Introduzione
I'm sitting here alone in darkness, waiting to be free
Lonely and forlorn, I am crying
I long for my time to come, death means just life
Please let me die in solitude
(da “Solitude”)
Gli svedesi Candlemass, formati a Stoccolma nel 1984 dal bassista Leif Edling, hanno attraversato 7 lustri di storia della musica tenendo fede alla loro estetica gotica, lugubre ed epica. Cosa non da poco, hanno fatto tutto questo raggiungendo discreti risultati commerciali, soprattutto in patria. Come successo ai loro padri, gli adorati Black Sabbath, la lunga carriera è stata segnata da crisi, pause e ripartenze che permettono di raccontarne la storia suddividendola, più o meno naturalmente, in tre capitoli.
Un primo periodo, fra il 1984 e il 1994, è quello in cui hanno gettato le fondamenta del doom-metal epico e gotico, pubblicando 5 album di grande influenza per il genere e portando al pubblico la loro musica attraverso lunghi tour. Questo primo decennio, lo si dice senza voler per questo liquidare il resto della carriera sommariamente, è quello che molto spesso viene preso in considerazione dai testi che parlano di heavy-metal o di doom-metal, alla luce dell’impatto che Epicus Doomicus Metallicus (’86) e Nightfall (’87) hanno avuto nell’emergente scena di fine decennio. Anche in questa sede, è questo il periodo che inevitabilmente attrarrà la maggior parte delle attenzioni, in quanto quello che giustifica l’importanza della formazione svedese non solo per la loro nicchia stilistica, ma per l’evoluzione dell’heavy-metal in generale. Il secondo periodo, fra il 1997 e il 2002, è segnato da un importante cambiamento nella formazione e soffre di alcune difficoltà nella progettazione degli album. È un periodo di crisi, che conduce inevitabilmente a un nuovo scioglimento. D’altra parte, è un momento fondamentale per l’evoluzione della band, quello che giustifica lo stile del resto della loro carriera. Se i Candlemass avessero avuto fortuna con un nuovo sound in questo breve periodo, probabilmente oggi avremmo nelle orecchie degli album molto differenti. Il terzo e ultimo periodo, iniziato nel 2004 e che prosegue fino a oggi, è quello della sopraggiunta classicità. Disomogeneo nella formazione e nei risultati, è un lungo altalenarsi fra piccoli cambiamenti e rievocazioni del passato. Coincidente, in gran parte, con la generale riduzione del peso dell’heavy-metal in particolare, e del rock in particolare, negli ascolti di giovani e meno giovani di tutto il mondo, quest’ultima fase è soprattutto un modo per alimentare la leggenda che, nel primo periodo, ha trovato origine. E proprio dal 1984, e dalla fredda capitale nordeuropea, iniziamo a raccontare i dettagli di questa lunga candelora.
Capitolo I: l’heavy-metal epico e notturno
Behold the sight of my Golgatha
The gallows enlightened by the moon
Proud of his art are the carpenter
His creation, a tool for my doom
(da “At the Gallows End”)
Il bassista Lif Edling fa parte dei Nemesis ma, quando questi si sciolgono, fonda la propria band, i Candlemass, insieme al cantante Johan Längqvist, al batterista Matz Ekström e ai chitarristi Mats "Mappe" Bjorkman e Klas Bergwall. Nel giro di pochi mesi, vale a dire già nel 1985, arrivano i primi brani e il primo demo, anche se non esiste un vero cantante in pianta stabile. Johan Längqvist sopperisce come può, così da afferrare l’occasione di registrare un vero e proprio esordio nel 1986.
Pubblicato poco prima dell’estate, Epicus Doomicus Metallicus è in realtà il più gelido e lugubre degli album, imbevuto di una solenne estetica depressiva. Mentre la strada maestra dell’heavy-metal contemporaneo è suonare più veloce, più forte e più bestiale, i Candlemass scelgono di differenziarsi con brani estesi, pachidermici e colloidali, cantati con sfumature operistiche e baritonali. Invece che ispirarsi alle ansie della Guerra Fredda, agli orrori della violenza umana, alle più ripugnanti efferatezze gore, gli svedesi scrivono un rosario di soli sei brani, in cui non filtra un raggio di luce, che riguardano un malessere intimo, profondo, ineluttabile.
Proprio il brano posto in apertura, “Solitude”, è l’ideale manifesto del loro modo di fare musica: una lettera di un suicida, interpretata a mezzo di un maestoso, stentoreo, elegante heavy-metal notturno. Tanto è paradigmatica di tutta la carriera, “Solitude”, che non ha mai fatto soffrire la sua assenza in un singolo concerto della formazione: la prima parte della storia dei Candlemass è, principalmente, l’esplorazione dello stato d’animo di un aspirante suicida. Cosa più sottile da percepire, però, è come il rapporto fra sofferenza e l’autolesionismo estremo sia veicolato dalla formazione. Pur tormentata nelle sue melodie morbose, lugubri e deformate, e pur rimanendo nel complesso asfittica e desolante, questa musica doom-metal epica, come viene definita dal triviale pseudo-latino del titolo, trasmette l’ambigua sensualità della morte, la sua sfumatura liberatoria e rasserenante. Siamo, dunque, in un mondo totalmente differente rispetto alla morte ultra-violenta, magari a mezzo mitragliatore o bomba nucleare, immaginata e fatta album da altri efferati musicisti coevi.
Il colore dominante di Epicus Doomicus Metallicus non è il rosso esageratamente brillante del cinema splatter, né quello appena più brunito del “Théâtre du Grand-Guignol”, ma le tinte del grigio, del nero e del seppia. Nella palette emotiva la violenza è solo un tramite, mai la protagonista o il fine ultimo, e le forze della malinconia, della delusione, della nostalgia, dell’apatia sono assai più determinanti, centrali e protagoniste. Gli altri cinque brani declinano lo stesso tragico stato emotivo, lasciandosi tentare da qualche sussulto speed-thrash-metal ("Demons Gate"), un assolo particolarmente esuberante ("Crystal Ball", che contiene una slam-dance da manuale) o la suddivisione in sequenze compositive tipiche del prog-rock ("Black Stone Wielder", "Under The Oak"). La lunga "A Sorcerer's Pledge" cerca, nei suoi 8 minuti, di mettere assieme tutte queste variazioni in un ideale compendio, con persino un passaggio di tastiere thriller.
Inizialmente il responso del pubblico è tiepido, tanto che la piccola etichetta “Black Dragon” rescinde il contratto, scoraggiata dalle vendite assai modeste. Neanche a dirlo, questo esordio sarà guardato, in futuro, come una pietra miliare del genere e riedito in più occasioni, con tanto di versioni da collezione, a testimonianza della propria dimensione di oggetto di culto. Formazioni come My Dying Bride, Cathedral e Paradise Lost guarderanno spesso a questi sei brani per trarne ispirazione.
Per niente scoraggiati dall'insoddisfacente responso commerciale, riorganizzati con Eddie “Messiah” Marcolin alla voce a sostituire Johan Längqvist, e forti di un nuovo contratto con la label “Axis”, i Candlemass ritornano a fine 1987 con Nightfall. Altre modifiche, pur se meno importanti rispetto al cambio di cantante, sono state apportate alla line-up: Jan Lindh è il nuovo batterista e Lars Johansson si aggiunge alle chitarre. Marcolin, però, è il proverbiale pezzo mancante del puzzle, che trasforma questo secondo album nel loro capolavoro gotico. Il suo baritono operistico è l’ideale voce di un heavy-metal lento e lugubre, maestoso e pesante. La sua influenza porta anche la formazione a inserire, in scaletta, un rifacimento della marcia funebre di Chopin, all’insegna di una raffinatezza che su Nightfall è più facile da percepire rispetto a Epicus Doomicus Metallicus.
Accolto con entusiasmo dalla stampa specializzata e dal pubblico, l'album è visto come una sintesi fra l’heavy-metal proto-doom dei Black Sabbath e la nuova era inaugurata dai Metallica con i primi, eccezionali, album. Diviso in dieci brani, ben quattro dei quali sono brevi strumentali, è una sorta di versione perfezionata dell’esordio e continua a svilupparsi principalmente per composizioni lunghe e tormentate.
Aperto dall'esplosione gotico-operistica di "Gothic Stone", trova in "The Well Of Souls" il nuovo modello compositivo, parimenti gotico, epico e soffocante. Le varie "Codex Gigas", "At The Gallows End" e "Samarithan" ribadiscono l'idea che i Candlemass siano l'estremizzazione dei Black Sabbath, soprattutto quelli affascinati dal progressivo di "Masters Of Reality", alla luce di una sensibilità gotico-decadente molto più pronunciata. Più confuso il thrash-metal operistico di "Dark Are The Veils Of Death", un compromesso con il metal più in voga all'epoca. Tornati in carreggiata con un classico epic-doom-metal come "Bewitched", gli svedesi chiudono riaffermando la loro stabile posizione sul trono dello stile che hanno battezzato.
Ancient Dreams (1988) è invece un terzo album che si configura come una conferma, e poco più. La formazione di Nightfall ritorna e suona lo stesso epic-doom-metal per la quale è stata lodata dagli appassionati, esasperando il lato spettacolare del suo amalgama. Soprattutto Marcolin è spesso ai limiti del più esaltato istrionismo, con punti di contatto con Bruce Dickinson e Rob Halford, e in generale la formazione spinge di più su assoli ("A Cry From The Crypt", "Darkness In Paradise", "Ancient Dreams"), volumi assordanti e sfuriate speed-thrash ("The Bells Of Acheron").
Aggiunta "Mirror Mirror" al catalogo dei classici, poco del resto regge il confronto con i primi due album. L'aspetto più decadente del loro musicare intorno alla disperazione ritorna in "Epistle No. 81". Nella versione su compact-disc arriva persino un medley dei Black Sabbath, un tributo dovuto ma anche un tipico modo per allungare il brodo.
Il terzo lavoro, che arriva alla posizione 45 della classifica degli album svedese, permette alla band di fare capolino anche nell'omologa chart statunitense.
Il quarto Lp, Tales Of Creation (1989) già cerca di recuperare il suono degli esordi, con "Dark Reflections", "Into The Unfathomed Tower" (uno speed-metal tutto strumentale!), "Somewhere In Nowhere" e "A Tale Of Creation", che sono rifacimenti di alcuni vecchi brani. "Under The Oak" è semplicemente il pezzo presente nell'esordio, registrato nuovamente con Marcolin. Con canzoni più brevi, che non disdegnano i frangenti più spettacolari, i Candlemass concludono un'ideale tetralogia in cui hanno delineato un loro specifico modo di fare heavy-metal.
Non è da poco il dettaglio che proprio Marcolin, che ha permesso di cristallizzare il loro doom epico in un formato riconoscibile, non parteciperà più ai lavori della band per ben 15 anni; nel 1991, a seguito di un lungo tour fotografato anche in Live (1990), abbandona la formazione.
Gli altri resistono poco oltre. Pubblicano Chapter VI (1992), con Thomas Vikström alla voce, ma i risultati commerciali sono modesti e poco dopo la formazione decide di sciogliersi. Il fatto che Edling abbia anche iniziato un progetto parallelo, chiamato Abstrakt Algebra, palesa la necessità della formazione di uscire dalla sostanziale monotonia in cui è rimasta intrappolata.
Anche volendo considerare il lavoro come se appartenesse solo di nome alla storia della band, Chapter VI ne esce con l'etichetta di un album heavy-metal che mischia doom e scuola inglese, senza reggere il confronto con le spinte alla contaminazione e all'estremizzazione di molte band contemporanee: è un lavoro che appartiene più agli 80 che ai 90.
Nell'Ep Sjunger Sigge Fürst suonano addirittura demenziali, in una parodia del pop-rock che svilisce francamente tutta la loro credibilità.
È la fine del primo periodo, nella lunga carriera della band svedese. Con Edling impegnato altrove, un cantante assai carismatico uscito dalla formazione e poche nuove idee da sviluppare, dopo 5 album di studio e un documento live, e dopo anni di concerti estenuanti, i Candlemass sembrano giunti al capolinea: l'aspirante suicida di "Solitude" incontra la tanto meditata morte. Almeno, tutto sembrerebbe suggerire che la fine è arrivata, ma il destino è imprevedibile e quella che sembra una pietra tombale diventa semplicemente una lunga pausa.
Capitolo II: algebra astratta e viaggi spaziali
As the black god arises from the cold of the lake
Figure of smoke, emerald head
Magnificent is the king of the dead
(da “Tot”)
Deluso dal suo nuovo progetto, il bassista e leader dei Candlemass decide di utilizzare alcuni brani destinati originariamente agli Abstrakt Algebra per riformare la band. D'altronde, è l'etichetta “Music For Nations” a chiedere di sfruttare il traino del nome di culto, e la continuità col passato viene ribadita persino dalla copertina, che cita chiaramente l'esordio, con il suo teschio trafitto da una croce.
Il lavoro è, in breve, malnato: iniziato col sound progressivo degli Abstrakt Algebra, è stato rimodulato sul suono epic-doom-metal dei Candlemass. Inoltre, fin troppi musicisti intervengono nelle registrazioni, nel corso di ben 18 mesi di lavoro. Ne esce un ibrido fra il suono classico ("I Still See The Black", "Karthago"), lo stoner-rock ("Wiz") e lo space-rock più allucinato ("Dustflow", "Abstrakt Sun").
Dactylis Glomerata (1998) è quindi una specie di sesto album apocrifo. A differenza del precedente, è calato nella sua epoca, in particolare in quel momento di autoriflessione dell'heavy-metal tipico di fine millennio: una parte tradizione e una contaminazione, un po' alternative e un po' alla moda. Di sicuro la band è a suo agio con i miasmi angoscianti delle nuove leve, che interpreta con efficacia nella tensiva "Apathy", e con il notturno jazzy di "Thirst".
Per chiudere il millennio arriva From The 13th Sun ('99), un album dedicato ai Black Sabbath, considerati dagli svedesi "la più grande band di tutti i tempi". Neanche a dirlo, è un ritorno alle origini e, se possibile, un recupero di fascinazioni blues-rock che mai erano state rese palesi e che ora emergono dopo le parentesi stoner-rock dell'album precedente. Più dell'esordio, è un album che guarda da vicino a quanto composto da Ozzy Osbourne e soci, nei loro primi, memorabili, album. "Tot", per citare un brano rappresentativo per tutti, replica fino alla mera imitazione proprio "Black Sabbath", con le stesse campane e le stesse dinamiche. La modernità si infiltra solo nel suono grasso e terremotante che azzanna qua e là i timpani, per esempio in "Elephant Star", in sostanza, però, una rilettura di "Symptom Of The Universe".
Giunti a un nuovo momento di stasi, gli svedesi fanno il punto di questo secondo capitolo della carriera con Doomed For Live – Reunion 2002 (2003), con Messiah Marcolin di nuovo alla voce. È una sfilata di classici che ribadisce il lascito della formazione ma che, non di meno, delinea di nuovo la possibilità che la loro carriera sia in dirittura d'arrivo. Ancora una volta, però, la morte affascina la formazione ma non la conquista. Edling intanto si impegna con i Krux, mentre buona parte del catalogo viene pubblicato in versione rimasterizzata. La band riunita fatica a partorire un nuovo album, il degno successore di Tales From Creation e, anzi, finisce per bisticciare. Per due anni, i Candlemass non esistono più.
Capitolo III: morte, magia e leggenda
The stars will drop from the sky
The gods will mourn me and cry
If I ever die
(da “If I Ever Die”)
Epicus Doomicus Metallicus(Black Dragon, 1986) | ||
Nightfall(Axis, 1987) | ||
Ancient Dreams(Enigma/Metal Blade, 1988) | ||
Tales Of Creation(Enigma/Metal Blade, 1989) | ||
Live(live, Metal Blade, 1990) | ||
Chapter VI(Music For Nations, 1992) | ||
Dactylis Glomerata(Music For Nations, 1998) | ||
From The 13th Sun(Music For Nations, 1999) | ||
Doomed for Live – Reunion 2002(live, Powerline, 2003) | ||
Candlemass (Nuclear Blast, 2005) | ||
King Of The Grey Islands(Nuclear Blast, 2007) | ||
Death Magic Doom (Nuclear Blast, 2009) | ||
Pslams For The Dead (Napalm, 2012) | ||
The Door To Doom(Napalm, 2019) | ||
Sweet Evil Sun(Napalm, 2022) |
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