Iosonouncane

Suoni e parole oltre il gelo

intervista di Piergiorgio Pardo

Quello di Iosonouncane è ormai un percorso artistico consolidatosi come unico nel panorama della nostra musica d’autore. E la pubblicazione di un disco live come “Qui noi cadiamo verso il fondo gelido”, con l’ampio spazio concesso ai momenti di improvvisazione radicale, al materiale inedito, più in generale alla musica strumentale e di ricerca, lo testimonia una volta di più. L’immane laboratorio di “IRA” racchiude motivi e fantasmi da decifrarsi man mano che il tempo stesso lo consacrerà al suo debito status di classico. Il disco live ne esplicita con sorprendente fruibilità quel deliberato affrancamento non tanto dalla radice ispirativa del formato canzone, quanto piuttosto dai suoi limiti, che è stato il fil rouge del progetto in questi anni. Nelle tracce del triplo album il songwriting è una sorta di “porto sepolto”, in cui immergersi alla ricerca di tutto ciò che vi può essere oltre, più su, più in fondo alla scrittura di una canzone, ivi compreso il silenzio che fa da ultima barra alle brusche interruzioni di certi crescendo parossistici. Come è giusto che accada per un disco dal vivo, anche “Qui noi cadiamo verso il mondo gelido” apre degli spiragli comunicativi in più sull’immaginario dell’autore, sui suoi metodi compositivi, sulla sua stessa relazione con il pubblico. Inoltre le movenze espanse, quando non addirittura decostruite, delle composizioni, mentre la voce è un gesto diluito nella coralità dell’insieme, intercettano l'energia del pubblico presente, percettibile come una sorta di respiro collettivo che accompagna e fa esistere i solchi.
Figurano testimonianze dal rito liberatorio con i musicisti della “Mandria” al gran completo: Amedeo Perri, Francesco Bolognini, Serena Locci, Simone Cavina, Simona Norato, Mariagiulia Degli Amori. Un tour sold-out rimasto congelato per quasi due anni. Sembra incredibile a ripensarci adesso. Poi ci sono stralci dai concerti in trio del 2021, strappati con le unghie e con i denti alle restrizioni della pandemia, mentre nelle registrazioni dal tour europeo il magma creativo di “IRA” fa da spina dorsale a sessioni di composizione istantanea che riportano al fascino dei dischi live ai tempi del Rock In Opposition.
D’altra parte è riconoscibile la valenza anche politica, nel senso nobile del termine, di queste tracce e dei momenti che esse testimoniano. Non solo per la caparbietà con cui in questi anni il progetto ha navigato controcorrente rispetto alle regole di mercato, ma perché qui l’esperienza personale, introspettiva, riflessiva, umanamente collocata in un qui e ora, si pone al centro di flussi di comunicazione profonda, dove le radici dei popoli si parlano in un respiro solo e coinvolgono l'audience su un piano assai più sostanziale degli attuali standard di comunicazione. La complessità diviene così empatia e l’ambizione una sorta di abbraccio rituale. L’allegoria di una solidarietà, unico antidoto possibile al fondo gelido che è qui lucidamente e umanamente cantato.

Qui noi cadiamo verso il fondo gelido” non è il classico disco live. Direi che questo è ormai un dato pienamente acquisito. Ne approfitterei per analizzarlo un po’ più a fondo, insieme a te. Personalmente ho trovato la chiave di fruizione dell’album in “Sacramento”, il pezzo che lo chiude e che avevo ascoltato per la prima volta durante la performance omonima al Cinema Massimo di Torino, per il Salone del libro 2021. In quel contesto era l’unico brano cantato fra quelli che interagivano con le immagini del corto di Alessandro Gagliardo. Quasi una preghiera che, come accade oggi nell’album, faceva da finale liberatorio. A me sembra che almeno il primo embrione della formula dei concerti in trio abbia preso vita allora. Ti va di parlarmene?
Il materiale da cui eravamo partiti per la sonorizzazione era costituito da bozze lasciate aperte durante la stesura di “IRA”. Ti parlo di beat, di ostinati e progressioni di tastiere. Piano piano questo sostrato già esistente si è andato integrando con cose che venivano fuori durante le improvvisazioni in studio, spesso in risposta a delle suggestioni visive proposte da Alessandro. A un certo punto ci siamo detti che sarebbe stato significativo fare emergere un brano cantato. Così ho fatto sentire ai musicisti degli accenni di melodie che mi sembravano in linea col resto e a fine giornata ci lasciammo senza promesse precise, anche perché sono sempre stato consapevole della mia lentezza nell’elaborare le liriche. La mattina dopo sono arrivato con il testo pronto. Avevo pensato di registrare il brano e pubblicarlo, ma la sua collocazione ideale è proprio in chiusura dell’album live. Lo intenderei come una sorta di commiato, che mette un punto a questi anni intensissimi, belli e difficili insieme, e dà a chi ascolta un arrivederci indefinito.

A potenziarne la risonanza emotiva è anche il fatto che sono le prime parole in lingua italiana che hai cantato dopo l’esperimento sincretico di “IRA”. Mi sembra che in comune con i pezzi di “IRA” il testo abbia un’ampiezza semantica che va oltre la stessa logicità dei significati.
Ha una struttura intenzionalmente involuta, è una sorta di versione primitiva, scarnificata, di un brano in stile primi anni 60, magari di Luigi Tenco, per fare un esempio. Durante la stesura del testo si è cristallizzata la sua forma di cantilena popolare, senza evoluzione. È una formula che effettivamente avevo già sperimentato nei brani di “IRA”, anche se in questo caso è ancora più primitiva. Soprattutto mi interessava far risaltare l’intensità del verbo “seppellire” declinato al futuro. Parole come “Ciò che fu mi seppellirà. Lì con te” sono abbastanza inedite in un contesto pop. E hanno un senso anche rispetto al disco.

Da allora ti ho sentito diverse altre volte fare questo pezzo dal vivo, ma in versioni sempre differenti, più o meno espanse, più o meno astratte. Si può dire che la sua storia rappresenta bene la tua idea di destrutturazione del formato canzone?
In "Sacramento" c’è una unica variazione: quando si passa dal modo maggiore al modo minore. Quel momento fa da apertura a una serie infinita di possibilità. Delle tre versioni del brano, solo la prima era legata a una durata in quanto doveva accompagnare le immagini del cortometraggio. In quella suonata l’estate scorsa con la band al completo il beat invece non spariva mai. Si improvvisava in modo atonale, libero, con le voci dei synth che cercavano di ascoltarsi fra di loro senza però condizionarsi vicendevolmente. Piuttosto la tensione era rivolta a dinamismi che passassero dalle dissonanze. Come fonte di ispirazione potrei citare i “Dialoghi del presente” di Luciano Cilio. Nella versione in trio del tour europeo si improvvisava ancora una volta muovendo dal passaggio al modo minore. Ci sono state delle sere in cui si arrivava a livelli massimi di disarticolazione. Ricordo, per esempio, la versione suonata ad Amsterdam che è stata la più estrema. Quella scelta per il disco è una esecuzione più organica ed è stata registrata a Londra.

Una delle cifre stilistiche più importanti dei tuoi concerti è che il 100% del dialogo avviene attraverso la musica. Nell’album questo si sente tantissimo: gli applausi sono l’unica cosa non suonata. Non ti manca ogni tanto un ruolo da performer tradizionale?
Guarda, in tutta la prima parte del tour de “La Macarena su Roma”, diciamo anni 2009-2010, io parlavo tantissimo col pubblico. Anzi, a volte improvvisavo addirittura dei monologhi tra un brano e l’altro. A un certo punto mi sono reso conto che questi intermezzi non ispessivano il valore delle canzoni, ma lo impoverivano, perché guidavano il pubblico a una interpretazione univoca dei pezzi. Io provengo da una attitudine progressive e shoegaze. Testa china sullo strumento e si suona fissi nella propria postazione. I musicisti che ho sempre amato hanno questo modo di stare sul palco. Quei primi due anni di tour della “Macarena” sono stati una parentesi bizzarra. Mi sono fermato quando mi sono reso conto che tutta quella esposizione personale al pubblico stava sottraendo concentrazione ed energia al mio lavoro di musicista. La cosa mi ha allarmato, perché mi sembrava di assecondare una dinamica di ricerca dell’applauso che è molto tipica della comunicazione di oggi. Al centro dei miei interessi c’è solo la musica.

Quindi hai voluto in qualche modo difendere questa centralità?
Le ho voluto dare il giusto spazio. Da quello squarcio di consapevolezza è nato tutto il lavoro su “DIE”, che è stato portato avanti assecondando la mia attitudine di musicista bisognoso di spazi solitari, di concentrazione e raccoglimento e che comunque non avverte il bisogno di dare un personale contributo al flusso detritico e melmoso di opinioni che già ci sommerge.

Anche le interviste ti costano fatica?
Di sicuro non amo rileggerle. A volte mi capita di imbattermi in qualche mia dichiarazione di qualche anno fa e non mi riconosco in quello che dicevo, perché era viziato da una contingenza del momento. Oppure succede che una frase estrapolata dal contesto assuma un significato diverso da quello che intendevo. Per esempio, in una recente intervista ho fatto una riflessione su una modalità di fruizione dell’arte, sempre più diffusa oggi, come intrattenimento da utilizzare col fine ultimo di rispecchiarsi in se stessi, a detrimento della capacità di astrazione. Successivamente sui social sono circolati frammenti che riducevano le mie parole a una dichiarazione di insofferenza nei confronti di chi riprende o si fa i selfie ai concerti, mentre il senso della mia riflessione era tutto un altro.

Parole molto simili a quelle con cui hai descritto la tua esperienza sul palco come atto creativo e comunicativo, fondato esclusivamente sulla musica, me le hanno dette Fripp e i musicisti dei King Crimson durante una chiacchierata in occasione dei tour italiani di qualche hanno fa. Del resto anche Fripp ha sempre suonato in un angolo defilato del palco, possibilmente non in luce…
Questo non può che farmi immenso piacere. Tra l’altro devo dire che con gli anni la mia quota di egocentrismo va diminuendo. Nel tour teatrale di “IRA”, quando a fine concerto tornavamo sul palco per prendere l’applauso, cosa peraltro dovuta anche ai musicisti che avevano suonato con me, ero molto in imbarazzo. Nelle foto e nei video di quel periodo si vedono i musicisti contenti e rilassati con a fianco questa specie di palo della luce immobile e vestito di nero che ero io. Quel momento mi affaticava perché avevo come la sensazione di tornare a racimolare dell’attenzione in più. Scrivere musica e pubblicarla è la dimensione che mi si addice maggiormente.

Quando ti intervistai per il mio libro “Un gusto superiore”, eri esattamente in questa predisposizione, resa però molto più complessa dal fatto che avevi progettato il debutto di “IRA” dal vivo prima che su supporto. Il tutto in piena pandemia. Fu molto interessante perché non parlammo del disco, in quanto ovviamente non lo avevo ancora ascoltato, ma dell’attesa di renderlo pubblico e di come la stavi vivendo. Oggi accade esattamente il contrario. Molta della musica che si ascolta in questo disco è stata composta e resa pubblicata contestualmente durante i concerti. Come hai vissuto il processo creativo in questa occasione?
Negli ultimi anni ho imparato molto da "Jalitah", l'esperienza in duo con Paolo Angeli. Quando affronti l’improvvisazione radicale devi accettare di brancolare nel buio, con le antenne tese a cogliere l’appiglio giusto. Può accadere di suonare a vuoto per lunghi minuti e poi approdare a dei contenuti interessanti. In particolare, nei concerti in trio durante il tour europeo questa dinamica si è riproposta. Quando ci siamo rivisti con Simone e Amedeo la premessa è stata quella di non riaprire le sessioni di “IRA” per adattare un materiale così complesso al tour. Lo avevamo fatto nel 2021, ma quei concerti erano stati veramente massacranti dal punto di vista esecutivo. Abbiamo deciso di partire da session di improvvisazione in studio da cui estrapolare materiali che valesse la pena di formalizzare. Nello stesso tempo nelle improvvisazioni cercavamo dei momenti in cui il flusso si potesse condensare in brani del repertorio di “DIE” o di “IRA”. Ho introdotto alcuni elementi nuovi anche nel set di tastiere che non hanno rivoluzionato le timbriche, ma le hanno rivisitate quel tanto da stimolare la creatività improvvisativa. “Voci”, per esempio, che viene dalla data londinese, nasce da una combinazione loop e sintetizzatore che adesso mi è tornata utile nel lavoro in studio per delle colonne sonore.

C’è qualcosa che ti ha sorpreso durante il riascolto, mentre selezionavi cosa inserire?
Sì. Avevo ricordi di concerti con la band al completo in cui sul palco eravamo stati benissimo, mentre di altri mi era rimasta l’impressione di un minore calore. Anche delle improvvisazioni in alcuni casi ricordavo sequenze riuscite e altre meno. Facendo la cernita dei materiali, quelle impressioni originarie si sono praticamente ribaltate. È stato un grande insegnamento. Non necessariamente dal punto di vista esecutivo quel che ha funzionato benissimo dal vivo si presta a funzionare su disco e viceversa.

L’elemento che mi colpisce di più è che l’ascolto complessivo suona molto fluido, sembra quasi una suite. È stato difficile ottenere questo risultato?
Il progetto originario era quello di pubblicare tre dischi differenti di 40 minuti ciascuno seguendo un ordine filologico e cronologico. Uno per i concerti del 2021, uno per il tour del 2022 con la band e uno relativo al tour europeo del 2022. Però nel tour in trio del 2021 le improvvisazioni avevano molto meno spazio, per cui avremmo ottenuto un primo volume composto essenzialmente da materiale già edito e un terzo fatto di inediti e improvvisazioni radicali. Ora, fare un triplo album dal vivo ancora più difficile di “IRA” mi sembrava esagerato. Ho optato per la formula attuale, che si apre e chiude con un brano cantato e mescola i materiali secondo una logica di fruizione e non documentaria. La continuità sonora è data dal fatto che i musicisti sono gli stessi e anche molti elementi della strumentazione, soprattutto elettronica.

Ti va di parlarmi del titolo del disco?
È la traduzione di un verso tratto da “Ojos”, che nella macronarrazione di “IRA” è una sorta di road movie che racconta una attraversata in treno, con protagonista una umanità disperata. C’è un narratore che, parlando di sé e dell’umanità di cui fa parte, dopo aver descritto le figure ricorrenti e di contorno che gli sono davanti, dice: “Qui noi cadiamo verso il fondo gelido/ bocca affamata di Dio”. Mi piaceva innanzitutto l’idea di un titolo lungo che si collocasse su un piano diverso rispetto a “DIE” e “IRA”, ma avesse un sapore  sacro. Quindi ho scartabellato fra le traduzioni di “IRA” alla ricerca di un verso che potesse fare da titolo. Fino all’ultimo un altro titolo possibile era “ed il piscio si fece vino”, poi abbiamo optato per questo. In ogni caso desideravo che il titolo fosse in continuità con “IRA” perché da lì provengono gli strumenti, i musicisti, gli spunti per il materiale improvvisativo, la stessa continuità sonora che notavi.

Mi sembra che faccia uscire allo scoperto la tensione profetica di “IRA”, quella sensazione di imminenza di un evento importante che a mio avviso lo pervade. Possiamo avvalorare questa interpretazione?
Assolutamente sì. La dimensione di “IRA” è quella di una sospensione del tempo in attesa di un avvenimento. I testi di “IRA”, ci tengo a precisarlo, hanno una loro traduzione perfettamente logica. Li ho scritti avendo da un lato il mix di lingue, dall’altro il foglio con la traduzione italiana. Una cosa che non ho mai detto è che durante la loro stesura ho avuto molto presenti le trascrizioni che i primi etnomusicologi hanno fatto dei canti dei prigionieri afroamericani. L'aspetto più interessante di quelle trascrizioni è che sostanzialmente erano redatte in una lingua altra, inesistente, che corrispondeva alla resa fonetica del modo in cui i prigionieri afroamericani pronunciavano vocaboli inglesi. Il lavoro che ho fatto sui testi di “IRA” è molto ispirato a quel processo di rielaborazione/creazione di una lingua.

Tornando all’album live, il suo ascolto mi ha riportato anche ai diversi periodi in cui personalmente ho visto gli spettacoli. E pensare alla pandemia è stato inevitabile…
Pensa che l’idea originaria della copertina dell’album era proprio quella di un pubblico che indossava la mascherina. Non siamo riusciti perché non avevamo uno scatto frontale abbastanza buono da utilizzare. Questo per dirti che realizzare questo disco mi è sembrato doveroso nei confronti sia del pubblico, sia dei musicisti che hanno lavorato per anni su “IRA” avendo davanti l’orizzonte di un tour lungo, mentre la pandemia ha precluso tante possibilità.

Come mai in nessuna delle date avete inserito “Novembre”, il brano uscito solo su singolo che è una canzone molto amata dal tuo pubblico?
Avevamo provato a metterla su con la band, ma ti confesso che sono molto stagionale nei miei ascolti e l’idea di suonare “Novembre” durante il tour estivo ci è sembrata fuori contesto. Però mi piacerebbe molto appena sarà possibile riprenderla dal vivo.

Anche perché è un brano in cui sperimenti una vocalità diversa, come succede per esempio anche nella versione di “Carne” che figura su “Jalitah”...
Credo che i dischi rappresentino il momento che chi li incide sta attraversando come persona. Il mio modo di cantare su “DIE”, così spinto, così assertivo e acido, rappresentava un periodo in cui ero concentrato sul rivendicare me stesso, una mia posizione, una mia autorialità. Non venivo in pace e il cantato lo riflette. In “IRA” la tensione c’è lo stesso, ma, come cantante, faccio un passo indietro per fare emergere il collettivo dei musicisti coinvolti. Adesso, raggiunti i 40 anni, ho scoperto di poter cantare nel registro in cui interpreto “Carne” nel disco con Paolo Angeli, o “Buio” su questo.

A proposito di anagrafe, tu con la tua etichetta Tanca hai prodotto e pubblicato uno degli album italiani dell’anno, "Spira" di Daniela Pes. Un esordio di un’artista giovanissima, che è esploso quasi immediatamente. Ti ha sorpreso questo successo?
È il primo disco che ho prodotto da solo e ho lavorato fianco a fianco con lei per tre anni. Diciamo che non era assolutamente scontato che venisse recepito in modo così rapido e naturale. Si tratta di una proposta musicale complessa, molto particolare. Il fatto è che Daniela ha un appeal vocale e una personalità artistica che arrivano anche a un pubblico generalista. Pure chi non fosse in sintonia con la proposta musicale non può non accorgersi che sta ascoltando una cantante strepitosa e un talento fuori dal comune.

Qui noi cadiamo verso il fondo gelido” chiude un ciclo. Cosa immagini dopo?
Attualmente sto lavorando a delle colonne sonore ed è un impegno veramente faticoso, per quanto di grande interesse. Adesso sento il bisogno di non stare sui suoni per un po’, di leggere libri, lavorare a delle idee, insomma intraprendere il percorso creativo che a un certo punto sfocerà in un nuovo album.

(30/11/2023)

Iosonouncane


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L'estetica di un non allineato

di Alessio Belli

Jacopo Incani ci racconta in esclusiva il suo nuovo, monumentale "IRA", un progetto in cui porta ancora di più alle estreme conseguenze il suo lavoro compositivo. Un'opera monumentale di quasi due ore, composta da 17 lunghi brani dove la sua voce si dipana in nuovi linguaggi e lunghe distese sonore. Un disco potente e ambizioso, ostico e suggestivo, difficile anche solo da classificare e spiegare. Ma superate le prime salite, "IRA" e il suo autore non lesinano argomenti di discussione e stimoli: ecco la nostra intervista.

Non ti nascondo la mia difficoltà: spesso le interviste cercano di presentare e capire un disco. Credo che applicare questa “procedura” a "IRA" sia un peccato, poiché forse svilisce la potenza di un'opera che l'ascoltatore dovrebbe solo accogliere e vivere nella maniera più libera possibile...
Questo tipo di considerazione si sta facendo spesso in questi giorni da parte dei tuoi colleghi. È una cosa che mi fa piacere. Mi stranisce un po', perché per quanto mi riguarda ho fatto un disco, ho lavorato sul materiale che avevo, sulle idee, ovviamente conscio del fatto che le dimensioni e le caratteristiche del lavoro lo avrebbero reso atipico, anomalo, nel contesto italiano. Particolare, insolito? Da un lato questo tipo di reazione ovviamente mi rende felice. La cosa che mi fa piacere di più, però, è percepire che si stia generando attorno a questo lavoro un'attenzione che non viene riservata a tanti altri. Non viene trattato come un disco di canzoni come ne escono tutti i giorni.

Ma fortunatamente qualche argomento su cui soffermarsi non manca: iniziamo dalla copertina! A me ha ricordato a primo impatto "The Lighthouse" di Robert Eggers: ci racconti dell'aspetto grafico di "IRA"?
E' in elenco, ma non ho ancora visto "The Lighthouse". Avevo chiaro fin dal principio che "IRA" sarebbe stato un disco – per assurdo – in bianco e nero. Un disco estremamente ricco di colori, musicalmente parlando. Però la sensazione che volevo, e che in generale mi ha sempre trasmesso questo materiale, era una sensazione cupa, drammatica. Ciò non vuol dire che questa sia l'unica sensazione presente, tutt'altro: il disco è pieno di aperture e momenti emotivamente differenti. Però per me è sempre stato quello, anche perché era molto difficile racchiudere in un colore o in un insieme di colori quest'album. La soluzione più giusta era questo nero con la fisionomia di un corpo che ne emergeva. La copertina ritrae un uomo completamente nudo e mi è sembrato in fin dei conti che fosse la scelta migliore per restituire e rappresentare simbolicamente la solitudine all'interno di una moltitudine.
Il lavoro sulla grafica è stato veramente lungo. Siamo passati attraverso tantissime fasi e scelte, poi ritrattate fra di noi. Alla fine siamo arrivati a scegliere quello scatto lì che non è tecnicamente perfetto, anzi, inizialmente lo avevamo messo tra i possibili esclusi. Di quello scatto però mi piace il suo carattere di estemporaneità. Sembra uno scatto rubato. E' impossibile collocare il soggetto, non si riesce a capire se si tratti di una foto scattata di notte o all'interno di uno spazio chiuso e buio, se si tratti di uno scatto fatto in uno spazio naturale o in una prigione di cemento. Non si capisce se si tratti di uno scatto caldo o freddo, se quell'uomo sia nudo perché ha caldo o perché è costretto a esserlo. L'ambiguità ne determina una grande forza narrativa e simbolica, e quindi alla fine abbiamo deciso per questo. Ci è sembrata la cosa più giusta non mettere alcuna scritta sopra. Lasciare solo quest'immagine così neutra e così narrativa, creando per il retro del vinile una sorta di manifesto che lo fa assomigliare a una qualche forma di rivendicazione.

La scelta di rendere la tua voce strumento tra gli strumenti, di rendere quasi sempre incomprensibili i testi cantati sempre in lingue diverse rende "IRA" ancora più enigmatico, persino mistico. C'è forse una certa sfiducia nelle possibilità di comunicare qualcosa ai tuoi ascoltatori tramite il cantato?
No, anzi, esattamente l'opposto: c'è una profonda fiducia nella comunicazione. Se in me c'è sfiducia, o comunque rifiuto, è nei confronti dell'idea ormai consolidatasi e imperante della comunicazione come un veicolo puramente funzionale. Siamo abituati, sia quando parliamo di dischi sia nel nostro quotidiano, che la comunicazione debba unicamente assolvere a una funzione. Una canzone è bella se funziona, ma il concetto di funzione necessita di uno scopo. Qualcosa funziona nel momento in cui assolve allo scopo preposto. L'abat-jour funziona perché mi permette di avere la luce quando il mondo è al buio, la forchetta perché mi permette di mangiare il cibo. Un'opera d'arte, passami questo termine brutale che andrebbe giustificato prima di essere utilizzato, non assolve a questo tipo di scopo, non ha questo tipo di funzione, di ruolo. La comunicazione è la stessa cosa, comunicare è qualcosa di molto più stratificato. Credo che comunicare l'incapacità di comunicare determini dei livelli narrativi, interpretativi. “IRA” è estremamente comunicativo proprio perché parte dal presupposto di rinunciare a una certa idea di comunicazione. Non sono un cantautore che scrive dei testi e usa una chitarra o un piano per accompagnarli. Io faccio dei dischi, lavoro sulla musica e ogni elemento, ogni mia scelta estetica, timbrica, sonora concorre alla definizione di una narrazione, nella quale i testi sono solo uno degli attori in campo. Sono estremamente fiducioso nei confronti della comunicazione e sono convinto che renderla complessa – che non significa renderla complicata, ma semplicemente stratificata – sia una maniera per mostrarlo.

L'ordine della tracklist segue l'ordine di “nascita” dei brani o li hai disposti seguendo un ulteriore criterio?
Non saprei neanche dirti in quale ordine sono nati i brani. Molti, per esempio, li ho ottenuti accorpando dei frammenti scritti in tempi molto lontani fra loro. “Priel”, “Ashes”, “Prison”, “Cri”, “Hajar”, “Foule”: sono tutti brani che mettono insieme frammenti nati in momenti diversi, e quindi, banalmente, che facevano parte di sessioni Ableton (è il software che io uso per appuntare le idee) diverse. Il primo brano, “Hiver”, l'avevo iniziato a scrivere come traccia conclusiva di "DIE" ma non riuscivo a completarlo. Ci fu un tempo in cui ero convinto che “DIE” necessitasse di una canzone di chiusura dopo “Mandria”. Stesi un po' di bozze che però non riuscivo a completare: a un certo punto ho detto che evidentemente il disco nella mia testa era già chiuso. Ho accettato l'idea che in realtà desideravo una “non conclusione” e fra le bozze appuntate allora c'era un giro di piano che è diventato “Hiver”. E magicamente, nel momento in cui l'ho ripresa a distanza di anni, ho scritto subito una linea vocale, l'ho strutturata, ed è diventata l'apertura di "IRA".

Ascoltando "IRA" si avverte una distanza notevole da "DIE". Se si pensa a “La macarena su Roma” si ha l’impressione di parlare di due musicisti e persino uomini completamente diversi. È rimasto qualcosa dell’Incani del 2010? Riesci a fare un bilancio artistico di questi dieci anni?
Tra “La Macarena su Roma” e "DIE" io non ho fatto null'altro che... lavorare a "DIE". Questo per varie ragioni. “La Macarena su Roma” era andato bene, ma era andato bene per una ristretta cerchia di appassionati, quindi non mi arrivava alcuna richiesta di collaborazione. Ho fatto molto poco, ho lavorato in due spettacoli teatrali per una compagnia di amici, ho avuto pochissime occasioni per scrivere della musica. In più, all'epoca non avevo né la strumentazione né le competenze tecniche necessarie per lavorare con facilità in casa a del materiale nuovo. La fase di lavoro su "DIE" che feci da solo, prima di iniziare a lavorarci con Bruno Germano, fu quasi drammatica: avevo in testa delle soluzioni musicali che non riuscivo tecnicamente a riprodurre. Non sapevo banalmente distinguere 100 hertz da un kilohertz, non riuscivo a fare dei suoni di basso che corrispondessero a ciò che avevo in mente. Da lì in poi ho iniziato a lavorare con Bruno, l'ho osservato tantissimo. Abbiamo passato dei mesi in studio, mi sono fatto spiegare un sacco di cose e ho acquisito delle competenze che mi hanno poi permesso di lavorare tanto in casa. Quindi, dopo "DIE", mi sono ritrovato a scrivere una quantità di musica enorme, come non avevo davvero mai fatto. In due mesi ho scritto dieci volte tutto quello che avevo scritto in tutto il resto della mia vita. In "IRA" sono finite due ore di musica, ma ne ho da parte il doppio, se non cinque volte tanto.
E' successo questo, in questi anni, ho scritto tantissimo. Questa iper-produttività, dove sono rientrate varie colonne sonore, sonorizzazioni, produzioni artistiche e collaborazioni con altri, mi ha dato una spinta enorme a sviluppare determinate idee che fino a quel momento erano solo potenziali, immaginate. Sicuramente, di quello che ero dieci anni fa rimane l'esperienza acquisita. Oggi sembra strano parlarne, il mondo musicale che viviamo è completamente differente, ma io prima di pubblicare il mio primo disco ho fatto più o meno 250 concerti ovunque, nella stragrande maggioranza dei casi gratis, spostandomi da solo in treno carico come un mulo, mentre facevo anche il call center nel frattempo. Dall'inizio del 2009 all'estate del 2012 ho fatto più o meno 250 concerti. Quella cosa li ti forgia, e per come sono fatto io, fa sì che la tua fronte dura da mulo sardo diventi ancora più dura. Nel momento in cui ho avuto l'idea di fare "IRA", non ho avuto alcun timore a riguardo. Non ho avuto la paura di pubblicare un disco chiaramente fuori dalle logiche dello streaming, in questo momento totalizzanti, purtroppo. Quindi cosa rimane di me? Rimane la spinta a fare unicamente quello che mi piace e che mi interessa fare, e il rifiuto di fare qualsiasi cosa non sia in linea con questa scelta.

“IRA” fa sembrare un capolavoro del cantautorato italiano recente come "DIE" un germoglio, con quest'ultima pubblicazione nella parte della gigantesca quercia. In maniera ironica, un disco del genere non rischia di mettere in ombra il tuo stesso lavoro?
Mi è capitato di riascoltare da poco "DIE" poiché dobbiamo prepararne dei brani per il tour di ques'estate. Ormai lo guardo con la distanza che mi porta – come sempre capita – a dire: “Questo brano lo potevo arrangiare meglio, questo suono non va mica bene, il mixaggio è un po' sbilanciato in questa direzione etc etc”. Ma è tutto normale. Tra un mese, o un anno, farò lo stesso tipo di valutazione su "IRA". Ci sono dei pezzi di "DIE" che secondo me sono ancora possenti e che mi piacciono ancora al 100% e che sento miei in ogni loro soluzione musicale: direi soprattutto “Tanca”, che mi sembra sia il brano più vicino a "IRA". Non avrei potuto assolutamente fare "IRA" se non fossi passato da "DIE", ma il salto che ho dovuto fare per passare dalla “Macarena” a "DIE" è stato comunque enorme. E prima della pubblicazione di "DIE" non c'era alcuna certezza del buon esito dell'operazione. Mi sono ritrovato con questo disco, abbiamo iniziato a ragionare su come promuoverlo e per noi era un grande punto interrogativo. Ero certo della qualità del lavoro fatto, di come ci avevo lavorato, del tempo dedicato, però, guardandoci intorno, ci rendevamo conto che quel disco era in controtendenza totale con ciò che all'epoca stava iniziando a delinearsi come quella roba tremenda che è l'It-Pop, o quella cosa che viene incoscientemente chiamata spesso indie. Una cosa che mi fa attorcigliare le budella, perché in buona sostanza è musica leggera italiana che come sempre rinnova i proprio suoni per essere un po' al passo con i dettami del mercato, nulla di diverso da quello che è sempre accaduto. Però quando "DIE" è uscito, era assolutamente in controtendenza rispetto alla poetica generale che si stava delineando. Non era un disco che parlava di sentimenti, o quantomeno non come purtroppo ci siamo abituati a sentire, sentimenti trattati come lo farebbe un adolescente. Non è un disco di canzoni strutturate in maniera pateticamente prevedibile, non è un disco mixato con la voce altissima e super-radiofonica etc. etc.
Sì, probabilmente "DIE" è un germoglio rispetto a "IRA", però in quel momento lì non lo era affatto, era coraggioso. Poi il fatto che sia andato bene e nel tempo sedimentato mi fa molto piacere e non lo do affatto per scontato, non lo era all'epoca e non lo è neanche oggi. È una cosa che continua un po' a sorprendermi.

In una nostra precedente intervista ti sei definito “un compositore senza legami particolari con uno specifico strumento” e "IRA" infatti ci conferma la totalità del tuo approccio compositivo. Sapendo del profondo legame tra la musica, i musicisti con cui è stata composta, e quanto tutto ciò sia connesso alla presentazione live nei teatri, il prossimo passo sarà direttamente un'opera teatrale che non passerà neanche su disco?
No. "IRA" nella mia testa non è assolutamente un'opera come la si poteva intendere nel prog anni 70, con il libretto consegnato all'ingresso. L'esecuzione nei teatri è stata una scelta dettata dalla necessità. Mi spiego meglio: a un certo punto ho capito che avrei voluto presentare "IRA" dal vivo suonandolo integralmente con i musicisti sui quali l'ho modellato dettagliatamente e che con me hanno lavorato per anni con una tenacia e una pazienza per la quale non smetterò mai di ringraziarli. Mi interessava suonarlo integralmente con loro e nel momento in cui ho parlato con le persone con cui lavoro da sempre, quindi Panico Concerti, ho detto: “Ok, voglio fare questa cosa”. E loro mi hanno detto: “Benissimo, dove la facciamo?”. Il quesito era: club o teatri? I club mi piacciono tantissimo: l'idea del pubblico in piedi, vicino, ammassato, investito da un volume notevole. Poi ci siamo resi conto che era veramente difficile suonare un disco di due ore: noi lo sapevamo che durava due ore, il pubblico che avrebbe comprato il biglietto no. Quindi a un certo punto abbiamo deciso di fare questa cosa e suonarla nei teatri perché avremmo potuto dare la possibilità alle persone di godere di quello che stavamo facendo senza la fatica che interviene dopo un'ora che si è in piedi o il chiacchiericcio che inevitabilmente ti si piazza nelle orecchie. E' stata una scelta dettata da queste ragioni qui e dalla volontà anche di avere un maggiore controllo sulla qualità sonora. Ora, anche nei club si possono fare ovviamente concerti con una grandissima qualità sonora, però i club sono tutti molti diversi uno dall'altro: avremmo dovuto a ogni concerto resettare e ripartire, non dico da capo, ma comunque molto indietro. Invece i teatri sono pensati per suonare più o meno nella stessa maniera. Quindi la scelta dei teatri è stata questa, io non ho in mente delle opere teatrali, ho in mente delle opere musicali, dei dischi. No, il prossimo passo non sarà quello e non so quale possa essere. Non ho ancora iniziato a pensarci, per quanto abbia già delle idee chiare su quello che sarà il prossimo disco, però non credo sarà un'opera teatrale.

Negli anni, e in concomitanza della pubblicazione di "IRA", hai avuto modo di parlare delle tue influenze musicali, letterarie e artistiche a tutto tondo e di come siano entrate nelle tue composizioni: ma c'è un passaggio di "IRA" influenzato invece da un fatto di cronaca, un evento storico celato tra quei brani?
No. Io ho avuto idea di scrivere questo disco a partire dalla suggestione del linguaggio e la suggestione del linguaggio è venuta con la stesura delle melodie. Le melodie le scrivo sempre molto velocemente. Per ogni aspetto musicale io devo faticare tanto, perché non sono né un chitarrista virtuoso né un pianista virtuoso  né un compositore che conosce l'armonia dettagliatamente: la conosco, la so armeggiare ma non sono uno “studiato”, ecco. Ogni cosa mi costa una certa fatica. L'unica cosa che obbiettivamente riesco a fare con una estrema velocità è scrivere le melodie. Il metodo che ormai ho sviluppato da “Tanca” in poi mi porta a scrivere delle melodie che non solo non hanno una forma da canzone, ma sono delle sequenze di movimenti vocali che si spostano in alto, lateralmente, in basso. Quando le scrivo vengono fuori già delle cose che indirizzano la mia fantasia. Per "DIE" fu il ripetere costantemente determinate parole, sulle quali poi lavorai e sviluppai tutti i testi. Nel caso di “IRA”, a un certo punto, mi sono reso conto che avevo tutte le melodie che suonavano diverse rispetto a quelle che avevo scritto fino ad ora e che si portavano appresso dei suoni che non mi erano familiari. Ciò mi ha suggerito un senso di solitudine, distanza, smarrimento, difficoltà nell'esprimersi, nel farsi comprendere. In generale, un senso di estraneità.
Ci ho lavorato sopra e capito che stavo ricercando la narrazione di una traversata, di un viaggio. E' stato innanzitutto questo, poi ovviamente quando si ha a che fare con un archetipo di questo tipo i riferimenti possono essere tanto nella tradizione biblica, quanto nella letteratura americana del Novecento, così come la cronaca di questi stessi giorni. Perché è appunto un archetipo, così come lo era quello di "DIE": l'uomo in mezzo al mare, la donna che lo aspetta a terra può essere qualsiasi cosa. Può essere Ulisse o la storia di un qualsiasi migrante, o di un pescatore, un naufrago. Entrambe sono la storia di qualsiasi uomo, la sensazione di estraneità, distanza, attraversata, allontanamento progressivo dal luogo in cui si è nati, fisico o simbolico che sia, è la storia propria di ogni essere vivente.

Alle luce delle “difficoltà” di ascolto e dell'essere fuori dalle logiche commerciali, non si rischia che un lavoro così bello, potente e rivoluzionario venga apprezzato solo da chi è già fan di Iosonouncane?
Se mi preoccupassi di questo e cercassi di fare qualcosa che insegue le stime di mercato del momento, farei il più grande errore della mia vita, anche perché non c'è una ricetta che certifichi la possibilità di spaccare in radio o su Spotify, come si è soliti dire oggi. Mi sembra di assistere a una corsa all'oro che riesce veramente a pochissimi e catapulta nella tristezza tutti gli altri. Non mi preoccupo di questa cosa qui, dall'altra parte ti dico anche che quando ho fatto "DIE", il quesito era esattamente lo stesso: “Non ti preoccupa il fatto che un disco così di quaranta minuti, di sei brani lunghi – e che poi non è stato passato dalle radio generaliste, non se ne è parlato in tv, non ci sono stati servizi al tg su "DIE" – non ti preoccupa che questa cosa possa confinarti a un pubblico di nicchia?”. E i risultati sono stati gli opposti: al primo concerto che ho fatto per "DIE" c'erano 150 persone a ingresso gratuito e all'ultimo che ho fatto ce ne erano 1.500 a pagamento. Il mio percorso dimostra esattamente il contrario, però, ti ripeto, è una cosa della quale non mi preoccupo e non devo assolutamente preoccuparmi. Se facessi questo, interverrebbe nell'atto della scrittura una logica che precluderebbe la realizzazione piena di quello che io ho immaginato. In fin dei conti il mio compito è quello di immaginare delle cose e dar loro forma.

In maniera molto concreta, mi immagino il curioso che sentando parlare bene dell'album, ti cerca e si ritrova davanti il primo pezzo di “IRA”...
Su Spotify i dischi di Robert Wyatt hanno molti meno ascolti dei miei e già questo è drammatico. È una logica che rifiuto perché per me è palesemente fallace. Robert Wyatt dovrebbe essere la cosa più ascoltata al mondo, ma non lo è!

Se la musica di "IRA" dovesse diventare la colonna sonora di un film, da quale regista faresti dirigere l'opera? Penso che Bela Tarr (o anche Aleksandr Sokurov) sarebbe perfetto.
Ho sempre fatto grossa fatica a immaginare delle trasposizioni visive del mio lavoro. Ho anche provato a suo tempo a fare un videoclip per “Stormi” e non siamo arrivati a capo. Questo perché nel momento in cui io scrivo i testi parto quasi sempre da sequenze visive: le tratteggio visivamente e poi le trascrivo inserendo quell'immagine nella griglia che gli viene fornita delle melodie. E' molto difficile immaginare la possibilità che qualcuno possa metter mano e tradurre in immagini quello che faccio, perché nella mia testa quelle immagini ci sono già. Facendo un esercizio di astrazione di questo tipo, "IRA" nella mia testa assomiglia a un'opera filmica colossale ma non in costume. Qualcosa che implica un'ascesa, un'immersione che inizialmente può essere estenuante ma che finisce con l'essere liberatoria. Citando il nome più banale che in questo senso può venire in mente, direi Kubrick

In questi giorni hai annunciato le nuove date per il tour estivo: da quella “famigerata” data al Primavera Sound 2017 la situazione è purtroppo cambiata. Cosa si prova a risuonare live adesso, facendo i conti con tutte le dinamiche in gioco?
Le dinamiche andranno viste pian piano. Bisogna essere tamponati continuamente, stare attentissimi perché un tampone positivo, il contatto con un positivo, implica una quarantena, quindi la sospensione di settimane di concerti, etc etc.. E' una cosa sicuramente più delicata e complessa rispetto all'idea di tour che noi abbiamo sempre avuto e che abbiamo sempre fatto. Detto ciò, accantonato l'aspetto logistico che impareremo, già il fatto di ritrovarsi in sala prove e suonare, ritrovarsi a cablare gli strumenti, ad aprire i case e capire come sistemarli, a fare tutte queste da “umarèll” (come si dice a Bologna, cioè da attempato con la sua cassetta degli attrezzi con il velcro e tutto il resto), suonare e capire quale macchina nuova può servire: tutte queste cose sono entusiasmanti, bellissime. Già il solo dover fare delle prove mi ha dato delle scariche di adrenalina fortissima che non provavo da un anno abbondante, perché poi tutto questo casino è successo quando eravamo più o meno a 2/3 con la preparazione del tour di esecuzione integrale di "IRA". E' stata un po' una doccia fredda, ci siamo dovuti fermare all'improvviso. Per questa ragione non siamo andati in tour l'estate scorsa e per questa ragione si è rivelato complessissimo pensare di andare in tour questa estate con la band al completo, perché purtroppo la pandemia ha interrotto le nostre prove quando ancora non erano complete e ci siamo ritrovati a non avere un set completo, quindi impossibilitati a decidere dall'oggi al domani “Ci vediamo per due, tre giorni, proviamo due brani, li suoniamo in streaming?”. E' una cosa che non possiamo fare perché il materiale è molto complesso, i musicisti sono tanti e le prove non le abbiamo mai terminate.
Quando ci rivedremo, dovremo un po' ripartire da zero, ricapire un po' tutto, anche perché questi brani da suonare sono veramente sfiancanti, per ogni singolo musicista. Ci sono un sacco di cose da fare contemporaneamente e bisogna suonare quasi come delle batterie elettroniche a tratti, ci vuole un grande lavoro mnemonico, di concentrazione e allo stesso tempo anche di pronuncia sugli strumenti.

Difficile scinderti dalla Sardegna. C'è qualche artista emergente proveniente dalla tua terra da segnalarci?
Alek Hidell che ha appena pubblicato “Ravot”, il suo primo disco. Credo ne abbiate scritto anche voi di OndaRock: sicuramente lui. Un musicista da tener d'occhio, anomalo nel panorama italiano, che si muove su spazi di confine tra l'elettronica e l'hip hop, il prog a tratti, credo che lui sia una delle cose più interessanti in circolazione in questo momento. È sardo, è un mio amico, ma non lo dico assolutamente per questo, ho tanti amici che suonano ma non li segnalo tutti. Lui invece, secondo me, è davvero interessante.

Dopo l'apprezzato split con i Verdena, hai in programma altre collaborazioni?
In questo momento ho all'orizzonte – molto ravvicinato – dei lavori per il cinema. Ancora delle colonne sonore. Io e Paolo Angeli abbiamo un disco pronto, già mixato, realizzato utilizzando del materiale registrato nella tournée teatrale che abbiamo fatto nel 2018. Presumibilmente uscirà tra non molto. Non ho altre collaborazioni in atto, in questo momento.

Sei nel pieno di una lunga “session” di interviste per il lancio dell'album: c'è ancora qualcosa che non sei riuscito a dire e che reputi sia importante?
Per fortuna, come ti dicevo all'inizio, mi sembra che “IRA” abbia generato un livello d'attenzione sul disco stesso e sul mio modo di lavorare che ogni volta mi gratifica. Ci sono tanti dischi per i quali viene difficile formulare delle domande che vanno al di la di “In questo disco parli di te?” o “Hai suonato la chitarra in questa canzone?”. Mi sembra che questo disco – era già capitato in parte per "DIE" – stia generando un'attenzione a un livello molto interessante.
Un'altra cosa che mi sembra interessante è che forse si sta mettendo anche da parte un fraintendimento al quale sono sempre stato un po' condannato fino a poco tempo fa, nel senso che per ragioni anagrafiche o geografiche sono sempre stato inserito in una scena di cantautori indie che in realtà non mi appartiene e alla quale non appartengo. Questa cosa nonostante “Tanca”, “Buio”, “Mandria”: forse solo per “Stormi” o “Il corpo del reato” ne “La Macarena su Roma”, anche se poi in realtà il disco nella sua complessità già si discosta nettamente da quel mondo. Non dico che abbia sofferto di questa cosa, perché in fin dei conti non me ne frega nulla, però mi sembra che in questo momento la percezione che si ha di quello che faccio e di quello che sono come musicista sia finalmente a 360 gradi.
E' passata tanto l'idea che io sia uno che fa un disco ogni cinque anni e per il resto non fa nulla. In realtà tra "DIE" e "IRA" ho fatto quattro colonne sonore, ho sonorizzato un'opera di Edoardo Tresoldi (una composizione di quaranta minuti che è un disco a tutti gli effetti e che prima o poi registrerò e pubblicherò), ho collaborato con Paolo Angeli, con i Verdena, ho prodotto diversi dischi, sono andato in tour con Dino Fumaretto, ho sonorizzato dei film. Ho fatto una valanga di cose, scritto una valanga di musica e onestamente mi viene difficile qualche collega italiano altrettanto produttivo. E' buffo il fatto che per molti io finissi in quel macro-calderone che è il cantautorato indie degli anni Zero, chiamiamolo così. Forse “Stormi” ha contribuito a questo fraintendimento, è diventata una hit, ma anche su questo secondo me bisogna essere molto consapevoli delle cose. Oggi le hit nascono e fioriscono sulle piattaforme di streaming, le quali hanno un algoritmo che fa sì che un brano “playlistato” diverse volte venga automaticamente “ri-playlistato”, quindi è un successo che si autogenera e la qualità dell'ascolto è indicativa, nel senso che i numeri fatti da un brano molto spesso sono generati dalla casualità dei consigli che la piattaforma stessa dà, quindi c'è poco da lodarsi. Quando “Stormi” ha vinto il disco d'oro, a me non ha fatto né caldo né freddo, non perché voglia fare il duro, ma poiché sono consapevole della cosa.
Ritengo molto più significativo vedere che per quanto la mia esposizione mediatica sia pari a zero e i grossi network e le televisioni non parlino minimamente di me e non si interessino del mio lavoro, ai miei concerti le persone vengono. Quando lanciammo il tour d'esecuzione integrale di “IRA” in anteprima, e lo abbiamo fatto in totale indipendenza, senza investire un euro né in promozioni né in sponsorizzazioni, era un bel quesito. Si trattava di spazi da 1.000, 1.200 posti all'incirca, anche di più a volte, e mi chiedevo come potesse andare questa cosa. Chiamare a raccolta il pubblico oggi, le persone, per andare a sentire qualcosa che non hanno mai ascoltato quando in realtà tutti puntano al sing along, sia i musicisti che il pubblico stesso. Si va ai concerti per filmare il cantante quando canta la canzone che tu conosci e allo stesso tempo però cantarla a un volume di voce più alta del cantante stesso: l'oggetto di quel concerto sei tu che canti la canzone che conosci. È un perenne selfie. Chiamare a raccolta le persone per andare ad ascoltare qualcosa che non hanno mai sentito è qualcosa di rischioso e di strambo. e quando abbiamo visto che le date andavano sold-out in pochissimi giorni. è stato molto bello, vuol dire che le persone ti danno fiducia e danno fiducia al percorso che stai facendo, che prescinde dai singoli, prescinde dai numeri su Spotify.

(15/05/2021)

(Foto di copertina di Silvia Cesari)


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Un cane senza padrone

di Valerio D'Onofrio e Daniele Modica

Jacopo Incani, più noto col nome di Iosonouncane, è uno dei musicisti italiani più originali della nuova generazione di artisti indipendenti, troppo spesso etichettati nella variegata categoria indie. Ma la verità è Iosonouncane si pone in tutt’altro ambito, probabilmente ben al di sopra della scena italiana contemporanea, per complessità della sue opere, per capacità compositiva e visionaria. Un cane senza padrone, tanto ricco di idee e spunti innovativi da rendere impossibile un raffronto con altri musicisti capaci di battere i suoi stessi sentieri tra elettronica e cantautorato. In occasione del suo prossimo tour con Paolo Angeli, abbiamo avuto il piacere di intervistarlo.


Dopo un album come "DIE", un lavoro davvero monumentale ed encomiabile, che ha ricevuto meritatissimi apprezzamenti trasversali di pubblico e critica, hai cambiato direzione e ti sei indirizzato verso le collaborazioni. La prima è lo split con i Verdena. Com’è nata questa idea?

Dall'uscita di "DIE" a oggi mi sono dedicato a diversi progetti: ho pubblicato lo split con i Verdena; ho sonorizzato un'opera di Edoardo Tresoldi con una composizione di 40 minuti pensata per un organico ideale di circa 50 musicisti; ho scritto e prodotto la colonna sonora di un documentario di inchiesta ("Follow The Paintings"); ho lavorato come arrangiatore e produttore per gli ultimi dischi di Colapesce e Dino Fumaretto; ho sonorizzato un film muto con Corrado Nuccini ed Enrico Gabrielli; ho registrato una cover dei Radiohead; ho messo le mani in brani di Colombre, ARTO, Matteo Fiorino e Phill Reinolds. E probabilmente qualcos'altro che dimentico. Sono tutte esperienze pienamente pertinenti con la mia maniera di essere musicista, ovvero un lavoro in cui scrittura, stesura degli arrangiamenti, lavoro sui suoni e produzione coincidono. Quindi nulla di più naturale.

Proprio nei prossimi giorni (13, 14, 15,16 e 17 marzo) presenterai - rispettivamente a Bologna, Roma, Salerno, Lucca e Cagliari - la tua collaborazione con Paolo Angeli, un musicista apparentemente molto diverso da te. Hai già collaborato con lui in “Buio”. E’ stato semplice collaborare con Paolo? Ci sono particolari che vi uniscono che hanno reso naturale la vostra collaborazione, o, viceversa, ci sono divergenze che l’hanno resa più difficile?
È stato onestamente molto semplice. Ci siamo capiti e reciprocamente accolti con grande facilità e fin dal principio, sia umanamente che artisticamente. A unirci c'è una storia personale molto simile (la Sardegna, la partenza, Bologna) e la stessa spinta verso il viaggio. A dividerci c'è la differente natura di musicisti: un improvvisatore profondamente legato a uno strumento lui, un compositore senza legami particolari con uno specifico strumento io.

Cosa aggiunge, anche dal vivo, la musica di Paolo Angeli al mondo creato nei tuoi lavori solisti?
Il confronto con Paolo genera un'estemporaneità ricca di imprevisti che, essendo abituato a scrivere tutto nel dettaglio, difficilmente sperimenterei (non quanto meno in questi termini).

La complessità di "DIE" nasconde un grande lavoro durato almeno 4 anni, immagino che ti sia costato tantissima fatica e altrettanta gioia per il risultato. Hai mai pensato o sperato che quel lavoro potesse diventare un po' il precursore di un nuova strada della musica italiana indipendente?
Non vedo nessuno che sia in grado di farlo. Negli ultimi anni sono usciti parecchi lavori o progetti che hanno evidentemente subito l'influenza del mio lavoro, ma il tutto si limita all'imitazione di alcuni caratteri estetici.

Nei tuoi album solisti fai un uso diffuso dell’elettronica (hai anche suonato allo Spring Attitude Festival, dedicato proprio a quei suoni), una componente di cui oggi si fa un grande uso-abuso e che in molti casi dà l’impressione di essere utilizzata quasi per nascondere carenze compositive. Nel tuo caso, invece, le due cose coesistono perfettamente e sembrano funzionali l’una all’altra; è stato un percorso formativo complesso, oppure era una tua idea fin dall’inizio.
Io lavoro con l'elettronica dal 2006. Sono quindi 12 anni circa che scrivo (e cioè compongo, arrangio e produco) servendomi anche di strumenti elettronici. Non c'è brano che io abbia scritto sulla sola chitarra, sul solo pianoforte o unicamente su beat e campionatori. Scrivo sempre passando dall'uno all'altro e integrando fra loro gli spunti emersi. Ho avuto fin dal principio un'idea chiara del modo in cui avrei voluto lavorare, ma ovviamente tutto cambia e si arricchisce in corso d'opera.

Non so se è mai stato tuo interesse descrivere coi tuoi dischi spaccati dell’Italia di oggi. Probabilmente è vero in “La macarena su Roma”, ma in “DIE” sento forte una valenza politica data più dalla musica che dai testi, sei d’accordo?
In quanto autore, mi interessa lo spaccato di un paese solo nella misura in cui lo si assume come punto di partenza di un discorso, non come punto d'arrivo. Non mi interessa fare la cronaca di un evento o un luogo, non scelgo mai una linearità narrativa, non ho l'obiettivo dell'esaustività o della chiarezza. Detto ciò, sono assolutamente d'accordo su quanto dici a proposito di "DIE". Bisogna distinguere nettamente fra cronaca e politica, e non può che avere una forte valenza politica un disco in cui ci si interroga sul linguaggio.

Oggi si parla tanto di scena indipendente italiana, per quanto sia una definizione che ormai non ha più senso. E’ indubbio constatare che la tua proposta musicale si ponga decisamente su un altro livello, sia per forma, sia per contenuti, rispetto a quello che oggi viene indicato come “indie” e che probabilmente è un nuovo mainstream. Il tuo lavoro, per quanto complesso e antitetico per certi versi a questa corrente, è riuscito comunque a trovare enormi consensi sia da parte della critica che dal pubblico, con livelli qualitativi e di produzione altissimi. Fortunatamente non sei un caso isolato, esiste una scena musicale italiana di altissima qualità che meriterebbe il giusto spazio ma che purtroppo stenta ad avere visibilità. Quali sono, a tuo avviso, i musicisti italiani che in questo momento si pongono davvero come “altro” e che reputi “artisti”?
L'elenco è lungo e Paolo Angeli è in cima.

La musica è la forma d’arte a cui tu hai dedicato la tua vita. Ma le arti spesso si influenzano vicendevolmente; quindi mi piacerebbe non farti la solita domanda sulle tue influenze musicali, bensì chiederti se c’è stato un regista o magari un pittore che, con le sue immagini, ti ha dato spunti fondamentali per lo sviluppo delle tue idee.
Il cinema è una grandissima influenza per me, tra le più importanti. Non so farti dei nomi poiché l'influenza non viene tanto da uno specifico regista, quanto dal cinema in sé come mezzo e metodo di osservazione del movimento. Per quanto riguarda la pittura, posso dirti che amo incondizionatamente gli impressionisti.

Invece nella letteratura ci sono autori che ti hanno influenzato?
Affronto il lavoro su ogni disco come un lungo percorso di ricerca e approfondimento. Ne studio il lessico, la costruzione delle immagini, la cadenza delle frasi, il suono. In questo le letture sono fondamentali. Ad ogni disco (e quindi ogni fase della mia vita) corrispondono letture differenti. Cito Ballard per quanto riguarda "La macarena su Roma" e Pavese per quanto riguarda "DIE".

La resa dal vivo di brani come "La macarena su Roma", con quei momenti di interazione col pubblico quasi teatrali, grotteschi, violenti per certi versi, permette una totale immersione all'interno della tua musica dall'inizio alla fine del concerto. Qualcosa a cui forse non siamo più abituati, in un’epoca in cui non riusciamo ad ascoltare neanche un album dall’inizio alla fine senza saltare qualche traccia. In un momento storico in cui i mezzi di fruizione della musica si muovono per lo più sulle piattaforme di streaming digitale, pensi che la musica debba tornare nuovamente alla sua dimensione live? In altre parole, il concerto ha ancora una valenza culturale e in quanto tale deve essere tutelato e sostenuto? O è solo un momento ludico per il pubblico e di promozione per l’artista? Qual è il tuo rapporto con il palco?
Non posso rispondere a questa domanda in modo articolato, poiché non ci ho mai ragionato approfonditamente. E non l'ho fatto probabilmente perché la questione non mi preoccupa in modo particolare. È sicuramente vero che vi è stato un mutamento nella fruizione della musica, ma ci sarà sempre bisogno di opere compiute, articolate, anche imponenti. A me piace suonare, e mi piace particolarmente farlo con i miei musicisti. Concepisco il concerto come un momento di scontro aperto con il pubblico (come entità collettiva) e le singole persone che lo compongono. Credo che un artista abbia il dovere morale, culturale e politico di non essere accomodante né semplice, e credo che la difficoltà nella fruizione sia un bene preziosissimo, un'occasione da non sprecarsi. Da ascoltatore, non cerco consolazione o immedesimazione, ma nuove domande che mi impegnino nella ricerca di risposte. Da musicista cerco con i dischi e i concerti di dare agli altri quel che ho ricevuto dagli artisti e dalle opere per me più importanti.