’organico allargato, questo davvero in netto contrasto con Pour Down, trasforma le canzoni in piccoli concerti e piccole cantate che comprendono le due voci, gli intrecci acustici e gli assoli elettrici compassati, i panneggi di accordion e fiddle, un coro pronto a sottolinearne la spiritualità (in modo talvolta pure didascalico), e persino una piccola sezione tastiere.

L’album però non riscuote un grande successo di pubblico. L’etichetta vorrebbe che Richard e Linda completassero una presunta transizione verso un sound sempre più accessibile e radiofonico. Così il successivo Sunnyvista (1979), fortemente improntato all’elettrica di Richard, è - per gli standard fin qui presentati - un album persino hard-rock che aggiunge un tocco di critica sociale. Il passo è fiero e deciso come nei Jefferson Airplane più combattivi (“Borrowed Time”, “You’re Gonna Need Somebody”, “Civilization”, “Why Do You Turn Your Back”), le danze folk sono persino scintillanti e stordenti (“Saturday Rolling Around”, la mazurka della title track). Per contrappasso, il lato meditativo si fa più esteriore e superficiale (la ballad “Sisters” e l’invocazione “Justice In The Streets” volta al funk).

Qui qualcosa s’incrina. La compagnia, ancora una volta delusa dalle basse vendite, licenzia in tronco i due. Alle difficoltà professionali si aggiungono incomprensioni crescenti che finiscono per riversarsi sul lato sentimentale: Richard e Linda non vanno più d’accordo e iniziano una pausa che, approfondendosi sempre più, li porterà alla separazione. In questo periodo Richard ricomincerà la carriera solista con Strict Tempo (1981), con cui si sbizzarrisce a sfruttare il suo sciolto talento strumentale nei suoi passi di danza preferiti, ma anche comparendo in Smiddyburn (Logo, 1981) di Dave Swarbrick, di fatto una reunion ufficiosa con i vecchi Fairport.

Linda ThompsonLe nuove canzoni della coppia invece finiscono nel dimenticatoio finché, dopo averle ascoltate e provinate, Joe Boyd della Hannibal pressa perché siano incise. In questo clima di subbuglio i due ex-coniugi entrano in studio consapevoli del fatto che il nuovo album sarà il canto del cigno, persino un disco in qualche modo postumo, rendendolo così di fatto un concept sulla fine della loro storia, e un meta-concept sul loro ormai mitico sodalizio.
In Shoot Out The Lights (1982) tutto ciò si esprime con un suono che non è più solo cupo e trascendentale come lo erano le opere precedenti, ma anche monumentale e persino grandioso. Gli orpelli folk-rock di accordion e fiati sono ormai tenui vagiti che ricompaiono soltanto nella coda di “Back Street Slide”, comunque improntata a uno splendido concertino macabro. Il grosso del disco sta in prismi armonici che ruotano costantemente su sé stessi, ospitando come in un botta e risposta soltanto le voci di Richard e Linda e i numeri di sola chitarra, mai così risonanti nel vuoto.
Richard si sfoga nei colossali due-accordi-due della title track, debitori della "Rumble" di Link Wray, con un canto di oracolo e gli assoli più liberi della carriera, nel contrasto tagliente tra trotto di rullante e chitarra e motto estremamente dimesso (aumentato da cori gravi) di “Don’t Renege On Our Love”, nelle evoluzioni mantriche - che lo rivelano finalmente anche come cantante - che sovrastano l’impeccabile marcetta di “Man In Need”.
Linda da par suo dà una sfavillante nuova prova di compositrice nel passo funebre di “Did She Jump”, che sconfina in una sfumatissima e arcana meditazione di sola chitarra, nel pianto di “Walking On A Wire”, una sconsolatezza che si trasfigura nel contrappunto di chitarra e in un crescendo corale, e nel canto fragile di “Just The Motion”, percorso da un’inudibile foschia, una vibrazione impalpabile che rende sontuosa la mestizia degli arpeggi. Tutto confluisce nello humor nero di “Wall Of Death”, dove i due cantano ironicamente di isolamento e separazione in uno dei più felici e contagiosi jingle-jangle, e ancor più ironicamente all’unisono, per l’ultima volta.

Richard in pratica abbandona il suono di questo capolavoro con Hand Of Kindness (1983), primo disco solista di canzoni dai tempi di Henry. E’ un’opera deliziosamente influenzata dal suo avvicinamento alla musica zydeco, con cui filtra il rock’n’roll di “Tear Stained Letter”, l’irresistibile “Two Left Feet” e le più compassate “Both Ends Burning” e “The Wrong Heartbeat”, oltre al boogie di “A Poisoned Heart” e al suo consueto tributo al raga persiano in “Where The Wind Don’t Whine”, adornandoli di jam scattanti.
In realtà l’album, interamente dedicato alla separazione con l’ex-moglie, è un diretto discendente dell’ironia di “Wall Of Death”, la spettacolarità di questi numeri rende un contrasto straziante con i testi, che invece cantano di un cuore in frantumi. L’autore è anzi talmente devastato che in “How I Wanted To” persino s’immedesima in uno di quei tipici salmi di Linda, cantato con tutto il suo tipico candore di quando gli era accanto.

Gli succede un Across A Crowded Room (1985) che impiega largamente le voci in coro e prova a importare nuovi stilemi come il jive di “You Don’t Say” e il cinereo shuffle di “Shine On Love”, laddove invece esagera con le allegorie della sua coeva condizione esistenziale. Punto terminale di questo processo sembra essere, nel bene e nel male, la conclusiva “Love In A Faithless Country”, una versione scolorita di “Shoot Out The Lights”.
Anche Daring Adventures (1986) alterna euforia (“Nearly In Love”, “Baby Talk” e gli Yardbirds ferroviari di “Train Ket A’Rolling” rielaborati in “Valerie”) a melodia da funerale (“A Bone Through Her Nose”, “Lover’s Lane”, lo scherzo gotico di “Cash Down Never Never”), finendo di nuovo, in “Dead Man’s Handle”, per rimembrare i tempi con Linda, ancora auto-scimmiottando “Wall Of Death”.

Dopo questo largo tempo impiegato a riprendersi, alla fine del decennio 80 la personalità artistica di Richard ha una sorta di scissione. La prima e più immediata componente è la progressione verso un cantautorato sempre più classico e sempre meno austero, infallibile anche se tutto sommato minore, e pure rinfrancato da un graduale riavvicinamento alla vita e al proprio pubblico.

L’inizio di questa fase matura si ha in Amnesia (1988). Nuovo gioielli di amarcord sono “I Still Dream”, aperta e chiusa da un duetto di tromba e accordion in una sorta di silenzio militare, col passo lento tipico dei suoi capolavori, e la meditazione hare-krishna di “Pharaoh”. Soprattutto però è l’opera che un po’ ovunque rinnova perentoriamente il suo stile alla chitarra (l’assolo che chiude la ballata di “Can’t Win”) e al suo emotivo canto tenorile (le rime quasi rap della danza beduina di “Don’t Tempt Me”).
La voglia di nuova forza e indipendenza Richard la esprime ora in rintocchi marziali e refrain imperiosi (“Gypsy Love Songs”), lambendo lo spirito macho di Springsteen (“Jerusalem On The Jukebox”), o al contrario calmandosi in un rassicurante tono confidenziale (“Turning Of The Tide”).

Il secondo dei suoi album classici è Rumor And Sigh (1991), improntato a un edonismo che è ormai liberatorio e che frutta canzoni dalla tenuta forte, delle quasi-hit, come “I Feel So Good”. Ormai Richard amalgama qualsiasi stimolo alla perfezione, che sia il mellotron con effetti psichedelici sopra cadenze marcate, in “You Dream Too Much” e “Grey Walls”, o un sing-along sentimentale ma risoluto come “Blacklash Love Affair”, o in un vortice cow-punk come “Mother Knows Nest” o persino in un recitato convulso alla Nick Cave, alternato a gag da tabarin, come “Psycho Street”.
Anche quando l’umore è dimesso, come nello strimpellio e nel mantra di “I Misunderstood” e “Why Must I Plead”, alla fin fine sfocia in ritornelli impeccabili. La canzone al centro dell’album è però di nuovo una virata nostalgica di rivisitazione del suo vecchio stile folk, e paradossalmente quella che rimarrà tra le sue migliori, “1952 Vincent Black Lightning”, reinterpretata anche da Bob Dylan in persona.

Troppo cerebrale suona invece Mirror Blue (1994), confuso tra citazioni del passato suo e altrui (“For The Sake Of Mary” quasi riproduce il riff di “Cinnamon Girl” di Neil Young), e un timido impiego di basi elettroniche (“Fast Food”), che manca di infondere vitalità alle canzoni. Anche la celtica “Beeswing” fa la figura della natura morta.
Due anni dopo esce persino un doppio album, confuso e straripante a iniziare dal titolo, You? Me? Us? (1996). Il primo cd, Voltage Enhanced, contiene un paio di sprintanti e sintetiche ridefinizioni che attingono alla danza moderna (“She Steers By Lightning”, “Razor Dance”), ma per lo più la vena è inaridita e spesso sembra una malacopia del suo passato (“Bank Vault In Heaven”, “Hide It Away”).
Il secondo cd, Nude, è dedito alle canzoni acustiche - alcune peraltro riarrangiate dal primo cd - che isolano il suo lato meditativo; a parte lo stride di “Train Don’t Leave”, di nuovo in andamento ballabile, nessuna spicca particolarmente.

Nel successivo Mock Tudor (1999), quantomeno, è ormai chiaro come gli sforzi di Richard di riesaminare il suo passato non sono fini a sé stessi, ma prove ed errori per cercare di bissarne la grandezza, pur con un sound impoverito. Le autocitazioni sono quasi esplicite, da “Sights And Sounds Of Londo Town” (mima “1952 Vicent Black Lightning”) a “Hard On Me” (una nuova “Shoot Out The Lights”), e le ballate pop - “Crawl Back”, “Two-Faced Love”, “Walking The Long Miles Home” - non hanno un’identità davvero forte. Il risultato di questo allenamento però porta a nuove prove di sincerità, tanto la ripresa di sonorità arabeggianti in “Uninhabitated Man” quanto il folk cristallino nel suo miglior stile in “Dry My Tears And Move On”.

Questa striscia non esaltante di pubblicazioni di studio serve comunque a portarlo strenuamente sui palchi, forse l’habitat migliore di questa fase, e a far accrescere la sua fama. Molti dei suoi tour saranno immortalati in altrettanti album live, ufficiali o meno, tra cui quello tra il serio e il faceto di ripercorrere la musica popolare, dai traditional a Britney Spears (1000 Years Of Popular Music, 2003).
Anche in studio, per l’incisione delle nuove canzoni, Thompson viaggia come un treno. Per Old Kit Bag (2003), spinto dalle vendite non esaltanti dei dischi immediatamente precedenti, l’autore cambia di nuovo label (Cooky Vinyl), per un umile ma imperioso ciclo di canzoni (di nuovo trascendentale in “Gethsemane” e nella lunga, cromatica “First Breath”, muslim in “One Door Opens”, accoratamente innodico in “A Love You Can’t Survive”). Le cose però non cambiano, anzi peggiorano con l’acustico Front Parlour Ballads (2005), accolto tiepidamente anche dalla critica di settore.

In Sweet Warrior (2007) invece tutto suona più libero, a iniziare dalla produzione (una cordata di etichette indipendenti), ma soprattutto nelle canzoni, con la “Dad’s Gonna Kill Me”, suo nuovo cavallo di battaglia basato su uno dei suoi tipici trotti, che da sola contribuirà a rilanciarlo anche nell’ultima parte di decennio (insieme con “Mr Stupid”, “Needle And Thread”, “Bad Monkey”, “Sneaky Boy”).

Comune a questi album, e forse anche una deriva della sua tarda carriera, è la volontà di imbastire un commentario sociale nella tipica vena dei cantautori impegnati. Le canzoni di queste fin troppo generose raccolte sono ormai meccaniche, ma riescono in un modo o nell’altro a mascherare la ripetizione tramite la classe e la maestria di un autore sempre fedele a sé stesso. I suoi raggiungimenti vocali e strumentali hanno poi ispirato, se non forgiato una certa schiera di nuovi cantautori fuoriusciti da punk e new wave, Bob Mould (che nei primi album quasi lo scimmiotta), Mark Eitzel, Tom Verlaine e i loro discendenti.

Tra gli ultimi album si distingue un Dream Attic (2010) che tenta la carta del live in studio per scodellare la jam per chitarra e fiddle che chiude “Sidney Well”, la campagnola “Here Comes Geordie”, una delle migliori tarde ballate, “The Money Shuffle” e “Haul Me Up”.

Lo segue pedissequamente Electric (2013), di nuovo registrato come “buona la prima” con un Electric Trio (Taras Prodaniuk al basso e Michael Jerome alla batteria): a parte qualche breve assolo quasi-funk, il bubblegum di “Straight And Narrow”, e una nuova ballata di folk trascendente (“Good Things Happen To Bad People”, con assolo scoppiettante), si fa bastare la competenza dell’autore.

Still (2015) è di fatto una collaborazione col patron dei Wilco, Jeff Tweedy, ma il suo apporto è timido e conservatore. Ne risulta l’ennesimo album che ricicla sé stesso e i suoi predecessori. Oltre a un’altra danza campestre come “Pony In The Stable”, “All Buttoned Up” perlomeno piega uno dei suoi ritornelli-slogan a intrattenimento vaudeville, ma un barlume più nitido del suo lato eccentrico sta nella autoparodia pseudo-zappiana di “Guitar Heroes”, sorta di excursus della sua carriera di strumentista.

Per 13 Rivers (2018) Thompson licenzia Tweedy e ritorna in cabina di produzione assoldando gli scafati e più congeniali Bobby Eichorn, Taras Prodaniuk e Michael Jerome. Qui il cantautore riscopre o rimette in chiaro il suo usuale stile di cantare di argomenti melanconici con vigore e fibra, un contrasto indovinato fin dai tempi di Hand Of Kindness. Non per niente inanella da subito uno dei suoi capolavori di malinconia “The Storm Won’t Come” shuffle ribattente Bo Diddley con canto lamentoso, a glorificarsi in una jam imponente, oltre a una “The Rattle Within” incisa da un rituale tribale, una dura “Bones Of Gilead” e i barocchismi un po’ contorti di “Trying”. Quindi l'album si sostenta con eleganza e omologazione, da canzoni più leggere, spiritose, ballad solide, e i suoi classici folk-rock. Uno dei suoi migliori negli ultimi tempi, specie nella tecnica, negli assoli spumeggianti, nella sicurezza, oltre che nella schiettezza con cui tratta di morte e stanchezza di vita.

La dimensione eccentrica costituisce invece il secondo troncone della carriera di Thompson. Sempre di là da venire fin dai tempi di certuni esperimenti del primissimo Henry The Human Fly, e già in parte espresso nei soli strumentali di Strict Tempo, questo alter-ego parallelamente si isola e si approfondisce alienandolo dal ruolo di mero cantautore, e proiettandolo in progetti maggiormente sperimentali.
La new wave, che nel frattempo ha ascoltato con passione le sue evoluzioni di chitarrista, lo fagocita nelle personalità di Anton Fier e David Thomas, con cui collaborerà alla realizzazione di alcuni dei loro capolavori (rispettivamente, il grande collettivo dei Golden Palominos e un paio di album-gioiello solisti del vocalist dei Pere Ubu, "Sound Of The Sand", 1981, e "Variations On A Theme", 1983).

Nella seconda metà degli 80 entra poi a far parte del supergruppo French Frith Kaiser Thompson, sorta di CSN&Y sui generis, per misurarsi con altri due grandi chitarristi di ricerca, Henry Kaiser e Fred Frith, ma anche partecipando attivamente con composizioni di suo pugno che coronano i due album del progetto, Live Love Larf Loaf (1987) e Invisible Means (1990): una “Drowned Dog Black Night” che è insieme una delle sue migliori ballate e uno dei suoi più irrazionali assoli all’elettrica, “A Blind Step Away”, “Peppermint Rock”, lo scherzetto-divertissement “Killerman Gold Posse”, e “Begging Bowl”.
Una più umile collaborazione si ha in Industry (1997), un album realizzato con Danny Thompson, sessionman tra i più apprezzati del giro (che, nonostante cotanto cognome, curiosamente non ha alcuna relazione parentale con l’autore).
Thompson ha infine una carriera parallela come compositore di colonne sonore, a iniziare dall’antologica Hard Cash (1990), quindi Sweet Talker (1991) di Michael Jenkins, e più avanti Grizzly Man (2005) di Werner Herzog e Cold Blue (2019) di Erik Nelson, e pure di un personalissimo musical, Cabaret Of Souls (2012).

Le sue antologie spaziano da Watching The Dark (1993) a Bug Music Sampler (1998) al monumentale Life And Music (2006); una delle migliori è la quadrupla Walking On A Wire (2009). End Of The Rainbow (2000) contiene una versione alternativa di “A Heart Needs A Home”. Il box Hard Luck Stories (2020) raccoglie i dischi con Linda e inediti.

La carriera solista di Linda Thompson inizia poco dopo la fine del matrimonio e del sodalizio artistico con Richard. Il suo primo One Clear Moment (1985) è però di fatto una collaborazione con l’amica cantautrice e produttrice Betsy Cook, che cura orchestrazione e arrangiamenti delle canzoni in uno shock di tastiere elettroniche e ritmi da discoteca; la consueta bianchezza d’angelo degli album con l’ex-marito risplende ora nella tecnologia, e muta tenuamente in fatalismo. Di mezzo c’è anche la volontà di farne un concept sulla separazione - un album-risposta a Hand Of Kindness - che offre due gioielli di nuova levità, la disperata dedica di “Telling Me Lies” che ascende in un drammatico organo a canne, e il lied cantato nel vuoto di “Only A Boy”, oltre a una rivisitazione della “Trois Beaux Oseaux De Paradis” di Ravel.

Thompson family“Telling Me Lies” sarà portata al successo l’anno dopo nella versione del trio Linda Ronstadt-Emmylou Harris-Dolly Parton, ma la carriera della Thompson - eccettuate le antologie Dreams Fly Away (1996) e Give Me A Sad Song (2001) - si iberna per quasi vent’anni, anche per via di un problema alla laringe che le impedisce di cantare.
Spinta dall’aiuto di familiari, colleghi e amici, su tutti il figlio Teddy e Rufus Wainwright, con i quali co-scrive parte delle canzoni, e persino dal marito che fa da corista in una reunion sotto mentite spoglie, torna a pieno titolo con Fashionably Late (2002), un’opera che ripristina lo status di delicata cantante folk del tempo che fu.
La formula si ripete per Versatile Heart (2007), con un cast ancor più allargato e un apporto ancor più esplicito di Teddy, forse l’opera più equilibrata della sua carriera, e per Won’t Be Long Now (2013), in cui di nuovo ricompare Richard in alcune parti di chitarra. My Mother Doesn't Know I'm On The Stage (2018) è una raccolta di vetusti standard pop.

Questi dischi finiscono per essere delle piccole grandi rimpatriate tra familiari, tutti bene o male con una carriera musicale all’attivo, e questo processo di riavvicinamento si concreta proprio in Family (2014), con una line-up che comprende la grande coppia di ex-coniugi, i due figli e qualche comparsa di fratellastri e nipoti.
Da parte sua Richard rimane in tema di amarcord incidendo in solitario rivisitazioni dell’epoca d’oro in Acoustic Classics (2014),  Acoustic Classics II (2017) e Acoustic Rarities (2017).

Richard Thompson

Discografia

RICHARD AND LINDA THOMPSON
I Want To See The Bright Lights Tonight (Island, 1974)

8

Hokey Pokey (Island, 1975)6
Pour Down Like Silver (Island, 1975)7,5
Guitar Vocal (antologia, Hannibal, 1976)
First Light (Chrysallis, 1978)6,5
Sunnyvista (Chrysallis, 1979)

6

Shoot Out The Lights (Hannibal, 1982)8
End Of The Rainbow (antologia, Island, 2000)
RICHARD THOMPSON
Henry The Human Fly (Island, 1972)

7

Strict Tempo (Elixir, 1981)6
Hand Of Kindness (Hannibal, 1983)

7

Across A Crowded Room (Polydor, 1985)

5,5

Daring Adventures (Polydor, 1986)

5

Amnesia (Capitol, 1988)

6,5

Sweet Talker (Capitol, 1991)5
Rumor And Sigh (Capitol, 1991)6,5
Watching The Dark (antologia, Hannibal, 1993)

Mirror Blue (Capitol, 1994)

5
You? Me? Us? (Capitol, 1997)

5,5

Bug Music Sampler (antologia, Bug Music, 1998)
Mock Tudor (Capitol, 1999)5,5
Action Packed (antologia, Capitol, 2001)
The Old Kit Bag (Beeswing, 2003)6
Front Parlour Ballads (Cooking Vinyl, 2005)5
Grizzly Man (Cooking Vinyl, 2005)5
Life And Music (antologia, Free Reed 2006)
Sweet Warrior (Proper, 2007)6
Walking On A Wire (antologia, Shout Factory, 2009)

Dream Attic (Proper, 2010)

6
Cabaret Of Souls (Beeswing, 2012)5
Electric (Proper, 2013)4,5
Acoustic Classics (Beeswing, 2014)4

Still (Fantasy, 2015)

5

Acoustic ClassicsII (Beeswing, 2017)

4

Acoustic Rarities(Beeswing, 2017)

3

13 Rivers (New West, 2018)

6

The Cold Blue (New West, 2019)

4
FRENCH FRITH KAISER THOMPSON
Live Love Larf Loaf (There, 1987)6
Invisible Means (Windham Hill, 1990)6
RICHARD AND DANNY THOMPSON
Industry (Hannibal,1997)5
LINDA THOMPSON
One Clear Moment (Warner, 1985)6,5
Dreams Fly Away (antologia, Hannibal, 1996)
Give Me A Sad Song (antologia, Fledg’ling, 2001)
Fashionably Late (DBK Works, 2002)6
Versatile Heart (Rounder, 2007)6
Won’t Be Long Now (Puttifer Sounds, 2013)5,5
My Mother Doesn't Know I'm On The Stage(Omnivore, 2018)3
FAMILY
Family (Fantasy, 2014)4
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

A Heart Needs A Home
(live, 1975)

I Want To See The Bright Lights Tonight 
(live, 1981)

Dimming Of The Day
(live, 1981)

I Feel So Good
(videoclip ufficiale, 1991)

Richard Thompson su OndaRock

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