Lucy

Italiani nel mondo

intervista di Antonio Ciarletta

Abbiamo incontrato Lucy in occasione delle sue performance al Club To Club di Torino, al Teatro Carignano ed allo Jam il 3 e 4 novembre. Lucy è una delle sorprese del 2011. Dietro questo moniker - forse più calzante a una formazione neoshoegazing - si cela Luca Mortellaro, produttore nativo di Palermo, ma oggi di stanza a Berlino dopo un intermezzo parigino. Il suo "Wordplay For Working Bees" ha ricevuto ottime recensioni un po’ ovunque, non ultimo su OndaRock, così abbiamo deciso di scambiare quattro chiacchiere con lui per cercare di saperne di più sul suo percorso, sulle sue esperienze e non ultimo su Stroboscopic Artefacts, l’etichetta da lui fondata, su cui incidono alcuni degli artisti emergenti dell’elettronica internazionale. Abbiamo parlato anche del momento che sta attraversando l’elettronica, in particolare di questo straniante e originale miscuglio di dubstep e techno, che rappresenta una delle novità più interessanti di questi ultimi tempi. Ne è venuto fuori il ritratto di un ragazzo poliedrico e con le idee chiare, e di un’etichetta che sicuramente saprà regalare altri momenti di grande musica. Un nome su tutti? Xhin…

Chi è Luca Mortellaro? Presentati ai lettori di OndaRock.
Sono nato a Palermo, poi sono espatriato prima in Francia e poi in Germania. Adesso vivo a Berlino da tre anni, qui ho lanciato Stroboscopic Artefacts.

Come mai ti sei trasferito a Berlino? Per motivi musicali, personali o anche relativi al contesto politico-sociale di questo periodo.

Mah, diciamo che aver lasciato l’Italia in particolare è dipeso anche da ragioni politiche, nel senso che non mi piace la piega poco democratica che sta prendendo il paese, senza entrare troppo nei particolari. A parte questo, dopo Parigi la scelta di Berlino è stata dettata da esigenze musicali. Già a Parigi, quando ho iniziato a pensare alla musica seriamente, ossia a considerarla una professione, avevo in testa di lanciare un qualcosa che fosse come una comunità di cervelli creativi. Ciò ha preso forma in un’etichetta discografica vera e propria, la Stroboscopic Artefacts. Ho lanciato l’etichetta dopo un anno che ero a Berlino, giusto il tempo di sistemare gli aspetti organizzativi e amministrativi della cosa.

A Berlino sei entrato in contatto con personaggi dell’ambiente musicale della città…
Certo, questo è il bellodi Berlino. Ti accoglie abbastanza a braccia aperte. Nonostante il panorama sia ricchissimo di etichette, artisti e club, manca l’aspetto competitivo della cosa. Questo dà la sensazione di trovarsi in una comunità underground, dove ci si può aiutare – e dove ci si aiuta – molto. Berlino è sempre pronta ad accogliere cose nuove, c’è un pubblico educato alla musica elettronica, si aspetta innovazione, quindi è pronto ad ascoltare cose più “rischiate”, che è poi quello che ci pace pubblicare su Stroboscopic Artefacts.

C’è un concept dietro l’etichetta?
Be’, diciamo che un concept c’è sempre in qualche maniera, nel senso che almeno questo tipo di realtà oneste e sincere nel senso underground del termine, hanno sempre dietro di sé la spinta, quasi la necessità, di voler dire certe cose in una determinata maniera. La ragione e gli obiettivi che hanno portato alla nascita di Stroboscopic Artefacts erano quelli di costruire una sorta di piattaforma che da un lato portasse alla libera espressone degli artisti e dall’altra si autodefinisse attraverso il contributo creativo degli stessi, tenendo ferme alcune caratteristiche di base, come la grafica il mastering, ad esempio, che contribuiscono alla caratterizzazione dell’etichetta. In questo senso, abbiamo lo studio di grafica, Oblivious Artefacts, che mi propone le sue idee, Artefacts Mastering (lo studio di mastering), che lavora in una certa maniera e ovviamente gli artisti che magari mi presentano delle cose che non mi aspettavo e che mi sorprendono. C’è una sorta di dinamica a più voci all’interno dell’etichetta.

Quante persone lavorano in Stroboscopic Artefacts?
Allora, c’è una persona che mi aiuta a gestire gli aspetti amministrativi, Xavier, un ragazzo francese che vive a Berlino. Poi una ragazza di Londra che si occupa delle press release, dopodiché c’è un’agente di booking, che si occupa del booking degli artisti principali di Stroboscopic. Insieme lavoriamo con Apelago, un’agenzia che si occupa degli showcase nonché del booking di Lucy, di Xhin, di Markus Suckut. Poi c’è lo studio di grafica, Oblivius Artefacts, che è un collettivo di astisti che lavorano ai visual degli showcase, e che si occupato del concept grafico di Stroboscopic Artefact. Quindi Artefacts Mastering, lo studio di mastering che si occupa della post-produzione, e che viene gestito dai Dabub, due ragazzi italiani (Giovanni e Daniele).

Nell’era del downloading selvaggio si riesce a vivere di musica?
Sì, si riesce, almeno finora… Il music business non regge esclusivamente sulla vendita dei dischi, ma c’è un apparato in cui il lato booking e serate ha preso un’importanza notevole. Poi ci sono altri aspetti come il pubblishing, la grafica e lavori di altro tipo. Diciamo che oggi un’etichetta deve lavorare a 360 gradi, non soltanto sulla vendita delle copie dei dischi.

Parlami degli artisti di Stroboscopic Artefacts...
Xhin è stato il primo artista a lavare con Stroboscopic. Con lui ero in contatto da molto prima che fondassi l’etichetta, praticamente dai tempi di Meerestief, etichetta con cui entrambi collaboravamo. Le produzioni di Xhin mi avevano impressionato, tanto che mi ero detto: se un giorno lancio un etichetta, Xhin sarà il primo artista a cui chiederò di collaborare, e infatti così è stato. Dopo un primo un paio di Ep e svariate tracce e release, è diventato uno degli artisti di riferimento di Stroboscopic. Il prossimo passo è il suo album, previsto per novembre.

Ho sentito alcune cose di Xhin, mi pare che rispetto alle tue cose lui sia più sulla techno pura, semmai esista o sia mai esistita una techno pura.
Sì, infatti una techno pura non esiste. Diciamo che il suo sound è molto più aggressivo e tagliente del mio. Se dovessi definirlo criticamente direi che lui ha una sorta di precisione chirurgica nell’ingegneria sonora…

Mi suona più anni 90 rispetto al tuo sound, che invece mi pare più contaminato, con il dubstep soprattutto.
Sicuramente le sue radicisono negli anni 90, in un certo tipo di techno giapponese o inglese, ma comunque io lo trovo estremamente contemporaneo. Il suo primo disco su Stroboscopic, l’Ep Fixing The Error/Lynx, era veramente avanti sui tempi, nel senso che quello è un suono che ho visto affermarsi nell’underground sei mesi dopo. Il bello di Xhin è che non si pone alcun tipo di problema rispetto a cosa sarebbe giusto/in linea con i tempi fare. Lui fa semplicemente quello che è ispirato a fare. Il suo vantaggio è quello di vivere “isolato” rispetto al resto della scena techno. E’ di Singapore, dove la scena praticamente è lui, non esiste altro. Ciò gli consente di guadagnarne in originalità, perché è il suo mondo a uscire dai suoi dischi. Altre persone che hanno lavorato con noi dagli inizi sono i Dadub, questo duo che per noi si occupa anche di produzione e mastering. Stanno lavorando su bellissime robe, faranno un remix per Xhin, hanno fatto dei bellissimi live a degli showcase - al Sonar a Barcellona, al Melt in Germania. Poi ancora Pfirter, Perc, Marcus Suckut… siamo una bella famiglia.

Quali erano i tuoi ascolti prima di iniziare a lavorare a Lucy.
Mah, quando ero più giovane ascoltavo molto Warp Records. Aphex Twin, Autechre, Squarepusher sono stati il mio pane quotidiano, anche Boards Of Canada, Plaid riempiono ancora i miei viaggi tramite i-pod… A parte quello, ascoltavo tantissimo trip-hop, Portishead, Tricky, molto Brian Eno, Steve Reich e cose del genere, più sul classico.

Rock?
A parte qualcosa di rock psichedelico del passato, molto poco.

Sul versante post-punk/new wave? Cabaret Voltaire, Clock Dva, i classici che hanno ispirato anche l’elettronica anni 90?
Mmm, non per un motivo o per un altro questi dischi non erano nella mia libreria…

Hai saltato i padri…
…Diciamo che sono andato da altri genitori, tipoKraftwerk, Cluster e cose del genere.

Poi immagino sia passato per la scena di Detroit anni 80…
Sì, quella abbastanza, certo.

Parliamo un po’ del disco. Pensi possa essere foriero di novità questo nuovo territorio di contaminazione tra techno e dubstep, in cui si muovono personaggi come Shed e Shacketon?
Sì, assolutamente, perché il dubstep sta avendo un impatto notevole sull’underground. Chiaramente quando un grosso hype si abbatte su un genere abbastanza nuovo, accade che accanto alla dubstep più underground e più bella, vennga prodotta tantissima roba mainstream e di cattivo gusto. Quando parlo di dubstep, mi riferisco a roba come Shackleton, Kode9, Burial, Shed. Shed penso sia la più forte connessione tra quella techno di stampo berlinese (Basic Channel) e i tempi dubstep più inglesi. Se ci pensi, persino Surgeon è profondamente inglese nel suo modo di fare techno.

Come nel caso di Burial anche nella tua musica ci vedo quello sguardo panottico sulla metropoli illuminata
Certo, sono i posti i cui viviamo che dettano ispirano il nostro modo di fare musica. Penso che quel tipo di dubstep, di Burial come di Shackleton non poteva che nascere a Londra. Come certa techno non poteva che nascere Berlino. Non si più pensare di fare una musica che sia avulsa dall’ambiente. L’ambiente modella al 100x100 la musica che fai, le da forma, il profumo.

Parliamo dell’album. Mi incuriosiscono i titoli dei brani…
I titoli letti di seguito uno a fianco all’altro, con delle pause messe al punto giusto, formano una frase. E’ la frase di un filosofo greco.

Di chi si tratta?
Eh, scoprilo, non lo dico a nessuno…

Ho letto in un’altra intervista che non ti piace la quotidianità, alzarsi la mattina, andare a lavorare, guadagnarsi da vivere…
Sì, diciamo che non è questione di guadagnarsi da vivere, perché quello che faccio, a differenza di quello che si possa pensare, è un lavoro molto impegnativo. Tornando al nome dell’album, non riesco a essere un’ape operaia, non riesco a vivere secondo gli stessi riti e ritmi per anni e anni, che mi sento con le catene addosso. Il bello di lavorare in ambito artistico, soprattutto a livello underground, è che tu crei il tuo lavoro. Non è qualcosa per cui ti prendono a lavorare in un ufficio, hai il tuo contratto, prendi i tuoi soldi. E non è solo questione di soldi, soprattutto fai una cosa che ti soddisfa emotivamente.

Quindi, l’album riflette anche il senso di ansia dovuto a questo processo di quotidianità coatta a cui tutti siamo più o meno assoggettati?
Certo, l’album voleva essere una fotografia sia delle sensazioni che sento quando mi guardo intorno e vedo in che maniera quasi schiavistica funziona il mondo e al contempo vuole esporre delle soluzioni emotive
per uscirne. Anche se non sto proponendo nessun manifesto politico, propaganda o rivoluzione. E’ semplicemente una rivoluzione interiore, nel senso che magari certe sensazioni evocate attraverso la musica possono anche redimerti, in minima parte.

La mia traccia preferita è "Mas". Lì mi è parso di percepire una sorta di speranza rispetto all’oscurità delle altre tracce.
Mi riferivo esattamente a questo nella mia risposta precedente. L’album non è semplicemente una costatazione“dark” di una situazione di ansia e sofferenza nel vedere il mondo com’è, ma c’è anche il tentativo di trovare delle soluzioni emotive, una via della luce.

Il tuo pezzo preferito?
Non riesco a dirlo, perché per me il disco è un corpus omogeneo, nella mia mente le tracce non sono neanche separate. E’ un’unica massa emozionale.

Suggestioni cinematografiche? Ti chiederei di Lynch, ma mi sembra persino troppo ovvio…
Sì, sono un cinefilo accanito e Lynch è una delle ispirazioni maggiori. In realtà mi piace buona parte del filone fantascientifico-distopico a partire dai classici come "Blade Runner" a "Matrix". Soprattutto "Blade Runner" con quell’atmosfera di luci stroboscopiche, neon, mondo in bianco e nero, mondo in gabbia…

Penso ti piaccia anche Wong Kar Wai

Assolutamente, è uno dei miei registi preferiti.

Una domanda sugli artisti che sono a te più o meno vicini te la devo fare: Shed e Shackleton.
Sono due geni. Shackleton in particolare è stato una fortissima fonte d’ispirazione. Tra l’altro, sono anche abbastanza fortunato, perché siamo quasi compagni di studio, nel senso che la mia porta e la sua sono separate da pochi metri. Siamo abbastanza vicini anche fisicamente. Lo conosco di persona, molto bene, ed è stato un mentore artistico. Shed invece non lo conosco se non attraverso le sue produzioni. The Traveller è un album notevole per quel che riguarda l’esplorazione di territori altri. Mentre Shackleton è pienamente inglese nel suo tipo di sperimentazione, Shed è per me colui che ha fatto da collegamento tra quel tipo di bass music inglese e le cose alla Basic Channel tipicamente berlinesi. Quella di Shed è una funzione molto importante nella cultura underground di questi tempi.

Che cosa ascolti ultimamente?

Molto roba un po’ vecchiotta, tipo Popol Vuh, Cluster e il kraut-rock. Per quanto riguarda la roba più connessa al mondo dei club vi sono diverse etichette che al momento stanno facendo un bel lavoro, a cominciare da CLR che secondo me non è mai stata così prolifica come adesso, a partire da Chris (Liebing, ndr) stesso a Tommy Four Seven, stanno facendo davvero un bellissimo lavoro. Hanno fatto dei remix di ottima qualità. O anche della Ostgut Ton fino a un annetto fa, ascolto e suono tanta roba. Poi parte del catalogo della Electric Deluxe, Sandwell District, Surgeon che è davvero impressionate in quanto a qualità, il suo ultimo album, "Breaking The Frame", è davvero riuscitissimo.

Che rapporto hai con i social network?

Penso siano uno dei media più potenti al momento, soprattutto per la sua possibilità direct to fan. Questa possibilità di andare direttamente al fan tramite etichetta discografica è un bellissimo panorama. Il social network ha tantissimi aspetti negativi, ma se lo si usa in un certa maniera può essere un buon sistema per diffondere la propria musica senza spammare, per permettere alla gente di arrivare alla propria musica senza dover bussare alla loro porta.

Che rapporto hai con il dowloading. Non pensi che la possibilità di ascoltare tutto in qualsiasi momento stia facendo venir meno il desiderio?
Mah, guarda, penso sia facile saturarsi di questi tempi, e per questo bisogna stare un pochino attenti a cosa dedichi il tuo tempo durante la giornata, però allo stesso tempo lo trovo un modo estremamente democratico di approcciarsi alla musica. Nel senso che hai la possibilità di valutare davvero cosa vuoi acquistare o supportare oppure no. Anche perché supportare un disco vuol dire sopportare una comunità che si esprime attraverso quel disco. Quindi questo strumento diretto di comunicazione con i fan è uno dei lati positivi della rivoluzione digitale.

Prima delle rivoluzione digitale vi era un nesso più stretto tra la musica e il territorio che la esprimeva, cosa che mi pare si sia un po’ persa a seguito della rivoluzione di internet e della globalizzazione dei guasti che ne è conseguita. Ciò non potrebbe causare (o magari sta già causando) una standardizzazione delle produzioni?
Penso che in realtà questo pericolo non sia un pericolo, nel senso che se ci pensi, magari adesso lo scambio è più veloce, ma questo c’è sempre stato. Pensa, ad esempio, a come sì è diramata la techno in Europa, che è passata per certi artisti. Ora queste diramazioni sono più veloci, ma le scene esistono sempre. Rimane importante il luogo dove ti trovi per la musica che fai. Se fossi rimasto a Parigi, la mia musica suonerebbe diversamente da come suona adesso, stessa cosa se mi fossi trasferito a Roma piuttosto che a Berlino o a Londra. Avrei certamente avuto altri tipi di influenze. E' vero che c’è una comunicazione più diretta tra le diverse scene, e questo porta a una forte contaminazione, ma tra contaminazione e standardizzazione c’è una differenza enorme.

Quali sono i tuoi programmi post "Wordplay For Working Bees"?
E’ uscita da poco la mia prima release post-album, Monad X su Stroboscopic Artefacts. Poi sto lavorando a degli interessantissimi remix che usciranno nei prossimi mesi. Per il 2012 c’è in programma qualcosa di ancora più sperimentale e meno dancefloor. C’è qualche progetto che gira dietro le quinte dell’etichetta è che verterà su altri aspetti.

Un prossimo album di Lucy?
Sicuramente sì, già mi manca lavorare su un album. E’ stata un’esperienza veramente bellissima lavorare molto temo su un progetto unitario, lavorare su architetture più complesse rispetto a quanto si possa fare su un Ep, in cui si ha molto meno spazio per esprimere delle cose. Quindi sicuramente per il 2012/2013.

Discografia

Wordplay For Working Bees (Stroboscopic Artefacts, 2011)7,5
Churches Schools And Guns (Stroboscopic Artefacts, 2014)7,5
Pietra miliare
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