Quando non è impegnato a dare man forte in studio o sul palco ad altri titolati colleghi, Andrea Faccioli indossa i panni di Cabeki e dà vita a brani finemente cesellati, in un lavoro artigianale che parte dalle trame acustiche per intraprendere ogni volta direzioni e orizzonti differenti. In occasione dell'uscita del terzo album "Non ce la farai, sono feroci come bestie selvagge", scambiamo due chiacchiere con il compositore veronese.
Credo che nel caso di "Non ce la farai, sono feroci come bestie selvagge" non si possa che partire dal titolo. Come nasce questo album? E possiamo definirlo un concept?
La nascita di questo album arriva dopo un travaglio abbastanza lungo e complicato. Sia nella creazione che nella pubblicazione. Il titolo descrive anche la paura che avevo di non farcela, né a finirlo né a pubblicarlo.
Potrebbe essere un concept sulla “disillusione”, e non solo artistica, che con l’età ti prende inevitabilmente, ma che ti porta a una maturità e lucidità creativa interessante. Quindi non necessariamente un significato negativo. Ma descrive anche il “Medioevo” culturale in cui stiamo vivendo, e che stiamo alimentando. E gli ulteriori nuovi risvolti internazionali non possono che incoraggiare questa visione. Anche se credo sia una evoluzione fisiologica del sistema. Infatti i titoli del disco in teoria dovrebbero tracciare una sorta di percorso evolutivo circolare: da “Ultima luce” si ripartirà da un “Disgelo” e una “Prima luce”. Quindi: ad majora!
Da sempre nei tuoi lavori solisti c'è una cura direi artigianale nella scelta non solo degli strumenti e dei suoni, ma anche dei tocchi e di quello che non c'è, se capisci cosa voglio dire. Come nascono le canzoni, e come le assembli?
Parto dalla chitarra, e in questo disco ancora di più. Poi avviene una sorta di elaborazione mentale di arrangiamento e suono. Anche se non penso mai troppo a dove andare, ci arrivo strada facendo, un puro divertimento.
Il termine “artigianale” a me piace molto. In generale sono uno a cui piace “scancherare” con legno e cacciaviti. Mi assetto le chitarre, le modifico di continuo. E mi piacciono gli strumenti con timbriche particolari e inusuali. Mi piace il fatto che non tutto sia così “riconoscibile”. E da questo punto di vista “quello che non c’è” per me è fondamentale, sia quando ascolto un disco di altri che quando compongo. Lasciare strade aperte all’ascolto è fondamentale, è quello che ti porta poi a riascoltare un disco mille volte.
Credo di fare ancora parte della generazione che ascolta per due mesi di fila un disco fino a consumarlo, e poi passa ad altro. Ora mi sembra non sia più così, o comunque molto meno. E’ tutto molto più casuale e superficiale.
Nel nuovo album in particolare i brani sono nati dalla chitarra acustica, e sono poi stati arricchiti con gli altri strumenti. Procedi sempre in questo modo? E, tra i tanti strumenti che maneggi, qual è quello che preferisci in assoluto suonare?
Fino ad ora sono sempre nati così, e la chitarra, soprattutto acustica, è il mio strumento, quello che ho studiato. Anche se non mi piace definirmi “chitarrista”. I chitarristi per me sono come le penne all’arrabbiata nelle mense o nei catering, le trovi sempre. Considero quindi la chitarra più un “mezzo” e non un “fine”.
In questo album sei accompagnato da musicisti del calibro di Daniela Savoldi, Julia Kent, Maddalena Fasoli, Nelide Bandello, Simone Copellini e Stefano Roveda (spero di averli nominati tutti). Che tipo di contributo hanno dato ai brani?
Hanno ampliato la tavolozza dei colori in modo significativo e per me bellissimo. Alcuni hanno messo del loro, altri hanno suonato delle parti scritte da me. Per la prima volta ho scritto una partitura per quartetto d’archi, e loro, da classicisti, mi hanno promosso per fortuna, anche se ho fatto qualche errore. Poi mi ha dato modo di consolidare amicizia e stima nei loro confronti. L’essere solo a volte mi pesa, mi manca un po’ la sensazione di scrive e arrangiare in gruppo. Potrebbe essere la prossima evoluzione di Cabeki.
Nel disco ci sono omaggi velati (ma non troppo) ai vari Nick Drake e Penguin's Café Orchestra. Come già in "Una macchina celibe", però, ci sento anche riferimenti a Nino Rota, ad esempio. Quali sono stati i compositori o gli artisti che più hanno influito sul tuo sound o sul modo di concepire la musica, e perché?
Per tornare al discorso del “chitarrismo”, Nick Drake ad esempio è un folksinger, ma anche un grandissimo chitarrista, con una propria tecnica e un suono personale. Per questo mi piace citare lui come riferimento chitarristico più che veri e propri chitarristi. I compositori italiani anni 60/70 ovviamente sono fondamentali, come in genere la musica di quegli anni. E l’evoluzione “pop” della musica classica minimale dei Penguin Cafè Orchestra è un grande riferimento. Poi in realtà ascolto tantissima musica cantata. I Wilco per me sono un altro grande riferimento, su tutti i piani: scrittura, suono, arrangiamento, produzione ed esecuzione live. Però non saprei dire se esista un compositore o una band che mi abbia influenzato maggiormente. Nel bollito va messo tutto, altrimenti non è buono, per fare un’altra citazione culinaria.
Negli ultimi anni hai collaborato e sei stato in tour con artisti quali Le Luci della Centrale Elettrica, Cisco, Damo Suzuki... Cosa ti hanno lasciato in eredità queste esperienze?
Ogni esperienza in quanto tale ha il suo valore e la sua importanza nella crescita di un musicista, a mio parere. Sono tutte situazioni molto diverse, e per questo stimolanti. Dal free style di Damo al folk di Cisco, dal cantautorato obliquo de Le Luci alla scrittura precisa e raffinata dei Baustelle. Buttarsi in qualcosa che non conosci, o vedere affinità però da diverse prospettive serve tantissimo. E tutto questo poi influenzerà per forza di cose il tuo modo di suonare e scrivere. E questo per me è il bello del fare il musicista con e per altri.