In bocca chiusa non entran mosche.
Da un certo punto di vista, affrontare una ricostruzione monografica su Supersilent - unità da combattimento musicale a corpo libero, di stanza in Norvegia - è compito facile. Essa è scandita in otto capitoli, ovvero otto cd intitolati semplicemente con una numerazione progressiva (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8), a loro volta suddivisi in un certo numero di tracce anch’esse battezzate alla gloria del proprio numero cardinale (ad esempio, "3.2" è la seconda traccia del terzo disco, "6.6" è la sesta del sesto). A voler insistere nel gioco, va rilevato che negli ultimi quattro dischi viene rispettata una puntigliosa progressione aritmetica: 5 ha 5 tracce, 6 ne prevede 6, 7 ne conta 7, 8, 8.
E per chi rischiasse di rimanere un po’ perplesso di fronte a questa glaciale scansione, viene "in aiuto" la grafica. Tutti gli album hanno copertina identica: ci sono il numero del disco e dei brani, data, luogo e personale tecnico delle registrazioni, il tutto scritto senza maiuscole, in caratteri senza grazie, su campitura monocroma (questa però diversa a ogni uscita). Nessun accenno a musicisti, compositori, strumentazione, giusto un doveroso inserimento del codice a barre, ameno segnale lasciato a uso e consumo di futura umanità avida lettrice di linguaggio binario.
C’è solo una cosa su cui i Supersilent si concentrano davvero: la performance. Il gruppo, infatti, non solo non parla della propria musica, ma nemmeno la prepara, la scrive, la arrangia, o la sovraincide. Semplicemente la improvvisa, liberamente, collettivamente, in studio di registrazione così come in concerto.
E qui cominciano le complicazioni per la presente monografia. Pur non essendo esattamente binaria, anche l'improvvisazione è un linguaggio. E anche quando è definita "libera", si tratta comunque di un linguaggio creato alla bisogna, ad esempio negando polemicamente le regole di linguaggi precedenti (come il free-jazz degli anni 60). Nel caso dei Supersilent avviene una cosa diversa. Una posizione di partenza relativamente defilata viene sfruttata per costruire con cura un vero e proprio idioma personale, che non si contrappone a nulla in particolare, e che nel momento in cui applica le proprie regole, impegna l'ascoltatore a trovarne i riferimenti, i confini.
Certamente, di solito, anche quando si vuol essere completamente autarchici, l'improvvisazione è sempre "in rapporto a" qualcosa. Nella storia della musica si contano improvvisazioni su temi di Beethoven, improvvisazioni sul tema dei diritti razziali, improvvisazioni su una frase di Wittgenstein. C'è insomma quasi sempre un modello, dietro gli slanci spontanei di un performer, sia esso un set di melodie preesistenti, una poesia, un concetto filosofico. Niente: i Supersilent negano anche questo, depurando il gesto improvvisato da ogni esplicita contestualizzazione. "1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8" è tutto quello che vogliono dire. Il resto lo suonano.
Qualche dato più succoso lo si può ricavare dagli aneddoti. Come ormai da più parti si tramanda, nel 1997 tra Trondheim e Oslo, Norvegia, esisteva un trio di musica di ricerca chiamato Veslefrekk, formato da Ståle Storløkken (sintetizzatori), Jarle Vespetad (batteria), e Arve Henriksen (tromba e live electronics). In quell’anno al Bergen Jazz Festival avviene l’incontro, direttamente in jam improvvisata, con il quarto elemento, Helge "Deathprod" Sten (operatore elettronico). E’ in quella felice jam che nascono, già definitivi come organico e come orientamento, i Supersilent.
Come i giovani John e Paul degli anni 60, che giureranno di firmare tutte le loro canzoni come Lennon/McCartney, o magari come Lars Von Trier, che nel 1995 si divertiva a redigere il manifesto Dogma sulle tecniche di regia, il quartetto testé formato opta per una regolamentazione di estremo rigore. Non si parla della musica fuori dalla performance, non si fanno prove, non si concorda nulla a priori - e la cosa vale anche e soprattutto quando si va a registrare. Dopodiché, non si danno titoli ai dischi e ai brani, non ci si perde in inutili avvertenze su "chi-ha-suonato-cosa-in-quale-momento", non si allegano messaggi di alcun tipo (politico, sociale, estetico), insomma, smontati gli strumenti, ognuno per la sua strada.
In quanto alla pruriginosa formalità di trovare un nome al gruppo, ci si sbriga in fretta: pare che qualcuno avesse avvistato nei dintorni di Oslo un camion recante scritto sul rimorchio "supersilent". Benissimo. (Cercando su internet si trovano tanti oggetti tecnologici reclamizzati come "super-silenziosi". Tra i vari, mi permetto di segnalare una significativa motosega. Supersilent sarà figlio di una coincidenza, ma si può dire che quel camion sia passato proprio a proposito).
1. La prima regola del gruppo è che non si parla del gruppo.
Supersilent fa quindi la sua comparsa sul mercato discografico con la pesantezza di un tir. Nel 1997, 1, 2 e 3 escono infatti in un botto solo, come triplo cd. "Avevamo sette ore di improvvisazioni", ricorda Deathprod, "e siamo felici di averne salvate almeno tre". E non si tratta solo di una notevole quantità, si tratta anche di una colossale massa sonora. Non a caso il disco viene promosso come "deathjazzambientavantrock" dalla casa discografica (onore alla Rune Grammofon, che esordiva in quegli anni con questo disco, lontano da qualunque appiglio commerciale). Già i tre Veslefrekk non dovevano essere particolarmente tranquilli, ma ora con Deathprod (anche alla produzione) e la nuova filosofia minimal-nichilsta, il gruppo ha chiari intenti destabilizzanti. Sempre a proposito di Deathprod, che dire di uno che nei credits del disco dichiara di occuparsi degli "audio virus"?
Infatti "1.1", la prima traccia, è un bel pugno nello stomaco. Sviluppo lungo, predilezione per strumenti sintetici, elettrificati o distorti, nessuna pulsazione riconoscibile, violenza sonora, grande sabba audiovirale. Mentre si riprende fiato, "1.2" introduce degli stop & go con un interessante suono di rullante, ma il gruppo non molla la presa e continua a lavorare di cazzotti sonori. Con "1.3" siamo nel delirio sismico, da cui emergono inquietanti vocalizzazioni (di Henriksen, ci torneremo su). In "1.4" ci si calma un po’, poi il disco riprende a ribollire, con l’affermarsi della tromba, che si impossessa sgomitando di quello che potremmo definire il primo tema dell'album.
2. La seconda regola del gruppo è che non si parla del gruppo.
Il secondo cd si apre proseguendo letteralmente sulle orme di "1.4" (lo stesso suono identico suono di cassa dà l'avvio allo slow funk di "2.1")… ma sarebbe inutile attardarsi sui singoli brani. Difficile trovare il preferito, il "pezzo forte", insomma aggirarsi per il triplo cd come si farebbe per un album di canzoni. 1-2-3 è un monolite, vale a un tempo come concettualità e come esperienza. Da una parte contiene tutta la profondità programmatica di cui sopra, dall’altra la traduce in suono senza alcun compromesso, senza nessun filtro o piaggeria. Come dire che l’esperienza diretta di un concetto radicale non è possibile, andrebbe fatta per gradi, ma andando per gradi si rischia di annacquare il concetto. E allora nessun ripensamento, si va a corpo libero.
3. Siamo arrivati qui perché qualcuno ha violato le regole. Qualcuno ha parlato del gruppo.
Facciamo filtrare altri dati. I tre Veslefrekk facevano, chi più chi meno, parte della scena del jazz colto scandinavo, scena che nei successivi anni, parallelamente ai Supersilent, continueranno a frequentare. Per fare un esempio, tutti e tre incidono qualcosa per la Ecm, prestigiosa etichetta tedesca di jazz algido e meditativo. Ståle Storløkken (poliedrico pianista con esperienze di composizione eurocolta), per esempio, è ai synth con il chitarrista Terje Ripdal. Jarle Vespetad è batterista ricercato, accompagna decine di artisti, tra cui Tord Gustavsen. Arve Henriksen, che potrebbe diventare il nuovo riferimento europeo per la tromba, veniva chiamato dal sassofonista Ian Bellamy già nel 1999, poi incide meravigliosi dischi solisti (vivamente consigliati, Chiaroscuro su tutti). E’ forse virtù di questa loro area d’afferenza che ci si ostina a volte a scrivere "jazz" nel genere di riferimento dei Supersilent. Jazz? E cosa succede se aggiungiamo anche Deathprod, che viene da tutt’altra parrocchia? Sperimentatore elettronico senza compromessi, con all’attivo dischi industrial-ambient (Morals And Dogma), che si era associato con successo ai Motorpsycho già nel 1993. Jazz? A pensarci bene, sì. Jazz. Soprattutto se si prende l’etichetta e la si maltratta un po’ – ce lo consentiranno sicuramente i numi tutelari del genere, che non l’hanno mai amata – per rigirarla più come proposta sovversiva che come definizione da negozio di dischi.
4. Il combattimento dura finché lo vogliono i combattenti.
Ci spostiamo al 1998, un anno dopo l’esordio. Come nelle migliori improvvisazioni, poteva succedere di tutto. Supersilent era partito spingendo così tanto il pedale dell’estemporaneità e dell’ermetismo da poter anche sembrare un’azione situazionista usa-e-getta. In effetti è solo perché oggi siamo arrivati a 8 che ci possiamo sbilanciare sulla "coerenza" o sulla "profondità" del progetto. Immaginandoselo come una puntata isolata di dieci anni fa, 1-2-3 ci sembrerebbe probabilmente il colossale incubo di quattro freak dai gusti selvaggi. Ma 4 reca con sé un messaggio forte: questi simpatici casinisti scandinavi stanno in realtà portando avanti un discorso.
In 4, anche solo dal punto di vista produttivo, la qualità è migliore. Ma è soprattutto sul versante artistico che il gruppo mostra di possedere anche il prezioso dono del controllo. Nel suo complesso, 4 abbassa notevolmente i giri della motosega supersilenziosa, ma non perde in affilatezza. "4.1" inizia con un bellissimo unisono tromba-synth (è istruttivo seguire l’evoluzione dei due solisti Ståle e Arve nel corso dei dischi, così diversi eppure così vicendevolmente influenzati) in un ambiente più liquido, lievemente riverberato, dove fanno capolino anche alcuni loop percussivi trattati con gusto (da Deathprod).
La seconda traccia si assesta su un rovistamento minaccioso, ma mai debordante, con Henriksen che sibila nel microfono qualcosa come "does not separate". "4.3" esibisce un invidiabile groove in stile M-Base, un funk rigirato che farebbe l’invidia di Steve Coleman (e Jarle Vespetad è un batterista stupendo proprio per la sua capacità di svolgere un ruolo ritmico senza far distinguere un tempo preciso).
4 è un disco che offre maggiore varietà e, contemporaneamente, una maggiore sintesi. I pezzi trovano presto il loro punto focale (un particolare timbro, un certo ritmo, una successione melodica), che li contraddistingue e li rende in un certo senso memorizzabili. E così, al cospetto della maturità di 4, certe strutture di 1-2-3, pur nel loro fascino brutale, si rivelano verbose e fini a se stesse. La follia c’è ancora (emerge rabbiosa in "4.6"), ma può anche cedere il passo alle atmosfere lunari ("4.7"), dove il suono sembra propagarsi a stento per la mancanza d’aria. Ma, sporchi, cattivi, eterei o pacati, quello che conta è che da ora questi situazionisti supersilenziosi ci sono per davvero, e la numerazione è destinata a crescere.
5. Non si parla del gruppo perché, salvo che per qualche ora su un palco o in una sala di incisione, il gruppo non esiste.
2001: negli anni precedenti i Supersilent si sono manifestati sempre più spesso in carne e ossa. Hanno suonato per l’Europa, sono venuti anche in Italia. Ed è quindi il momento di fare un disco live, ovviamente si fa per dire perché da un certo punto di vista non cambia nulla, l’approccio è fondamentalmente lo stesso (chissà come si regoleranno con il greatest hits!). 5 raccoglie quindi cinque momenti del tour, registrati direttamente su Dat stereo nelle sere dei concerti, e mostra, al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare dalla dimensione live, un approccio ancora più rarefatto rispetto alle prove precedenti. Le bordate di 1-2-3 sembrano lontanissime, e ormai il gruppo privilegia decisamente le atmosfere sospese, tipicamente nordiche, dove il noise, quando si intromette, lo fa compostamente (ad esempio, alla fine di "5.1").
Le nuove ambientazioni rarefatte si dispongono a conca, attorno a vuoti sonori che, ad esempio in "5.2", attendono di essere riempiti da un’intenzione solistica. E infatti 5 è il disco in cui l’equilibrio del gruppo si assesta ulteriormente, consentendo al quartetto di suddividersi dinamicamente in solista più trio accompagnatore. In "5.3" viene per la prima volta tessuta una sottile ragnatela di accordi di piano elettrico, su cui si staglia una tromba distorta (fino a sembrare quasi un synth), ma suonata con piglio meditativo. Perfino Deathprod è in vena più musicale, e imbraccia qua e là la chitarra elettrica (suonata certo a modo suo).
Intanto, nel 2002 i Supersilent compaiono - unico nome nordico insieme a Björk - nel triplo box "Adventures", che festeggia i vent'anni della rivista The Wire.
6. La lotta è caotica eppure non si è soggetti al caos.
Il sesto è il disco del "successo" (fatte le dovute proporzioni). Chi scrive ha conosciuto i Supersilent proprio con 6 (avevo il cd, di cui avevo solo letto velocemente un parere su internet: leggevo "Supersilent 6" tutt’uno, e pensavo che fosse il nome di un sestetto – e l’ho continuato a credere per diversi ascolti).
Col senno di poi, ascoltare 6 come un oggetto sonoro ignoto è una fortuna, anche perché si tratta in fondo della modalità auspicata dal gruppo. Nel mio caso l'effetto sorpresa veniva anche da un incipit male interpretato. Ascoltando i primi secondi di "6.1", decido che si tratta di una intro molto lenta, con tastiere che giudico sbrigativamente "d’atmosfera", e che mi fa perdere presto l’attenzione. Dopo pochi minuti è come se mi rendessi conto di qualcosa che va contro le leggi fisiche: mi guardo attorno e scopro che si tratta del cd che sta ancora girando. Wow. I sintetizzatori d’atmosfera si sono incazzati come non pensavo fosse possibile. Si stanno incrociando e arrovellando come mai avrei pensato che nessuno avesse il coraggio di fare. Forse Wagner, se avesse trent’anni oggi! O Stockhausen. La cosa bizzarra è che lavorando con tutto questo ammasso di tastiere, ci si avvicina pericolosamente al prog sinfonico, ma miracolosamente lo scivolone non avviene (siamo con Wendy Carlos più che con Keith Emerson). Ståle, qui, è sul trono di Sigfrido. Esibisce un suono di synth davvero ricco, multistrato, con infinite sfumature e grande calore, che è bello andare a confrontare con i dischi precedenti (in 1-2-3, per dire, non aveva ancora un suono così). E lo articola attraverso un fraseggio che lo rende immediatamente riconoscibile. Scale bizzarre, atonali, di sapore novecentesco (magari la "octofonica" di Messiaen, artista da lui molto ammirato), coordinate da un senso lirico che le rende comunicative, seppur sempre piuttosto ansiose.
Occhi sgranati, quindi, di fronte alla tempesta di oscillatori. Che si conclude elegantemente, per far posto all’altro lato seducente dell’inferno. "6.2" potrebbe essere infatti una traccia di "Get Up With It" di Miles Davis (ultimo disco dello stratosferico Miles anni 70), una specie di "He Loved Him Madly", aggiornata attraverso Jon Hassell e Brian Eno. Pulsazione regolare, ma dilatatissima e riverberata, alcuni impasti elettrici lontani, su cui Arve Henriksen va ad arabescare un assolo di tromba perfetto, che sfrutta espressivamente l'effetto di distorsione.
"6.3" è uno dei pezzi più "narrativi", se così si può dire, con i tom di batteria che a intervalli irregolari squarciano il silenzio scandendo un qualche evento ineluttabile (ognuno cerchi le proprie immagini, e ringrazi i ragazzi che non han voluto dargli titolo). Infine "6.6" conclude degnamente il disco con una moltiplicazione di piani (in tutti i sensi, sia di strumento musicale, sia di livello di profondità), in cui un pianoforte campionato cede la melodia al piano vero, al quale fanno seguito un piano preparato e un ulteriore pianoforte "invecchiato".
7. Nessuno conosce il piano completo, ma ciascuno è addestrato per svolgere alla perfezione un compito preciso.
Nel 2005 arriva, puntuale, 7. C’è la grossa novità del Dvd. L’intero disco è la riproposizione integrale di un fortunato concerto a Oslo e, per quanto sia ovviamente possibile ascoltarne anche solo l’audio, vale senz’altro la pena di seguire le immagini (in un azzeccato bianco e nero, straordinariamente sporco e disturbato). Finalmente vediamo i nostri eroi. E in 7 l’eroe è soprattutto Arve Henriksen. Il suo personalissimo suono di tromba, tanto vicino al flauto shakukachi giapponese, ci accoglie già da subito nel tranquillo bric-a-brac iniziale di "7.1". La sua voce mistica segue poco dopo, ed è impossibile non rimanerne rapiti. Finalmente vediamo anche Deathprod, meraviglioso nel gestire le sue macchine e nel tenere con la testa un ritmo che solo lui sente, ma che comunque da qualche parte in effetti ci sarà. Assieme agli altri gioca ad alimentare il ribollire del pezzo, fino alla chiusa, che è di quelle che su cui ogni buon improvvisatore metterebbe la firma: secca e coordinata.
In "7.2" il suono della tromba è al di là di ogni immaginazione, ma a voler guardare bene si scopre che Henriksen ha montato un bocchino da sax sul proprio strumento, con effetti inediti, inclusi i classici colpi di labbro da sassofonista (che Deathprod prontamente coglie e riecheggia con i propri macchinari). Dopodiché, non è ancora finita: Arve urla come posseduto, imbraccia la tromba e suona in un registro sopracuto da orchestrina di "Guerre Stellari", infine intona un canto dal sapore etnico. Impossibile non rimanere sconvolti.
Al di là di tali prodezze, il disco si contraddistingue anche per una certa propensione all’effetto corale. Al contrario di 5, qui si sentono il calore e la tracotanza del live. Anche in "7.4" e "7.6" i brani finiscono in un grande impasto corale, dominato da melodie aperte, nordiche (con echi dei Jaga Jazzist) che, pur non sempre brillando per eccezionale inventiva, trascinano il pubblico, che applaude spellandosi le mani.
8. Il silenzio è l’assenza di qualunque intenzione.
2007, dieci anni di carriera, una piccola resa dei conti. 6 rappresentava l’affermazione qualitativa, una pietra miliare nell’evoluzione del gruppo, 7 conteneva la stupefacente energia del live, con la preziosa testimonianza della traccia video. Cosa viene dopo tutto ciò? Sulla carta un disco "normale", che all’inizio era stato annunciato come doppio (doveva essere 8-9), e che invece esce singolo.
8 ritrova i nostri di nuovo in studio, alle prese con una formula collaudata, apparentemente senza grandi novità. "8.1" si compone come una cupa marcia, costruita intorno a un battito cardiaco, su cui le trame di tastiera disegnano pensose figure. "8.2" è nuovamente contrassegnata dai synth indagatori che si aggirano intorno a un crepitio elettronico, salvo venire sconvolta da certe improvvise esplosioni subacquee (opera di Deathprod?).
Attraverso la nervosa "8.3" (basata su una stupenda figurazione di Vespetad, costantemente mobile eppure agganciata a un qualche beat inafferrabile) ci si accorge che non si è ancora sentito suonare Arve Henriksen. Solo in "8.4" riappare la tromba, a duettare con il synth. Ecco, si tratta di uno dei piccoli segnali di rinnovamento: in realtà Arve c’era eccome anche nei brani precedenti, ma da tempo sta esplorando altre timbriche, altre interfacce, ad esempio le percussioni e l’elettronica. E’ un segnale che si ritrova anche tra gli altri membri, e mostra la volontà di non rimanere ancorati ai propri cliché strumentali, a costo di confrontarsi con uno strumento non completamente dominato.
E’ una promessa ambivalente (simili idee aveva Ornette Coleman quando transitò dal sax al violino), ma per fortuna la seconda metà del disco è lungi dall’essere povera d’idee. Anzi, "8.5" potrebbe passare agli annali come il pezzo più composito e variegato dei Supersilent. Inizia con la voce di Henriksen filtrata dal vocoder, acquista dinamica con la stupenda entrata dei synth, decolla ulteriormente con l’ingresso del groove asciutto di batteria, sul quale poi si costruisce un complesso arpeggio, che si spegne nei pressi di un solo di tromba. "8.6" è più sintetica, ma non meno azzeccata: da un iniziale dialogo tra macchine ritmiche, che si intrecciano caoticamente, si leva il canto in falsetto di Henriksen a comporre un quadro davvero forte. Con la litania vocale quasi da musica sacra e il gelido rovistamento elettronico, potrebbe anche trattarsi di una Björk nel fiore delle sue sperimentazioni. Attenzione poi a "8.7", la motosega mica se la sono dimenticata nello sgabuzzino.
9. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.
Come fanno? Saranno sempre così - duri e puri, intransigenti e inclassificabili, eppure mai a corto d'inventiva? Riusciranno a stare "al passo coi tempi"? Con un gruppo simile, la domanda è mal posta. Se, come dice John Cage, il (super)silenzio è l’assenza di ogni intenzione, i Supersilent, più che modificarsi razionalmente, si evolveranno biologicamente. Più che rinnovarsi, cresceranno, come una pianta. Una pianta che si nutre, silenziosamente, di caos e di contemporaneità. Bisogna ricordarsi di darle da bere. Aspettiamo le nuove fioriture.
Nel successivo Supersilent 9 (2009), però, avvengono delle inaspettate rivoluzioni. Il batterista Jarle Vespestad lascia la band per seguire nuovi stimoli professionali. Il disco, pertanto, è la prima fatica da trio del combo avant-jazz venuto dal freddo. Le note di accompagnamento parlano di una formula con sole tre sessioni alle spalle, a confermare una sorta di autismo comunicativo, e di un’unica sessione di registrazione, in cui i tre superstiti si sarebbero dilettati nell’armeggiare con altrettanti organi Hammond. Ma l'album delude da tutti i punti di vista, virando verso una sorta di pseudo-ambient, totalmente privo di personalità e mordente. I brani sono quattro, identici e indistinguibili. L’effetto è a dir poco straniante, tanto da far sospettare una burla minimalista.
Quali i motivi del flop? Innanzi tutto, una totale e desolante assenza di tensione. E di contrasti: all’eccitante dicotomia tra cacofonia e spunti melodici è stata preferita una sorta di stucchevole piattume intermedio. Come se non bastasse, all’addio di Vespestad ha fatto seguito una drastica spersonalizzazione strumentale.
In un paio d’anni i Supersilent si sono spogliati troppo. E troppo in fretta. Il re vichingo è nudo: peggio di così, c’è solo la pubblicazione di un supporto vergine.
A rimettere, in parte, le cose a posto provvede 10 (prodotto, in larga parte, da Jan Erik Kongshaug), lavoro fortemente evocativo e introspettivo (il più introspettivo della loro ormai ultradecennale carriera).
Prevalentemente costruito sugli intrecci di tromba (Arve Henriksen) e grand piano (il nuovo arrivato Ståle Storløkken), “10” mostra un’anima notturna e desolata, con quel timbro “desertico” della tromba capace di evocare un Jon Hassell abbandonato a se stesso in mezzo ad una landa inaccessibile. Certo, senza l’elemento ritmico questi Supersilent fanno ancora un po’ fatica a reggersi in piedi (innegabile, per dire, un certo manierismo di fondo) ma, almeno questa volta, si riesce a rintracciare della poesia, commuovendosi qua e là.
Fatta eccezione per i quattro piccoli pannelli (tutti imbevuti di algida costernazione) di “10.1”, “10.4”, “10.7” e “10.10”, il grosso dell’opera è affidata alle vespertine confabulazioni tra le rade figure pianistiche e le nebulose tessiture della tromba. Così, “10.3” sembra una tetra serenata, “10.6” si culla nel solco di un impressionismo puntillista, simulando un’inclinazione rinascimentale, e “10.12” si disperde dentro le trame inquietanti del tragico. Ma è, comunque, la bellissima “10.8” a raggiungere vette di assoluto lirismo, tratteggiando fragilissime soglie in cui si smarriscono i limiti tra diafano esotismo e misticismo spaurito.
L’altro versante appartiene, invece, a soundscapes tenebrosi, in cui dominano viscide ragnatele di synth, tra ambient “artica” (“10.2”), cupi rimbombi cosmici misti a dissonanze fantasmatiche (“10.5”) e torbide ipnosi Tangerine Dream (“10.9”).
Pochi mesi dopo, è la volta del numero 11, per la prima in edizione esclusivamente vinilica. Trattasi di materiale risalente al 2005 (per l’esattezza, al periodo delle registrazioni di Supersilent 8), quando, dunque, il batterista Jarle Vespestad era ancora della partita.
Qualitativamente parlando, il materiale qui presente non fa che confermare un momento piuttosto confuso per i norvegesi.
Fatta eccezione per i soundscapes dilatatissimi e desolati di “11” (con la solita tromba memore di Mr. Hassell) e l’eterea radura di "11.5", il grosso dell’operazione è affidato a una sorta di free-funk spastico-digitale e dell’anima astratta (“11.1”, “11.3” e “11.6”), anche se, alla fine, il momento più interessante è rappresentato dagli spazialismi immaginifici e dal groove jazz-rock sghembo ma solidissimo di “11.4”.
Prodotto da Deathprod, che ha potuto maneggiare ore e ore di registrazioni, il dodicesimo capitolo della saga Supersilent rappresenta una full immersion nell’anima più oscura ed enigmatica del combo norvegese. Le tredici istantanee qui raccolte, infatti, nascono dalla stratificazione di dark-ambient, musica cosmica e impressionismo elettronico, trasfigurate in allegorie sonore di mondi lontanissimi. Ma è un movimento ascendente che finirà per risolversi in purissima introspezione, perché, minuto dopo minuto, quei mondi finiscono per assomigliare sempre più ai labirinti misteriosi che percorrono la psiche di ognuno di noi.
A rompere il velo dell’oscurità, intervengono venti siderali, fraseggi sparsi di tastiere (“12.4”), svirgolamenti cosmici (“12.6”), modulazioni trascendentali (“12.1”), qualche richiamo di tromba (“12.5”, “12.8”) o mareggiate astrali (“12.7”, “12.13”, quest’ultimo uno dei momenti più interessanti, con le sue dinamiche accentuate e i suoi nostalgici orizzonti).
Un susseguirsi di equilibri imperfetti, di suggestioni ed evocazioni sinistre, in cui, però, emerge tutta l’estemporaneità di un’ispirazione altalenante, che rende queste composizioni sempre meno interessanti, man mano che la mente le sviscera.
Dal 2009 a oggi l’unico tratto di continuità nell’operato di Arve Henriksen, Helge Sten e Ståle Storløkken è lo stradominio di sintetizzatori e live electronics, che con il celebrato 6 hanno introdotto un sound alieno in sessioni che ancora potevano afferire all’avant-jazz, per quanto eterodosso.
La metamorfosi numero 13, le cui registrazioni sono quasi tutte datate alla fine del 2014, sembra voler dare voce al maggior numero possibile di approcci espressivi: alle volte esercitando un controllo che rasenta lo zen, una lenta accumulazione pochi minuti prima del furore rumorista sguinzagliato al quinto blocco, dove dal nulla si manifesta una sorta di organo bachiano in preda a convulsioni grottesche.
Non esiste alcun divario nella coesistenza forzata tra “pieno” e “vuoto”: a mo’ di interpunzione, l’innaturale freddezza di alcuni condotti senz’aria lega tra loro i take più impetuosi – tra synth schizoidi e beat spezzati alla Autechre – vagando per lande deserte di memoria sci-fi che si inaspriscono con intensità crescente (2, 4) sino alla voragine digitale della settima sequenza, possibile riesumazione degli incubi ricorrenti di Trent Reznor; alfine si fa strada, tra clangori post-industriali, la tromba solitaria di Henriksen, al confronto forse l’unica nota di sentimento in un variegato pot-pourri di gesti inconsulti e ostinata inazione.
Pur rispettando i numeri progressivi che identificano i capitoli del loro catalogo, l'ormai trio continua a recuperare sessioni registrate negli anni precedenti, dando forma a una personale “cronologia del caso” per conferire l’aspetto di un macro-sviluppo narrativo a una ricerca che invece, da sempre, ha spaziato in assoluta libertà.
Persino in un range espressivo ampio e sfuggente come il loro, le dodici tracce raccolte in 14 fanno l’effetto di soundscape quantomai alieni e inconoscibili, talvolta al limite accostabili ai sinistri e opprimenti design del Lynch di “Eraserhead” e alle successive fascinazioni darkjazz con Badalamenti, ma con proprietà tanto evocative quanto rigorosamente a-descrittive nel plasmare atmosfere dense in cui ritrovarsi immersi in pochi istanti – e spesso per una durata inferiore ai tre minuti.
Frequenze distorte e discrete modificazioni elettroniche turbano la superficie sonora in maniera a volte quasi impercettibile, seguendo una logica trasformativa anziché additiva nell’economia degli elementi in gioco, tra momenti più soffusi e lirici e passaggi decisamente solenni e gravosi, decisamente prossimi alla composizione dark ambient ben familiare a Helge “Deathprod” Sten.
14 è la riprova di come, paradossalmente, l’impossibilità di razionalizzare la musica a marchio Supersilent rimanga il suo inscalfibile punto di forza, resistente a qualunque metamorfosi.
Contributi di Filippo Neri ("9"), Francesco Nunziata ("10", "11", "12") e Michele Palozzo ("13", "14")