Calexico

Calexico

Il post-rock della Frontiera

Sul finire degli anni 90, decennio in cui il rock ha guardato costantemente in avanti, i Calexico hanno rivolto il loro sguardo indietro riesumando, col piglio austero degli etnomusicologi, musiche di tempi e luoghi remoti, arrivando così a creare una forma di roots-rock postmoderno, tra complesse partiture strumentali e suggestioni messicane. L'esito è un affascinante road-movie nel deserto dell'Arizona. Ecco la monografia completa e due interviste in esclusiva con Joey Burns

di Claudio Fabretti, Salvatore Setola + AA. VV.

La musica dei Calexico è una sorta di road movie, che si consuma tra la sabbia infuocata dell'Arizona e le suggestioni delle fieste messicane. È una miscela trasognata di rock e mariachi, folk e country, umori gypsy e musica da camera, improvvisazioni jazz e paesaggi sonori alla Ennio Morricone.
Calexico è una città della California il cui nome unisce la parte iniziale della parola "California" a quella finale della parola "Mexico". Un incrocio, una koinè insomma, ma anche una linea di confine: non è California ma non è nemmeno Messico; è entrambe le cose e altro ancora. Questa è la qualità distintiva della parola "Calexico", al di là del suo riferimento topografico, che affascinò Joey Burns e John Convertino, rispettivamente già basso e percussioni dei Giant Sand di Howe Gelb, decisi nel 1996 a dare vita a un nuovo progetto musicale che portasse proprio quel nome.

Nel 1997 pubblicano il loro primo album, Spoke, senza infamia né lode: la loro formula mischia folk e country, Bob Dylan e Giant Sand, spaghetti western e umori messicani. Il risultato è interessante, ma difetta di omogeneità; in effetti, sarebbe stato impensabile che già all'esordio il duo di Tucson, Arizona, riuscisse ad amalgamare in modo coerente elementi stilistici così disparati.

Con The Black Light, però, la premiata ditta Burns-Convertino centra il bersaglio grosso: l'opera seconda, infatti, non solo tiene in perfetto equilibrio gli elementi che in Spoke rimanevano sparigliati, ma miracolosamente ne aggiunge di nuovi, espandendo i già folti orizzonti sonori dell'esordio oltreoceano e nell'America meridionale.
The Black Light è un caleidoscopio di musiche tradizionali, popolari e, nel caso, anche colte: le radici della musica americana (il folk e il country), il tex-mex (musica ispanica del Texas) e la musica messicana delle orchestre mariachi si sposano con echi della tradizione musicale balcanica, peruviana e caraibica. A ciò si aggiungono suggestioni morriconiane, incursioni cameristiche e un'attitudine (post) rock. È davvero stupefacente la grazia con cui si dipana questo ordito policromo.
Burns e Convertino sono coadiuvati da un gruppo di musicisti all'altezza della situazione: Howe Gelb al piano e all'organo, Neil Harry alla chitarra pedal steel, Bridget Keating al violino, Gabriel Landin al guitarròn (chitarra messicana di grandi dimensioni), Nick Luca alla chitarra classica e i tre trombettisti Rigo Pedroza, Fernando Sanchez e Al Tapatio.
La tracklist si compone di diciassette pezzi di cui solo sei ("The Ride", "The Black Light", "Missing", "Trigger", "Stray" e "Bloodflow") contengono parti vocali; le restanti undici tracce sono tutti degli strumentali. La musica dei Calexico si impone fin dal primo ascolto per le sue fascinazioni cinematografiche: la struggente "Gypsy's Curse", brano d'apertura, "Frontera", brano di chiusura, e la suggestiva "The Ride" sono cavalcate di frontiera accompagnate da trombe mariachi e chitarre desertiche. Si tratta, a ben vedere, di spericolati on the road che non avrebbero sfigurato come scenari sonori dei primi film di Robert Rodriguez. Brani come "The Black Light", "Missing" e "Bloodflow", invece, virano verso atmosfere jazzate e notturne e si abbandonano ad accordi dilatati e ritmiche convolute, tanto da richiamare certo post-rock di Louisville. Dietro questi pezzi, cantati come in un sussurro da Burns, si nasconde l'anima più malinconica (la steel guitar dolente alla Neil Young) e raffinata (le spazzolate flessuose di Convertino) dei Calexico.
Tutti i pezzi dell'album sono degni di nota, ma tra i tanti vale la pena segnalare, in modo particolare, la mesta sonata da camera per violoncello, vibrafono e chitarra di "Where Water Flows"; la fanfara gitana per fisarmonica e violoncello di "Sideshow"; la solenne "Minas De Cobre", debitrice delle colonne sonore di Ennio Morricone per i film western di Sergio Leone; e quel capolavoro di semplicità country intitolato "Over Your Shoulder". C'è, poi, "Fake Fur", una sorta di rumba sostenuta da un contrabbasso e da percussioni metalliche, mentre la steel guitar langue in sottofondo. E come non citare la traccia numero dodici, "Sprawl", breve intermezzo noir sospeso tra note sognanti di mandolino e teneri, impercettibili, afflati di vibrafono?

I Calexico restituiscono vigore a musiche tradizionali, non solo statunitensi. Il loro è un nuovo modo di concepire il roots-rock, visto come una riscoperta delle radici musicali in senso non più unidirezionale e specifico, ma globale. Ma c'è di più: dietro l'indole, in apparenza ludica, di Burns e Convertino, si celano, in realtà, musicisti appassionati e colti, esistenzialisti nei casi più estremi. 
I Calexico, sul finire degli anni Novanta, decennio in cui il rock ha guardato costantemente in avanti, volsero il loro sguardo indietro riesumando, col piglio austero degli etnomusicologi, musiche di tempi e luoghi remoti, arrivando così a creare una forma di roots-rock postmoderno.

Tutto ciò in Hot Rail (2000), è reso ancor più complesso. "Abbiamo attinto dal cosidetto "suono di Chicago" - racconta Joey Burns, bassista e mente della band -. Ma sono cresciute anche le influenze jazz e le trombe mariachi si sono fatte ancora più nitide. Abbiamo lavorato molto sulle dinamiche: silenzio/ rumore/ rimbombo/ sussurro. E la base strumentale si è ampliata anche con marimba, steel guitar e clavicembali". Trasformismi, quelli di Burns e Convertino (percussioni), che si devono anche alla comune militanza nei Giant Sands, alle collaborazioni con Lisa Germano e Shannon Wright, e all'influenza su entrambi del Paisley Underground di metà anni 80. 
Hot Rail conserva l'equilibrio tra rock e musica classica, anche se quest'ultima, a tratti, sembra prendere il sopravvento. Domina, comunque, un umore più pacato e riflessivo, dallo strumentale mariachi a suon di corni di "El Picador" (dedicato alle leggende dei toreri) allo spaghetti-western psichedelico di "Ballad of Cable Hogue", dalla ballata malinconica di "Service and repair" al misticismo dai sapori orientali di "Hot Rail". È rimasta, comunque, la "saudade" messicana che pervadeva The Black Light. Un clima che non si può non respirare vivendo dalle parti di Tucson, Arizona: una terra sospesa tra i sapori del country & western statunitense e la calda indolenza messicana.

Spiega Burns: "La parte meridionale dell'Arizona un tempo era messicana. Poi, alla metà del 18° secolo, gli Usa acquisirono questo territorio per costruirvi la ferrovia e anche i confini cambiarono. Ma la gente di lì ha mantenuto quell'identità e quella cultura. Ed era musica messicana quella che mi cantava mia madre quando suonava al piano". Lo stesso nome Calexico, d'altronde, nasce dalla fusione tra California (dove Burns ha vissuto per anni) e Mexico. Ma la musica di questa sorta di "ensemble da camera del deserto" è illuminata anche da uno spirito psichedelico. Uno spirito che Burns considera quasi innato: "In Arizona non c'è bisogno di droga per essere su di giri. La psichedelia è nell'aria, nel sole, nel cielo. Per quanto mi riguarda, mi bastano la tequila e del buon vino messicano". 

Feast Of Wire (2003) ripercorre la vena psichedelica già emersa soprattutto in Hot Rail. Ma è anche il jazz a farsi largo: trombe e tromboni surriscaldano un cocktail di rock e mariachi, folk e country, ballate in odor di Neil Young e paesaggi sonori alla Ennio Morricone. Affiorano anche alcune novità assolute per i Calexico: da un certo esotismo lounge negli arrangiamenti a qualche sprazzo di elettronica. L'album contiene 16 tracce, di cui 9 strumentali, per 47 minuti di musica che si collocano a metà strada tra i due dischi precedenti. L'iniziale "Sunken waltz" è un valzer country caldo e suadente che unisce Neil Young e gli Eagles. I sapori caraibici di "Quattro (World drifts in)" evocano bevute di tequila e caldi pomeriggi assolati nel deserto. "Stucco" è un breve intermezzo strumentale che traghetta nelle atmosfere noir di "Black heart", perfetta miscela di melodia e rumore, archi e chitarre distorte, che sembra proprio provenire dai recessi più oscuri dei Black Heart Procession. Ma a brillare sono anche la lentezza studiata e cerebrale di "Pepita", le atmosfere notturne di "Not even Stevie Nicks", ovvero Neil Young che sposa i Mercury Rev in una ballata lieve e finemente psichedelica, la cavalcata nel west di "Close behind", che strizza l'occhio al Morricone spaghetti-western della trilogia di Sergio Leone. La seconda parte del disco è più marcatamente sperimentale. "The book and the canal", introdotta da soffici accordi di piano e dal suono magico di un violino in lontananza, è un piccolo gioiello d'austerità classica di 1'45'', "Attack el Robot! Attack!" un delizioso pastiche che mescola trombe, leggere dissonanze, rumori e un'elettronica minimale. A rinnovare l'ebbrezza tex-mex è "Across the wire", con le sue cadenze da festa mariachi, mentre "Guero canelo" indugia su sonorità latine un po' abusate. Se "Whipping the horse's eyes" è un'inaspettata digressione ambient, "Crumble" conduce in un terreno apertamente jazz, con un'orchestra mariachi in acido che accorda gli ottoni nella stessa tonalità di "Hot Rail". "No doze", infine, chiude il disco all'insegna di un post-rock impastato di polvere e sabbia.

In The Reins (2005) è una collaborazione tra Calexico e Iron And Wine. L'incontro tra Burns, Convertino e Beam risaliva a qualche anno fa e i tre si erano già ripromessi allora di comporre un giorno qualcosa assieme. Quel giorno è arrivato ed è nato così questo Ep di sette tracce, tutte inedite e composte per l'occasione. La partenza è subito su un buon livello: apre i giochi "He Lays In The Reins" e a regnare sono le spazzolate desertiche dei Calexico tra lap-steel, piano e percussioni tex-mex; un pezzo dalla melodia altamente evocativa, affidata a Beam e a Salvador Duran, un tenore della scena flamenco di Tucson (dove il disco è stato registrato). Ruoli invertiti per "Prison On Route 41": se prima Beam fungeva da vocalist per i Calexico, ora è la band dell'Arizona a fare da accompagnatrice alle gesta di Iron&Wine. Il brano, piacevole, è frutto esemplare della tenera penna del barbuto cantastorie, pennellate di slide a profusione e incursioni di armonica e banjo nel corpo centrale. 
La vera e propria cooperazione inizia dal terzo brano, quando le distinte personalità iniziano a fondersi e a esplorare territori un po' comuni e un po' alieni alla loro musica. "History Of Lovers" si regge su un retroterra di chitarre ritmate e onnipresente slide al contrappunto prima di sfociare in un tripudio di fiati, "Red Dust" è un'acida jam blues-rock per chitarra, armonica e organetto, "16, Maybe Less" è invece il classico lentone d'atmosfera, tanto di classe quanto incline a tediare. Purtroppo si tratta di brani palesemente di maniera, portatori di nessuna emozione e nessun sussulto di sorta. A parziale riscatto giungono i contentini finali, dove nuovamente le strade tendono a separarsi. Il fumoso noir intessuto da "Burn That Broken Bed" porta il marchio dei Calexico, pronti a immergersi in un fosco blues dal quale esce, prezioso, un bel solo di sax che porta il pezzo a morire. Meglio ancora e al livello del primo, riuscito, brano dell'Ep è il corale e accorato finale acustico prettamente Iron&Wine di "Dead Man's Will". 
Pur non privo di qualche momento gustoso, il disco delude: i brani migliori sono quelli in cui la collaborazione naufragata ha messo meno mano, lasciando dunque le aspettative per le rispettive prove in solitaria ancora buone.

L'album del 2006, Garden Ruin, rappresenta una nettissima svolta e nella composizione e nel suono: undici canzoni, e non canzoni-Calexico (tranne un paio), ma canzoni in senso classico, molto country, molto pop, molto folk, niente bozzetti strumentali, niente o quasi "spazzolate desertiche". Basta la traccia iniziale, "Cruel", per stabilire le coordinate e la misura di quanto possa dirsi riuscito il primo atto del nuovo corso (sarà così?) della band. Il pezzo è aperto da arpeggi cupi che si stemperano in un melodismo estremamente romantico, "aperto" nel suo dipanarsi sin troppo scolastico. L'incedere melodico è un po' zoppicante: indeciso sul versante da prendere, si divide equamente fra gli afflati, senza approfondirne nessuno. I fiati nel finale servono solo ad agitare le acque e confondere ulteriormente le idee. Lo spettro trattato si allarga man mano che procede il disco: "Yours And Mine" tenta la carta del tenero abbozzo folk-pop, troppo classico e di maniera per convincere, anche se non brutto; "Bisbee Blue" invece si butta sul country-pop, anch'esso con gli stessi difetti e ancora meno riuscito essendo, anche come standard, senza arte né parte. "Panic Open String" prova a convogliare quanto sin ora emerso in unico brano, sussurro carezzevole e levigato, flauti a profondere quiete: il risultato è ancor più anonimo, e pure soporifero se ascoltato nel contesto. 
La materia trattata sembra lontanissima dalla sensibilità di Burns e Convertino che non riescono a mettere l'anima nei pezzi, lasciandoli scorrere senza emozioni di sorta. Una parziale smossa riesce a darla "Letter To Bowie Knife", inattesissimo (ma non c'è nulla di previsto in questo disco) rock, che, nonostante continui a lasciare l'impronta di una band fuori luogo, piazza due convincenti sberle a quanto sentito sinora e si lancia in aperture da anthem. E' il momento migliore del disco e a profittarne arriva un mezzo tuffo nel passato con "Roka", che porta con sé la notte, la voce si fa bassa (e fa apprezzare i miglioramenti del canto di Burns), tex-mex ammiccante, suadente danza de la muerte in duetto con voce femminile. "Lucky Dime" punta invece addirittura ai Beatles adulti, col suo incedere di tastiere da pop di classe. Da qui in poi accade poco altro, con il, presuntissimo, crescendo emozionale di "Smash", con il banalissimo (e quasi irritante) rockettino base di "Deep Down" e con "Nom de Plume", diversivo fumoso in sobborghi francesi. 
Si fa notare, in pratica, solo il colpo di coda, "All Systems Red", che indovina arpeggi realmente toccanti, dilatandosi su binari post-rock, guaendo, ferita, fino alla morte. In generale, una delle poche cose buone di un disco che vede i Calexico in grandissimo imbarazzo in questo, tutto sommato maldestro, tentativo pop.

Il successivo Carried To Dust (2008) conferma il nuovo corso: perizia concertistica, arrangiamenti di classe (accordion, vibrafoni, archi, ottoni), frequentazioni stilistiche familiari appiattite su scala radiofonica in canzoncine da due/tre minuti. E un Joey Burns che si concede stravaganti scappatelle da popstar
Il disco si snoda fra lepidezze pop molto a sud del confine "Victor Jara's Hand" (con la sua andatura mariachi) e "Inspiracion" (una specie di "Besame Mucho"), pop wave imbarazzanti ("Two Silver Trees", arpeggio kabuki e ritornello anni 80 e la sincopata "Writer's Minor Holiday"), pezzi come "Man Made A Lake" e "The News About Williams" (una delle meno peggio del lotto) in cui sembrano dei Moody Blues con licenza di feedback twangcountry-pop per coppiette che hanno perso la verginità sulla groppa di un toro meccanico ("Slowness" e "Red Blooms"), si salvano da un completo naufragio il surf-mex morriconiano di "El Gatillo", il folk-noir jazzato di "Bend In The Road", le modanature dub di "Fractured Air", e il post-folk redivivo di "Contention Day", unico brano a eccedere (di pochissimo) in lunghezza e atmosfera.

Nel 2012, il nuovo album Algiers non si discosta dalla seconda parte della carriera di Joey Burns e John Convertino, ma fortunatamente ci riserva una novità. I Calexico sembrano aver fatto pratica in un mondo che non appartiene loro, quello della musica d'intrattenimento, e superano le indecisioni dei tre dischi precedenti confezionando un album omogeneo, evocativo, a volte emozionante e sempre gradevole.
Dei 12 pezzi che il duo dell'Arizona ha registrato nella suggestiva New Orleans, l'avvolgente "Epic", guidata da un'ottima prova vocale, il luminoso folk-rock di "Splitter", l'intrigante crescendo, dal minimalismo al post-rock, di "Sinner In The Sea" e l'accorata ballad "Hush", immersa in atmosfere ambient ricche e sonore, rappresentano le tappe più emotive e autentiche. "No Te Vayas", cantata in spagnolo, scorre invece come la più tradizionale delle canzoni popolari messicane, ma circondata di un vasto arrangiamento insieme moderno e malinconico, come una sovraincisione su un vecchio disco. Alienante, così come la classica ma inquieta ballad "Maybe On Monday" e l'enigmatica "Puerto", che fonde emozioni. 
Infine, la perla del disco: la strumentale "Algiers": la title track è infatti una lotta tra uno spensierato giro latino, circondato da effetti che rievocano le atmosfere delle coste del sudamericane, e uno stacco incisivo di post-rock inquietante e nero.

Il mondo sonoro dei Calexico appare così molto lineare. Tutta la polvere che portavano sugli strumenti in quell’album cupo e affascinante che era The Black Light è stata (quasi) scossa. I brani del loro nono disco Edge Of The Sun (2015), sono chiari, efficaci, maestosi, di una raffinata semplicità che cela un sapiente lavoro di scrittura e produzione.
L’apertura del disco con “Falling From The Sky” è imponente e corale, complice anche la chitarra elettrica di Ben Bridwell dei Band of Horses. Il suo ritornello è un’architettura di fiati e voci agrodolci che si dispiegano senza nostalgia. I Calexico esplorano i generi più tradizionali e suonati della musica statunitense, riuscendo a darne una versione personale. “Bullets And Rocks” è emblematico di questa maturità: secondo in scaletta, il brano ha una tessitura asciutta in cui riecheggiano sonorità del passato ma che trova tutta la sua peculiarità nell’orchestrazione dei fiati coi cori e nelle melodie. Un brano in cui convergono anche gli echi di esperienze apparentemente lontane, come ad esempio gli ultimi dischi di Jeremy Enigk solisti e con i Fire Theft. Così come avviene in “Tapping On The Line”, una ballad con un leggero groove electro, i drones di sottofondo e i cori delicati di Neko Case – uno dei migliori brani del disco – o in “Follow The River”, insieme a Nick Urata dei Devotchka, col suo fraseggio vocale che accompagna l’ascoltatore fino alla fine, e fino alla meta. Le protagoniste del disco sono le voci: la loro cura nella scrittura e nella registrazione, il loro posizionamento tra gli strumenti nello spazio sonoro dai cui emergono sempre nitide, nette e pulite.
Altri brani sono maggiormente costruiti sulla tradizione del southern folk-rock, come “When The Angels Played” o “Miles From The Sea”. Tra basso, batteria, chitarre acustiche ed elettriche, compaiono la tromba, la fisarmonica, l’armonica a bocca, la pedal steel guitar, gli archi, insieme a un tocco di batteria elettronica, di synth e di cori processati con gli effetti.
Il disco è anche un tributo alle musiche del centro e sud America (soprattutto messicana e caraibica), che s’incontrano con il sound dei Calexico, a volte con un guizzo dato da un arrangiamento inusuale (“Cumbia de Donde”, “Calavera”), altre volte sull’orlo di scomparire nel modello di riferimento (“Coyoacán”). “Moon Never Rises” rappresenta un ottimo punto d’incontro tra questi due mondi musicali, crossover di sonorità che sono la caratteristica della ricerca dei Calexico ormai dal 1997. I Takim, gruppo di musica greca tradizionale, suonano in “World Undone”, brano folk dal fondale ambient. Fioriscono gli stili e le sonorità, compaiono all’orizzonte personaggi diversi, s’incrociano storie e sentieri. Nell'edizione deluxe compare anche un tango conturbante – “Roll Tango”, una delle chicche del disco – a metà strada tra i Calexico e Tom Waits, tra Argentina, Arizona e Grecia, con Eric Burdon degli Animals come guest vocal e i Takim ad arricchire l'ensemble.
Edge Of The Sun chiude in grande stile una parabola nella carriera dei Calexico. Il disco non entra facilmente "in circolo”, ma la qualità della scrittura e della produzione lavorano dall’interno. Ogni volta vi troverete sorpresi a scovare qualche elemento nuovo. E, come ogni disco dei Calexico, “funziona meglio” se ascoltato al crepuscolo.

Registrato in una casa gigantesca nel nord della California costruita in legno con materiali recuperati da un cantiere navale, The Thread That Keeps Us è il nono album in studio della band. La casa, denominata Panoramic House, è stata ribattezzata dai due leader come “nave fantasma”. Un luogo particolare, che esplica la politica dei Calexico, l’approccio artistico, umano e sociale che da sempre contraddistingue la loro musica. Nel corso degli anni, Convertino e Burns non sono stati fermi un attimo, e hanno sempre viaggiato, suonato, conosciuto persone nuove e collaborato con i musicisti più svariati. Il loro modo di intendere la vita è complementare e intrinsecamente legato alla musica, alla voglia di suonare e di esibirsi sempre, comunque e ovunque. 

A differenza dei lavori precedenti, stavolta i risvolti politici dei loro testi si snodano attraverso la narrazione di vicende umane diversissime tra loro. Sono indignati, i Calexico. Indignati per come si sono messe le cose negli States dopo le ultime elezioni presidenziali. Ma non solo. Sono tremendamente spaventati dagli eventi climatici, dalla reiterazione secolare di drammi come il razzismo. Insomma, per quanto concerne l’interpretazione squisitamente politica in questo loro nono disco ce n’è davvero per tutti i gusti, e spunta perenne l’eterno contrasto tra la luce e il buio, la speranza e la paura. Al netto dell’assenza apparente di canzoni esplicitamente di protesta, l’album presenta soluzioni spesso non proprio in linea con le armoniche morriconiane e mariachi del passato. Si prenda ad esempio l’introduttiva “End of the World With You”, con tanto di refrain alla Built To Spill, mentre la pulsazione elettronica in modalità giocattolo di “Under The Wheels” associata alla solita cadenza gipsy tende a non esaltare particolarmente, risultando scontata e prevedibile nonostante la volontà di partenza di provare a mescolare le carte. Molto meglio la strada intrapresa nel passo funky più cupo e “noir” di “Another Space”, o nel rock graffiante e tremendamente bluesy di “Dead in The Water”.
Insomma, The Thread That Keeps Us è un lavoro degno per metà della storia luminosa di una band che continua a spostarsi in lungo e in largo per tutto il pianeta, e che sembra non avvertire fatica, spinta com’è da un insaziabile desiderio di profonda interazione umana e artistica.

Nel 2019 torna la collaborazione con Iron & Wine in Years To Burn.
Già l’acclamato In The Reins soffriva di questo dualismo solo apparentemente ben congegnato, in cui Sam Beam è alternativamente vocalist di canzoni non sue e i Calexico arrangiatori di canzoni non loro. In certi frangenti, l’autore di “Trapeze Swinger” e di tantissime altre melodie memorabili deve dimenticarsi di essere prima di tutto grande scrittore di musica, per limitarsi a fare il corista in lunghe suite “da grande palco”, fatte per sovrapposizione ma senza il briciolo di un tema unificante (“The Bitter Suite”). In altri, come nell’iniziale “What Heaven’s Left”, l’accompagnamento (con gli insistiti controcanti country, come in altri brani) non aggiunge decisamente freschezza a un brano che, per dirla tutta, è quasi un gesto automatico per uno come Sam Beam.
In generale, un lavoro sovra-arrangiato rispetto alla scarsa preziosità della sua scrittura, che ricorda un po’ il lavoro più ispirato ai Calexico della carriera di Iron & Wine, l’infausto “Kiss Each Other Clean”. Un prodotto che si fonda sulla presentabilità dei suoi autori, ma che paradossalmente riesce nell’impresa di offrire meno della loro somma.

Il 2020 è l'anno del fatidico disco natalizio.
Seasonal Shift è un singolare album di canzoni a tema stagionale, composto principalmente da pezzi originali, ai quali sono state aggiunte alcune personali rivisitazioni di brani iconici della festività per eccellenza.
E' un disco sincero e celebrativo, divertente in alcune sfumature e riflessivo in altre, dove il duo di Tucson si presenta con un assortimento di forme che si destreggia con coerenza, andando ad attingere riferimenti dal fado portoghese e dalle vecchie canzoni popolari messicane.
L'album spazia tra brani originali e alcune cover di spicco quali “Christmas All Over Again” di Tom Petty e “Happy Xmas (War Is Over)” di John Lennon e Yoko Ono.
Burns e Convertino mostrano, per l’ennesima volta, abilità strumentale e acuto estro nella realizzazione di fantasiose melodie ad ampio raggio, dallo sfarzoso senso cinematografico e dal compiuto eclettismo, perfetto per il particolare, nonché difficile, periodo storico di transizione.
Non sarà il disco per il quale i Calexico saranno tramandati ai posteri, ma può essere l’inusuale antidoto al consumato cliché delle solite solfe dicembrine.

Nel 2022 arriva El Mirador. Registrato a Tucson in casa del tastierista Sergio Mendoza durante la stagione dei monsoni, quando la pioggia stravolge il paesaggio desertico e dalla terra si sprigionano aromi nascosti dalla siccità, in una fase di stop forzato dal lockdown in cui la voglia di tornare on stage ha mosso la band verso sonorità più ballabili e melodie più immediate.
Già la title track che apre l’album, “El Mirador”, un mambo psichedelico che rimanda alle atmosfere solfuree de “L'infernale Quinlan” contiene gli elementi ricorrenti in tutta l’opera: cadenze quasi caraibiche, l’alternanza delle lingue spagnola e inglese, abbondanti cori femminili, curatissimi arrangiamenti di fiati, violini incalzanti e stilettate di chitarre acide.
Tanti i titoli in lingua spagnola con ben due Cumbie: “Cumbia Penisola” e “Cumbia del Polvo” dove anche se i ritmi scaldano le canzoni, la malinconia è così presente nei testi da assumere il ruolo di vera protagonista. Ma come sempre è il deserto a tracciare il fil rouge che unisce la narrazione: con la indomita aspirazione di rivalsa  che anima i cuori dei suoi abitanti nella ticchettante “Then You Might See”, nell’ inno alle rigeneranti piogge monsoniche sugli orizzonti bruciati dalla polvere della “Cumbia del Polvo”, nelle slide guitar che sfilano tra le sue dune buie e le parole della poetessa/cantautrice Pieta Brown nella notturna “El Paso”, nella scintillante passeggiata sotto i cieli stellati con passo felpato alla Chris Isaak di “Cnostellation”. Intensa, “Liberada” risente di influenze cubane e delle trattenute rabbie militanti ma non mancano i rimandi al passato nella tromba in sordina che svolazza tra arpeggi sospesi molto “The Black Light” dell’unico strumentale “Turquoise” o nella cavalcata country punk “Rancho Azul” si ritrova qualcosa dello spirito dei Giant Sand. La fiesta arriva puntuale nella trascinante “The El Burro Song” con tanto di trombe arrembanti, violini, fisarmoniche, nitriti, urletti e guitarron, ma si sente già in arrivo lo smarrimento post sbronza tra fidanzate svenute e mascelle fratturate.

Contributi di Ciro Frattini ("In The Reins" e "Garden Ruin"), Simone Coacci ("Carried To Dust"), Rossella De Falco ("Algiers"), Maria Teresa Soldani ("The Edge Of The Sun"), Giuliano Delli Paoli ("The Thread That Keeps Us"), Lorenzo Righetto ("Years To Burn"), Cristiano Orlando ("Seasonal Shift"), Lorenzo Montefreddo ("El Mirador")