Il "kraut-rock" è stato molte cose insieme: tentazioni "cosmiche", destrutturazione, sperimentazione oltraggiosa e iconoclasta, riappropriazione del caos, ora lasciato ribollire nella sua magmatica eterogeneità, ora ricondotto verso "forme" più o meno capaci di arginarne la potenza corrosiva. In quel periodo - tra la fine degli anni 60 e l'inizio dei 70 - la Germania non è certamente, dal punto di vista sociale, un posticino tranquillo: con il movimento Baader-Meinhof nasce ufficialmente il terrorismo occidentale, destinato a incidere profondamente sul già precario equilibrio europeo. Ma in campo musicale, i teutonici non sono certamente da meno, grazie alla proliferazione di veri e propri "terroristi sonici", cresciuti nella luce abbagliante di sua maestà Karlheinz Stockausen, e raccolti sotto un unico fenomeno artistico e ideologico dal critico musicale Rolf Ulrich Kaiser.
Dopo i fuochi minacciosi del festival di Essen, anno di grazia 1968, il rock tedesco inizia la sua esaltante epopea: band quali Can, Neu!, Kraftwerk, Faust e Amon Duul II diventano, in un breve lasso di tempo, dei punti di riferimento obbligati per tutti quelli che stanno operando in vista di un rapporto artisticamente valido tra lo spirito ribelle del rock e l'impeto rivoluzionario dell'avanguardia. I Velvet Underground, sull'altra sponda dell'Atlantico, avevano già raggiunto, in questa direzione, risultati eccezionali e, sotto certi aspetti, irripetibili. Ma, adesso, bisognava rovistare ulteriormente il fondo del baratro, alla ricerca di strade sempre meno percorribili, e, per questo, sempre più intriganti e "sublimi".
Si parlava, dunque, di "terroristi sonici". Bene, nessuna band è stata più dedita alla causa dei Faust, nati quasi per scherzo ad Amburgo nel 1969. Nelle sue fila militarono Rudolf Sossna (chitarra, tastiere), Arnulf Meifert (batteria -sostituito, dopo il primo album, da Werner "Zappi" Diermaier), Jean-Hervè Peron (basso), Hans-Joachim Irmler (organo) e Gunther Wusthoff (sintetizzatore, sassofono).
Non avevano venduto l'anima al diavolo; l'avevano soltanto data in prestito al caos, alla follia, ricevendo in cambio la capacità di costruire una musica "terribile" sotto ogni punto di vista, un collage espressionista dalle fosche tinte tragiche. La loro "ideologia dell'assurdo", innestata su di una struttura armonica dissennata e pregna di fondali "concreti", condusse definitivamente la musica popolare verso la sublimazione ultima, verso il punto di non ritorno. Dopo di loro, niente sarà più come prima - e, allora, non si esagera nel ritenerli, insieme con i Velvet Underground (e forse più di loro), la band più influente e creativa di tutti i tempi; con la differenza, però, che, ancora oggi, i Faust sono, per molti, se non per moltissimi addetti ai lavori, una realtà ancora misconosciuta, se non del tutto ignorata. Ma c'è sempre tempo per rimediare, magari evitando di perseverare nell'errore di lasciare che questo loro primo (e più grande) capolavoro continui a impolverarsi tra gli scaffali del vostro pusher di fiducia. Sarebbe davvero un peccato, in primis per quella copertina che dire "leggendaria" è dire poco: uno dei simboli più eccezionali del rock, un vero e proprio colpo di genio (il primo). Poi, per la meravigliosa lungimiranza della proposta musicale, ancora oggi non del tutto assorbita (forse perché avulsa da ogni "temporalizzazione").
Sono tre i "momenti" (non si può osare definirli "canzoni") in cui si divide l'album: "Why Don't You Eat Carrots?", "Meadow Meal" e "Miss Fortune". Ognuno di loro rappresenta un diverso punto di vista da cui scorgere la tragedia umana, l'affannosa ricerca di un armonia non più "metafisica", ma immanente al mondo. Ma questa ricerca è lastricata di disordine e di false apparenze: non esiste più bellezza esteticamente conciliabile con i consueti canoni di equilibrio e di simmetria. Essa si è trasformata nel suo opposto, la bellezza come "attimo eccessivo", "dirompente", e, per questo, sempre rischiosamente "fallace", sempre più "originaria". L'immaginazione è finalmente al potere! La sua vittoria significa "libertà assoluta", nel senso di "essere senza difese nei confronti dell'Ignoto", la stessa zona d'ombra che l'espressionismo di Murnau o di Wiene avevano cercato di sondare dal punto di vista della "visione". Questa "visione", adesso, è diventata "ascolto", ed è per questo che il suono viene a galla con tutta la sua problematicità (vedi Stockausen): nei solchi di questo loro primo lavoro, i Faust concedono al suono la facoltà di poter mettere in scena la modernità, con tutto il suo carico di alienazione, angoscia, follia e speranza mai doma. Una messa in scena che è memore, oltretutto, anche dell'utopia wagneriana, probabilmente il momento contemporaneo di massimo "ascolto" dell'essenza originaria della musica come rappresentazione della tragedia umana.
Il synth distorto che apre "Why Don't You Eat Carrots?" è già l'emblema della loro arte: la sua "concretezza" è quasi insostenibile, come è insostenibile (per quanti avevano incensato un certo tipo di fare rock) l'effetto "straniante" che deriva dalle citazioni "dirette" di "(I Can't Get No) Satisfaction" degli Stones e di "All You Need Is Love" dei Beatles: come dire… tutto ciò che è stato, e non sarà più…
La paurosa dissoluzione formale, memore del grido ribelle del Dada, prosegue con alcuni accordi di piano, una marcia circense con succulenti sapori zappiani, fiati vagamente imparentati col jazz, un ritmo circolare stile Pink Floyd di "A Saucerful Of Secrets", voci recitanti, sibili astrali, e uno stupore senza fine: il nostro.
Il tapis roulant delle emozioni va avanti con i rumori e i fondali in chiaroscuro che introducono l'arpeggio di "Meadow Meal", trafitta da un cupo rimbombo metafisico. ll blues-rock galattico che segue sottrae smarrimento alle nostre menti, ma non in maniera adeguata, tanto da essere lasciate, poco dopo, in balia di un organo che elargisce, in mezzo a un temporale invernale, la sua lugubre, dolce preghiera alla notte.
Inzuppati fino al collo, si ha ancora il tempo per gettare uno sguardo attonito verso il fondo di queste paradossali tessiture musicali: si ha come l'impressione che, dietro l'apparente illogicità della loro struttura, esista pur sempre un messaggio. Ciò che percepiamo è una inquietudine estrema, ancora più terribile perché figlia del nostro essere uomini, della nostra inspiegabile volontà di tutto dominare, tutto rivelare. Il destino dell'umanità ha lo stesso afflato fragile e sconnesso di quell'organo teneramente lasciato risuonare in mezzo alla tempesta.
Si cerca, comunque, una strada che sia capace di tirarci fuori dalla gelida solitudine, dal torpore insostenibile del suo abbraccio invisibile. Questa strada è la spericolata corsa verso le stelle della prima parte di "Miss Fortune" (registrata dal vivo), propulsa dal battito ossessivo della batteria e sferzata da lancinanti distorsioni, fino alla catastrofica, quanto prevedibile, dissoluzione, dal cui clamore sboccia un silenzio inaspettato, sinistro; un silenzio in cui ancora vivacchiano germi di synth, accordi di piano quasi impercettibili e casuali rintocchi di piatti. Il folle che intona la sua sudicia cantilena si staglia simbolicamente su di uno sfondo vuoto, dove la voce riecheggia tra un accompagnamento ascendente di piano e singulti elettronici, preludio alla nuova, tumultuosa apoteosi percussiva, in cui sembra finalmente liberarsi tutta la tensione accumulata.
Ciò che resta, dopo tanto apocalittico baccanale, è il prodigioso gioco di specchi tra i rimasugli di quella voce straziata, gli accenni cabarettistici del piano, i cinguettii stridenti del synth e una declamazione meccanicamente devastata che, in mezzo a tanto delirio, ripete "explosion…und jetzt…jetzt". La recitazione a due voci di una fiaba medievale, con accompagnamento di chitarra, pone fine ad uno degli esperimenti musicali più sconvolgenti della storia del rock. Il primo e l'ultimo verso di questa fiaba, rispettivamente "are we supposed to be or not to be" e "nobody knows if it really happened", sono senza dubbio, le coordinate principali di questa esperienza estetica. La domanda posta dai Faust è la domanda che riassume millenni di interrogativi e di frustrazioni umane. Un'unica risposta sembra possibile: nessuno di noi può essere certo della sua esistenza. Nessuno di noi sa se tutto ciò che comunemente chiamiamo "vita" succeda davvero o se sia, piuttosto, per dirla con Calderòn de la Barca, soltanto un "sogno". La musica dei Faust si è fatta carico anche di quest'ultima possibilità.
29/10/2006