Giovani, in linea con i trend musicali europei, un'estetica ispirata dalle ultime tendenze della black music, ma senza l'arroganza di voler essere la "promessa dell'indie" e sensazionalismi analoghi. Gli Yombe sono un duo, o meglio una coppia (in arte e nella vita), formata da Cyen, cantautrice, e Alfredo Maddaluno, producer, che traggono il proprio nome da una popolazione dell'Africa subsahariana, con la quale sicuramente condividono l'attitudine al ritmo. Entrambi originari di Napoli ed ex-turnisti dei Fitness Forever, dopo il trasferimento a Milano hanno cominciato a sperimentare, e nel giro di un Ep e alcuni singoli sono riusciti ad attirare l'attenzione del pubblico e della stampa (persino inglese). Il loro Lp di debutto è intitolato "GOOOD" ed è un manifesto electro-soul in lingua inglese che non teme i rivali internazionali. Abbiamo intervistato la co-fondatrice del progetto Cyen, all'anagrafe Carola Moccia, lieta di spiegarci la genesi del progetto, svelando il segreto dietro questo piccolo successo: una innata umanità e una naturalezza che facilmente un artista nel corso della sua carriera potrebbe perdere.
Come è nata l’idea di formare un duo? Circola la notizia che voi due avete cominciato nelle fila dei Fitness Forever; che ruolo avevate all’epoca?
L’esperienza coi Fitness Forever risale a circa quattro anni fa, io avevo appena compiuto vent’anni. Personalmente, ho cominciato a suonare proprio nei Fitness e poi con loro sono stata due anni alla chitarra elettrica e come corista, mentre Alfredo era il tastierista e “tuttofare”, che di tanto in tanto suonava chitarre e altro. Abbiamo militato nei Fitness Forever fino a che abbiamo deciso di fare altro, e il progetto Yombe è nato un po’ per puro caso. L’idea è scaturita a Milano quasi per gioco. Alfredo faceva il turnista di Colapesce, nel frattempo io stavo lavorando al mio disco in italiano. Ora, nella mia forma mentis, le cose in italiano hanno bisogno di tempi di lavorazioni molto più lunghi per vedere la luce, quindi, intanto io e Alfredo cominciammo registrare altre cose. Da queste sessioni venne fuori Yombe, cominciammo a far uscire qualcosa e subito è diventata una cosa molto più seria di quanto ci aspettavamo. Abbiamo firmato un contratto molto presto, preso contatti con emittenti radiofoniche interessate al progetto, anche alcune radio inglesi ci hanno contattato; insomma, è diventato in breve qualcosa di molto più impegnativo. Adesso ci ha assorbito totalmente, sotto tutti gli aspetti delle nostre vite (ride).
Se pensi alla scelta di rinunciare al canto in italiano per la lingua inglese, la rifaresti sempre, oppure pensi di dare ancora uno spiraglio al canto in italiano?
Guarda, dato che abbiamo cominciato da poco e io sono anche più giovane di Alfredo, non abbandono l’idea. Certo adesso sono fiera della scelta fatta, ma parallelamente sto lavorando come autrice di testi (restando nell’anonimato), quindi mi tengo allenata. Sicuramente farò uscire un mio progetto solista, non so sotto quale forma perché evito una filosofia arrivista: non mi interessa diventare la più ascoltata in Italia, bensì lo faccio per piacere di comunicare. Quindi non so quando, se quest’anno o il prossimo, ma non rinuncerò a questa cosa. Alfredo, invece, non ha mai scritto in italiano e non penso voglia farlo. Non penso lui tornerà mai indietro. Inoltre, Yombe è un progetto che ha bisogno di molta fiducia e lentezza, che malgrado i suoi successi, come l’essere entrato nelle playlist di Spotify Uk e fare la Boiler Room Tv, non desta molto scalpore in Italia. Sono traguardi importanti per noi, che non abbiamo mai messo piede all’estero per fare promozione. Poi c’è anche da dire che non abbiamo questa fretta di un successo immediato. Vogliamo crescere e il prodotto va ancora raffinato. Però ci rendiamo conto che per l’ambiente radiofonico italiano la nostra musica non è proprio recepita.
Come vi spiegate questa mancanza di feedback da parte delle radio italiane? Il vostro genere non è comunque così ostico.
Purtroppo, rispetto ad altri progetti cantati in inglese, abbiamo un mood più oscuro. Ho una voce abbastanza profonda per gli standard radiofonici, non siamo proprio adatti alla tazza di tè delle radio italiane, ma su alcune emittenti inglesi siamo anche passati. Quindi è un discorso di gestione editoriale che, possiamo dirlo serenamente, in Italia è molto omologata. Però possiamo dire di essere molto felici che Massimo Oldani ci passi anche così spesso, che Radio 2 ci supporti.
Restando nell’ombra però, state riuscendo a preservare un certo carattere.
La nostra speranza è che il pubblico ci raggiunga col tempo. Aprirsi a delle correnti stilistiche e delle sonorità differenti può fare solo bene a un paese che si ammazza di cultura trash, senza far adeguare per forza il progetto agli standard di mercato e finire per non dire più un cavolo di niente. Quando ti adegui troppo, finisce sempre che a perderci è il tuo progetto che diventa incapace di comunicare qualcosa di sensato, al meno che non sei i Coldplay, in quel caso le fai tu le logiche di mercato (ride).
Parlando di influenze e ispirazioni per la realizzazione di “GOOOd”, mi sembra che tu e Alfredo seguiate strade parallele, ma d’altronde anche distanti. Sbaglio?
Abbiamo molti ascolti in comune, ma anche ascolti molto diversi. Spesso facciamo attenzione a cose differenti, finendo per completarci. Io faccio molta attenzione ai testi, quindi ovvio che quando dico di aver ascoltato il disco di Frank Ocean, intendo che conosco tutto l’album a memoria. Approfondisco tantissimo gli autori soprattutto tramite la lettura, perché sono una secchiona totale, mi ammazzo di libri di filosofia e letteratura. Io ho approfondito un certo tipo di sonorità e di linguaggi in particolare con i dischi di Solange, di Kelela apprezzo molto alcuni brani, ma la sua dialettica non tantissimo. Invece ho amato molto l’ultimo disco di SZA, quello dedicato interamente alla madre, per me uno degli album migliori del 2017, almeno per il mio modo di essere. Mentre Alfredo è più uno studioso dei suoni. Torna indietro nel tempo; adesso, ad esempio, sta ascoltando moltissimo il disco dei BadBadNotGood, superbianchi jazzisti che però hanno linee di basso e ritmiche assolutamente interessanti e sono un’ottima ispirazione poiché mancano di forma-canzone, aiutandoti a non essere banale quando vai a costruire il tuo sound.
Dunque, sicuramente seguiamo molto la musica nera, ma anche altro che presenti sonorità calde e magnetiche dell’r&b e del soul. Inoltre, io essendo cresciuta a pane e Notwist, prendo molto anche da quel cosmo nord-europeo, adoro il loro modo di essere sintetici nelle immagini liriche, tant’è che spesso mi dicono che ho una scrittura molto maschile. E questo non posso negarlo, ma anche perché ascolto soprattutto uomini e comunque tendo a parlare in maniera molto oscura delle cose, che è una cosa rara nell’r&b a voce femminile, dove le donne parlano per lo più di relazioni interpersonali, di parti del corpo femminili (vedi Solange e i capelli). Io no, sono molto più cerebrale e spesso i miei testi sembrano più scritti da un uomo che da una donna.
Ho letto di un vostro particolare legame con Ghemon, che vi ha scelti come band d’apertura di alcune due date. Com’è nata questa collaborazione? Pensi che in futuro si possa raggiungere anche un brano realizzato insieme, visto che avete intenti artistici molto affini, in particolare nello sguardo sempre rivolto alle tendenze della musica estera?
Ghemon, per fortuna, è stato lui stesso a sceglierci. Dico per fortuna, perché siamo suoi fan, nel senso che io nell’ambito r&b italiano ascolto moltissimo due artisti: uno è Neffa (e i Messaggeri della Dopa), e l’altro è Ghemon. A partire da "ORCHIdee" l’ho scoperto e me ne sono innamorata. Lui, poi, ci ha trovato e senza alcun doppio fine. È una persona stupenda, ci ha scelto per condividere il palco con persone che facciano cose che lui apprezzi davvero. Ci ha dato un attestato di stima e ci ha chiesto di seguirlo in tour. Il parallelo che fai è giustissimo, è uno degli artisti dallo sguardo più internazionale che conosco nel mainstream italiano, come lo fu anche Neffa negli anni 90, e ha avuto l’intelligenza di esprimersi in italiano, lingua che lui adopera benissimo. La collaborazione è nata in maniera spontanea, e non è da escludere che se avrà voglia di creare qualcosa con noi (o noi avremo voglia di creare qualcosa con lui) sicuramente lavoreremmo bene insieme.
Se nel futuro doveste trovarvi a scegliere tra investire in direzione del mercato estero o verso quello italiano, quale sarebbe la vostra propensione?
Non abbiamo proprio un piano a riguardo, perché quando abbiamo provato a pensarci abbiamo compreso che creava solo tensione e malumori. Il disco è proprio un tentativo di esorcizzare questo, il tentativo di essere buoni in qualcosa: questo è il senso del disco. Buoni abbastanza da superare l’ostacolo della lingua, buoni abbastanza da pensare all’estero e stare con un piede fuori dall’Italia, trascurando le tue origini. Proprio per evitare di incatenarci a certe logiche di arrivismo, abbiamo deciso di pensarci troppo. Quindi, siamo aperti a ogni scenario futuro. Che ci apprezzino prima in Italia o - come sta accadendo - prima all’estero, noi non discriminiamo nulla e non abbiamo una preferenza. L’aspetto più bello di questo lavoro è proprio la condivisione: lo stare insieme sul palco, la comunicazione fatta non solo di parole ma anche di musica, il creare legami. Per quanto possa essere banale, la musica resta un linguaggio universale, ed è soprattutto per quello che lo facciamo. Per questo motivo, confermo che adesso non abbiamo un piano preciso, siamo aperti al futuro.
L’esperienza coi Fitness Forever risale a circa quattro anni fa, io avevo appena compiuto vent’anni. Personalmente, ho cominciato a suonare proprio nei Fitness e poi con loro sono stata due anni alla chitarra elettrica e come corista, mentre Alfredo era il tastierista e “tuttofare”, che di tanto in tanto suonava chitarre e altro. Abbiamo militato nei Fitness Forever fino a che abbiamo deciso di fare altro, e il progetto Yombe è nato un po’ per puro caso. L’idea è scaturita a Milano quasi per gioco. Alfredo faceva il turnista di Colapesce, nel frattempo io stavo lavorando al mio disco in italiano. Ora, nella mia forma mentis, le cose in italiano hanno bisogno di tempi di lavorazioni molto più lunghi per vedere la luce, quindi, intanto io e Alfredo cominciammo registrare altre cose. Da queste sessioni venne fuori Yombe, cominciammo a far uscire qualcosa e subito è diventata una cosa molto più seria di quanto ci aspettavamo. Abbiamo firmato un contratto molto presto, preso contatti con emittenti radiofoniche interessate al progetto, anche alcune radio inglesi ci hanno contattato; insomma, è diventato in breve qualcosa di molto più impegnativo. Adesso ci ha assorbito totalmente, sotto tutti gli aspetti delle nostre vite (ride).
Se pensi alla scelta di rinunciare al canto in italiano per la lingua inglese, la rifaresti sempre, oppure pensi di dare ancora uno spiraglio al canto in italiano?
Guarda, dato che abbiamo cominciato da poco e io sono anche più giovane di Alfredo, non abbandono l’idea. Certo adesso sono fiera della scelta fatta, ma parallelamente sto lavorando come autrice di testi (restando nell’anonimato), quindi mi tengo allenata. Sicuramente farò uscire un mio progetto solista, non so sotto quale forma perché evito una filosofia arrivista: non mi interessa diventare la più ascoltata in Italia, bensì lo faccio per piacere di comunicare. Quindi non so quando, se quest’anno o il prossimo, ma non rinuncerò a questa cosa. Alfredo, invece, non ha mai scritto in italiano e non penso voglia farlo. Non penso lui tornerà mai indietro. Inoltre, Yombe è un progetto che ha bisogno di molta fiducia e lentezza, che malgrado i suoi successi, come l’essere entrato nelle playlist di Spotify Uk e fare la Boiler Room Tv, non desta molto scalpore in Italia. Sono traguardi importanti per noi, che non abbiamo mai messo piede all’estero per fare promozione. Poi c’è anche da dire che non abbiamo questa fretta di un successo immediato. Vogliamo crescere e il prodotto va ancora raffinato. Però ci rendiamo conto che per l’ambiente radiofonico italiano la nostra musica non è proprio recepita.
Come vi spiegate questa mancanza di feedback da parte delle radio italiane? Il vostro genere non è comunque così ostico.
Purtroppo, rispetto ad altri progetti cantati in inglese, abbiamo un mood più oscuro. Ho una voce abbastanza profonda per gli standard radiofonici, non siamo proprio adatti alla tazza di tè delle radio italiane, ma su alcune emittenti inglesi siamo anche passati. Quindi è un discorso di gestione editoriale che, possiamo dirlo serenamente, in Italia è molto omologata. Però possiamo dire di essere molto felici che Massimo Oldani ci passi anche così spesso, che Radio 2 ci supporti.
Restando nell’ombra però, state riuscendo a preservare un certo carattere.
La nostra speranza è che il pubblico ci raggiunga col tempo. Aprirsi a delle correnti stilistiche e delle sonorità differenti può fare solo bene a un paese che si ammazza di cultura trash, senza far adeguare per forza il progetto agli standard di mercato e finire per non dire più un cavolo di niente. Quando ti adegui troppo, finisce sempre che a perderci è il tuo progetto che diventa incapace di comunicare qualcosa di sensato, al meno che non sei i Coldplay, in quel caso le fai tu le logiche di mercato (ride).
Parlando di influenze e ispirazioni per la realizzazione di “GOOOd”, mi sembra che tu e Alfredo seguiate strade parallele, ma d’altronde anche distanti. Sbaglio?
Abbiamo molti ascolti in comune, ma anche ascolti molto diversi. Spesso facciamo attenzione a cose differenti, finendo per completarci. Io faccio molta attenzione ai testi, quindi ovvio che quando dico di aver ascoltato il disco di Frank Ocean, intendo che conosco tutto l’album a memoria. Approfondisco tantissimo gli autori soprattutto tramite la lettura, perché sono una secchiona totale, mi ammazzo di libri di filosofia e letteratura. Io ho approfondito un certo tipo di sonorità e di linguaggi in particolare con i dischi di Solange, di Kelela apprezzo molto alcuni brani, ma la sua dialettica non tantissimo. Invece ho amato molto l’ultimo disco di SZA, quello dedicato interamente alla madre, per me uno degli album migliori del 2017, almeno per il mio modo di essere. Mentre Alfredo è più uno studioso dei suoni. Torna indietro nel tempo; adesso, ad esempio, sta ascoltando moltissimo il disco dei BadBadNotGood, superbianchi jazzisti che però hanno linee di basso e ritmiche assolutamente interessanti e sono un’ottima ispirazione poiché mancano di forma-canzone, aiutandoti a non essere banale quando vai a costruire il tuo sound.
Dunque, sicuramente seguiamo molto la musica nera, ma anche altro che presenti sonorità calde e magnetiche dell’r&b e del soul. Inoltre, io essendo cresciuta a pane e Notwist, prendo molto anche da quel cosmo nord-europeo, adoro il loro modo di essere sintetici nelle immagini liriche, tant’è che spesso mi dicono che ho una scrittura molto maschile. E questo non posso negarlo, ma anche perché ascolto soprattutto uomini e comunque tendo a parlare in maniera molto oscura delle cose, che è una cosa rara nell’r&b a voce femminile, dove le donne parlano per lo più di relazioni interpersonali, di parti del corpo femminili (vedi Solange e i capelli). Io no, sono molto più cerebrale e spesso i miei testi sembrano più scritti da un uomo che da una donna.
Ho letto di un vostro particolare legame con Ghemon, che vi ha scelti come band d’apertura di alcune due date. Com’è nata questa collaborazione? Pensi che in futuro si possa raggiungere anche un brano realizzato insieme, visto che avete intenti artistici molto affini, in particolare nello sguardo sempre rivolto alle tendenze della musica estera?
Ghemon, per fortuna, è stato lui stesso a sceglierci. Dico per fortuna, perché siamo suoi fan, nel senso che io nell’ambito r&b italiano ascolto moltissimo due artisti: uno è Neffa (e i Messaggeri della Dopa), e l’altro è Ghemon. A partire da "ORCHIdee" l’ho scoperto e me ne sono innamorata. Lui, poi, ci ha trovato e senza alcun doppio fine. È una persona stupenda, ci ha scelto per condividere il palco con persone che facciano cose che lui apprezzi davvero. Ci ha dato un attestato di stima e ci ha chiesto di seguirlo in tour. Il parallelo che fai è giustissimo, è uno degli artisti dallo sguardo più internazionale che conosco nel mainstream italiano, come lo fu anche Neffa negli anni 90, e ha avuto l’intelligenza di esprimersi in italiano, lingua che lui adopera benissimo. La collaborazione è nata in maniera spontanea, e non è da escludere che se avrà voglia di creare qualcosa con noi (o noi avremo voglia di creare qualcosa con lui) sicuramente lavoreremmo bene insieme.
Se nel futuro doveste trovarvi a scegliere tra investire in direzione del mercato estero o verso quello italiano, quale sarebbe la vostra propensione?
Non abbiamo proprio un piano a riguardo, perché quando abbiamo provato a pensarci abbiamo compreso che creava solo tensione e malumori. Il disco è proprio un tentativo di esorcizzare questo, il tentativo di essere buoni in qualcosa: questo è il senso del disco. Buoni abbastanza da superare l’ostacolo della lingua, buoni abbastanza da pensare all’estero e stare con un piede fuori dall’Italia, trascurando le tue origini. Proprio per evitare di incatenarci a certe logiche di arrivismo, abbiamo deciso di pensarci troppo. Quindi, siamo aperti a ogni scenario futuro. Che ci apprezzino prima in Italia o - come sta accadendo - prima all’estero, noi non discriminiamo nulla e non abbiamo una preferenza. L’aspetto più bello di questo lavoro è proprio la condivisione: lo stare insieme sul palco, la comunicazione fatta non solo di parole ma anche di musica, il creare legami. Per quanto possa essere banale, la musica resta un linguaggio universale, ed è soprattutto per quello che lo facciamo. Per questo motivo, confermo che adesso non abbiamo un piano preciso, siamo aperti al futuro.