Psapp

Psapp

Toy-pop senza frontiere

Capaci di coniare uno stile unico e inconfondibile, gli Psapp, con il loro toy-pop, hanno catalizzato su di loro l'attenzione di molti appassionati, centrifugando sensibilità pop con una sperimentazione curiosa e peculiare

di Alessandro Biancalana

Contemporaneamente all’imperversare di correnti, influenze e stagioni, ci sono, nascoste nei meandri di un mercato musicale schizofrenico, band che escono fuori da certe logiche. Con musiche difficilmente catalogabili, che hanno nella loro essenza un’anima ribelle e rivoluzionaria. Limitandosi al periodo in cui ha esordito la formazione di cui andremo di parlare – il decennio a cavallo fra anni Novanta e Duemila – viene da citare gli islandesi múm, altro collettivo erroneamente associato alla corrente indietronica e glitch mentre erano in realtà un’essenza a sé stante a tratti capace di produrre musica eccezionale. Il breve ma intenso racconto che andremo a scoprire è quello di due persone il cui percorso non è per niente dissimile.

Galia Durant e Carim Classman sono cresciuti in contesti artisticamente differenti ma ugualmente stimolanti. Galia ha vissuto buona parte della sua vita in mezzo a dischi, libri e arte: la madre, infatti, è un’avida collazionatrice di vinili, mentre il padre ha una cattedra in storia dell'arte ed è un profondo conoscitore della musica indiana. Galia ha assorbito questa eterogeneità artistica, innamorandosi al contempo degli inni di pace di Woody Guthrie e della musica acid-jazz. A 8 anni ha iniziato a studiare pianoforte e violino - preferendo il suo vecchio Casio SK-8 del 1988 che tuttora gli Psapp continuano a usare - mentre qualche anno più tardi ha formato la sua prima band, i GO, con il fratello. Carim Classman si è formato musicalmente in Germania, collaborando con diversi studi di missaggio e registrazione, tra i quali quello di Colonia, dove ha avuto modo di conoscere gruppi come Einstürzende Neubauten e Die Toten Hosen. Ha avuto inoltre il privilegio di entrare e lavorare nel famoso Inner Space Studio, dando sfogo alla sua creatività componendo musica per conto suo. Sul finire degli anni Novanta si è trasferito a Londra, alternando alcuni lavori per sbarcare il lunario e la sua instancabile passione per la musica, prendendo alla fine la residenza in uno studio di King's Cross, utilizzato ancora oggi come base di riferimento degli Psapp.
L’incontro fra Galia e Carim avverrà da lì a poco e sarà un autentico colpo di fulmine artistico, per via della sintonia e del legame unici che li legheranno fin dall'inizio, come testimonia la frase a conclusione della loro biografia: "Psapp are, and always will be Carim Clasmann and Galia Durant".

psapp_testo_1L’esordio assoluto coincide con l’inclusione del brano “Scissory” nella compilation "Indoor Shed” del 2003 ed è il risultato di un anno di sperimentazioni e tentativi. In tale periodo la band – il cui nome viene deciso in questo frangente – inizia a spedire demo a svariate case discografiche, cercando di attirare l’attenzione con uno stile già ben caratterizzato da un'incredibile varietà di suoni e rumori provenienti per lo più da giocattoli, pupazzetti di gomma, strumenti per bambini (tra cui uno xilofono) e, più in generale, qualsiasi oggetto che faccia rumore (tra cui barattoli di latta e portacenere meccanici).
Nonostante l'ingenuità di alcuni esperimenti, è di fondamentale importanza ascoltare queste prime pubblicazioni per capire la genesi di un suono così peculiare. Data la preziosità di tali tracce, la Domino ha ben pensato nel 2005 di pubblicare una compilation con tutti i brani non inclusi negli album, nel doppio cd Early Cats And Tracks si possono trovare versioni cantate e strumentali di tutte le canzoni lasciate per strada nel triennio 2003-2005.

La preparazione al primo album viene preceduta da un percorso di avvicinamento fitto di pubblicazioni minori ma importanti per identificare un suono che da lì a poco si sarebbe definito del tutto. L'Ep di debutto, dal titolo Do Something Wrong, rilasciato per l'etichetta Melodic, risale a inizio 2003, seguito, nell'autunno dello stesso anno, dal singolo “Difficult Key”. In quel periodo il duo stringe un rapporto di amicizia con Robin Saville – già componente degli ISAN – il quale nell'inverno del 2004 pubblica con la sua etichetta personale, la Arable, l'Ep Buttons And War.

Nel frattempo, nel marzo 2004 esce per il mercato giapponese l'Ep Northdown (da segnalare le belle “Happy Lamb” e “Ice Weasel”), seguito a ruota da Rear Moth, un vinile di 4 tracce per l'etichetta Waiwya. Alcune di esse finiranno in Tiger, My Friend, uscito nel febbraio 2005 sempre per Arable. Questo album e i suoi suoni stimolano l’introduzione di un nuovo concetto che valorizzi l’utilizzo più “artigianale” della strumentazione contemporanea, potremmo infatti parlare di Digital Acoustic Music. Sono molti i gruppi che nell’approvvigionamento dell’elettronica ne alterano la struttura, tanto che termini come folktronica sono ormai di uso corrente, ma per gli Psapp, esploratori della musica a 360 gradi, il termine “D.A.M.” è più idoneo.
Sorprende la maturità espressiva che Galia Durant e Carim Clasmann esibiscono dopo pochi anni di esperienza, mostrando un'ispirazione sempre fresca e originale. Ricco di idee, come una scheggia impazzita dei Pram, il suono sposa elettronica e strumenti giocattolo esplorando tutti i canoni del pop d’autore con guizzi geniali e deliziosi.
Il trio di canzoni d’apertura celebra l’insieme di beat, pop, folk e profumi jazz, rivestiti con soluzioni postmoderne che coinvolgono loop, strumenti giocattolo, archi classicheggianti, su cui si erge un cantato sensuale e ricco di sfumature. In “Rear Moth” l’elettronica scomposta crea un incredibile effetto dreamy che si libera nel finale affidato al violino, mentre le vibrazioni di “Leaving In Coffins” aprono gli spazi alla ipnotica “Calm Down”, uno dei vertici dell’album.
Sicuramente i due momenti più creativi sono la rivisitazione della samba in “About Fun” e la geniale ricostruzione dei ritmi e delle sonorità della giungla di “King Kong”, mentre altre tracce di sperimentazione accompagnano la strana “Charter”. Incastonato come una perla tra le due ultime canzoni citate, compare “The Counter”, delicato brano con piano e glockenspiel che aggiunge ulteriore spessore a un disco sorprendente. Per finire da non dimenticare la struggente “Curuncula”, una marcetta pop fra note di chitarra come schegge e un cantato dolcissimo.

Gli Psapp già si segnalano come un gruppo capace di scrivere un capitolo nuovo della pop-music recente e Tiger, My Friend si dimostra un album meravigliosamente attuale, che dimostra la reale portata della loro proposta. I frutti di tali potenzialità arrivano alle orecchie giuste da lì a poco. In quei mesi le canzoni degli Psapp giungono all'attenzione dei discografici statunitensi, che vengono subito attratti dalle loro sonorità e decidono di utilizzarle in alcune serie tv: è così che “Cosy In The Rocket” - canzone che apparirà nel singolo Trycicle - viene scelta come sigla del telefilm "Grey's Anatomy", la cui prima puntata va in onda sulla Abc nel marzo del 2005.
Per la band iniziano ad aprirsi nuove porte e una serie di opportunità precluse fino a pochi anni prima.
Alla fine del 2005 inizia il loro primo tour di concerti live in Inghilterra e nel resto dell'Europa. Data la complessità della loro formula musicale, decidono di ricorrere a un aiuto ulteriore per imbastire delle performance dal vivo, ingaggiando Gwen Cheeseman (violino), Eshan Khadaroo (percussioni), Jim Whelan (basso e tastiere) e per finire Matt Jones agli effetti audio. Il successo di tale serie di concerti è immediato e la casa discografica Domino, notoriamente attenta alle realtà emergenti, mette sotto contratto il duo entro la fine dell'anno.

psapp_testo_2Carim e Galia arrivano al 2006 consapevoli delle loro abilità compositive, capaci al contempo di sfruttare fino in fondo una poliedricità innata e di slegarsi da ogni contesto musicale. In The Only Thing I Ever Wanted la loro musica è essenziale e preziosa, una forma-canzone che vive i suoi attimi di gloria fra un ritmo scomposto e una voce sbarazzina. L'elettronica che circonda spesso la struttura compositiva delle tracce è solo un elemento in più e non una presenza ingombrante. La loro formula è composta da vari elementi che di volta in volta si ibridano con naturalezza, plasmando canzoni raffinate, cesellando bozzetti di rara grazia. Le influenze da cui scaturisce questa musica ha come base il pop cantautorale, ma al tempo stesso si percepisce la forte volontà di creare disfunzioni all’interno della struttura-canzone classica. E perciò si sentono ritmi glitch, strumenti acustici fra i più disparati e campionamenti fantasiosi e improbabili.
Le iniziale “King Of You” e “Hi” possono dare l’idea di quanto scritto: se in una la partitura puramente glitch si collega con naturalezza al resto della canzone, aggiungendo elementi e arricchendo la sua struttura, la seconda è costruita su un groove altalenante e giocoso, dove la voce di Galia si dimostra matura e ombrosa, oscura e affascinante. In “This Way” concettualmente si rasenta accenni di trip-hop decostruito, mentre “Needle & Thread” è l'ennesima favoletta incantata, sommessa ed essenziale. La parte centrale del disco continua con “New Rubbers”, costruita intorno a poche linee di pianola amatoriale, appena incorniciate da un beat indolente e dal dolce suono degli archi. Una certa tendenza uptempo vivacizza l’atmosfera con “Trycicle” e soprattutto “The Words”, dove il ritmo caracollante si dissolve solo nei secondi finali.
La raffinatezza cantautorale si manifesta in “Hill Of Our Home”, che affianca a un esile beat sintetico beccheggiante il suono cristallino del pianoforte, supportato da un azzeccatissimo contrabbasso e da delicate percussioni jazzy; è questo il brano nel quale si rivela più evidente la vocazione degli Psapp verso avvolgenti ballate dal sapore classico, ma trasformate e rielaborate in un moderno contesto, non poi così distante dal folk malato e obliquo di band quali Tunng o Grizzly Bear, anche se qui ingentilito dalla voce della Durant e, in definitiva, molto più compunto.
A confermare la continua alternanza di momenti e sensazioni, provvedono poi i due minuti di sola voce e piano di “Make Up”, esattamente quello che non ci si attenderebbe in un album del genere: una ballata soffusa e minimale, nella quale l'ovattata sobrietà della voce dolce-amara della Durant carezza l'oscurità, rivelando un'intensità tale da collocarla al livello delle migliori “donne al piano” della musica d'oggi (il pensiero corre, inevitabile per quanto sorprendente, addirittura a Lisa Germano).
Ma, come quello dal sogno bucolico di “Hill Of Hour Home”, anche stavolta il risveglio giunge prontamente, con “Eating Spiders”, altra pop-song dondolante e ritmata, che pian piano digrada per lasciare il campo ai toni fiochi della sghemba ninnananna finale “Upstairs”, tutta imperniata sulle morbide chincaglierie elettroniche che hanno caratterizzato l'intero lavoro, qui decisamente virate alla pacatezza e alla nostalgia. Una sorta di malumore incantato fuoriesce da queste note essenziali e semplici, una canzone triste e gentile, timida e pensieriosa. Un soffio di dolore rassicurante.
Nel complesso, un album leggero, gradevole e traboccante di un accuratissimo gusto pop, che scioglie le elucubrazioni sonore in divertimenti elettronici mai pedanti né fini a se stessi, ma anzi calati in una cornice affascinante e raffinata, che sviluppa da vicino le intuizioni avanzate dei già citati Pram.

psapp_testo_3Dopo due anni di pausa creativa, il duo torna nel 2008 con una collezione di canzoni che è naturale evoluzione del precedente e sviluppa percorsi stilistici ancora una volta inediti. La capacità rigenerativa già dimostrata in passato dona alla loro musica potenzialità evolutive fuori dal comune. Ridotto drasticamente l’uso della toy-orchestra che in passato l'aveva resa celebre, la band in The Camel’s Back introduce un vago sapore mediterraneo, che contribuisce alla riuscita dell'operazione, tra profumi tropicalisti, arrangiamenti perfetti, voce e strumenti centellinati al grammo e una sottile elettronica decorativa. Una fanfara tinteggiata con colori a pastello che si rifà il trucco, ma non cambia programma.
Scomposti filamenti di canzone si perdono in mille rivoli, la musica ci guida nei dintorni di melodie ridotte all’osso, arricchite con fantasia e gusto, variando struttura compositiva nel corso delle dodici tracce. Appaiono spumeggianti intrecci fra campionamenti e chitarre imbizzarrite (“I Want That”, “The Monster Song”), lanciando un messaggio di innovazione chiaro e limpido. Canzoni d’altri tempi sfumano leggere e ombreggiate (la frizzante “Part Like Waves” e i pulpiti gentili della title track), le policromie fioccano copiose e aggiungono tasselli ineguagliabili (la gustosa “Fickle Ghost” e le bizzarrie di “Somewhere There Is A Record Of Our Actions” ).
Attraverso due strumentali al limite fra sperimentazione pop e sfumature danzanti (“Marshat” pare una marcetta, “Homicide” è sghemba e disorienta), ci tuffiamo con rigogliosa felicità nei meandri dello spettacolo fin qui giunto solo all’introduzione. Coretti da baracca balcanica si imbellettano con impercettibili linee elettroniche (“Fix It”), “Mister Ant” sboccia fra ritmi doppi e ritornelli micidiali, le emozioni sgorgano inarrestabili con un piano languido e accigliato (“Screws”).
Annunciando una conclusione a sorpresa, il regalo finale che la band ci concede si concretizza con la perfetta “Parker”, un vero capolavoro di arte pop applicata al ritmo, sfrontata quanto basta, capace di comporre un’ideale sonorizzazione per una festa campestre dominata da balli sconclusionati, trombe scintillanti, luci fioche e una luna calante.

Dopo sei anni molto intensi a livello di pubblicazioni e tour, la band decide di entrare in un periodo di temporanea ibernazione. Quella visione del pop fuori dai canoni, estroversa e fiabesca, torna solo dopo cinque lunghi anni. Come raccontano nella nostra intervista, i due non hanno mai accelerato i tempi, moderando i ritmi di pubblicazione e la quantità di musica prodotta anche in relazione alle esigenze personali (in quegli anni Galia è infatti diventata mamma). Tuttavia, cinque anni per una band contemporanea sono davvero tanti. Cosa sarà successo al magico toy-pop degli Psapp?

psapp_testo_4What Makes Us Glow ha l'arduo compito di fare da collante con il passato dopo un lungo periodo di assenza dalle scene, risultare attuale senza snaturare una formula vincente e possibilmente non essere ripetitivo. La buona notizia è che ci riesce egregiamente, la brutta è che dura troppo poco. La voce di Galia, le deliziose cromature, i ritmi mai domi, le stranezze della toy-orchestra: tutto è rimasto come prima senza risultare calligrafico o azzardato. Straordinaria coerenza, senso della misura e capacità tecniche smisurate sono solo alcune delle qualità che permettono a questo collettivo di mantenere una peculiarità che, possiamo dirlo senza dubbi, rimane saldamente intatta.
Trovare tratti distintivi a una giostrina sfavillante di tale finezza è una pratica masochistica al pari di dover distinguere i colori di un arcobaleno estivo. La forza degli Psapp non è l'assolo di chitarra o un sintetizzatore in solo, come gli acuti vocali. La vera carta vincente la troviamo in un suono complessivo sfaccettato, dove molti elementi, ognuno in egual misura, compongono pezzo per pezzo un unicum efficace e indistinguibile. Dunque, non una musica di singoli o di personalità emergenti, bensì il prodotto di una banda, di un gruppo, di una molteplicità.
Quando il carillon di “Wet Salt” prende il via tra xilofoni, chitarre, strumenti giocattolo e percussioni, inizia un viaggio fra le cantilene mistiche (“The Cruel, The Kind, And The Bad”, l'eleganza magniloquente di “That's The Spirit”), la gioiosità psichedelica degli episodi più sballati (le varie “Seven”, “In The Black”, “Your Hot Knife”) e le solite tendenze world-pop (sonorità e profumi arabeggianti in “Everything Belongs To The Sun” e “In And Out”). Dove la lentezza prende il sopravvento si scoprono lati più riflessivi (i deliziosi ritmi cadenzati di “Bone Marrow”, botta-risposta fra violino e tromba per “The Well And The Wall”), smorzando temporaneamente una rincorsa forsennata e irresistibile. Come manifesto del disco possiamo prendere la title track, sunto esaustivo di dodici tracce perennemente in bilico fra fantastico e fantasioso, mai stucchevoli, pronte a rimanere con i piedi per terra senza superare i limiti del buon gusto.

Tourists (2019) esce a distanza di sei anni dal precedente e conferma la regola per cui - come spiegato nell'intervista - gli Psapp hanno la tendenza a lasciar decantare l'ispirazione, senza l'ansia di pubblicare frequentemente.
Ciò che balza immediatamente all'orecchio ascoltando le prime tracce è il piglio minimalista: la maggior parte dei ritmi è compassata e il piano è lo strumento-cardine di gran parte delle canzoni, deviando il focus verso un suono diverso rispetto alla verve frizzante che caratterizza lo stile Psapp. Sia “uPVC” che “Glove” sono ballate crepuscolari con timbri dal sapore autunnale, sospese fra un vociare di sottofondo, un rullante leggermente accarezzato o note di piano solitarie. Sullo stesso tenore si attesta la bellissima “Vision”, che tinteggia delicati intrecci strumentali fra archi, piano e accenni di reticoli elettronici.
Per tornare su tonalità più vivaci bisogna ascoltare la coppia iniziale “Progress” e “Tourist”, dove si ritrova un brio rivitalizzante che tuttavia si integra perfettamente con il tono rilassato dell'album. A coadiuvare la varietà della scaletta contribuiscono simpatici strumentali sotto il minuto: in questi pochi scampoli di musica, gli Psapp danno sfogo a tutta la loro fantasia in materia di composizione sonora, mischiando abilmente elettronica e field recording (“Woods”, “Slippery” e “BIG”).
Andando avanti con l'ascolto non si può rimanere indifferenti a “Pieces”, forse il brano più rappresentativo di tutta la raccolta. L'incedere quasi tribale delle percussioni è screziato da vari campionamenti e fraseggi strumentali in cui la voce di Galia si incastra magnificamente in un andirivieni ipnotico, è inoltre interessante notare a un ascolto più attento quanti siano gli strati di cui è composta questa canzone. Riuscire a mascherare la complessità al servizio di una canzone pop è un traguardo che solo i migliori riescono a raggiungere.
Sul finire il disco si attesta su canoni qualitativi leggermente più standard (i sussurri digitali in “Land”, le acrobazie percussionistiche di “Work”), con “Orekche” ennesimo manifesto toy-pop. Di fatto il disco finisce come era iniziato: in “A Fit”, Galia Durant canta una dolcissima piano-song disturbata solo da un'increspatura digitale in sottofondo, un pezzo essenziale e dalla bellezza semplice e purissima.

Gli Psapp confermano per l'ennesima volta la natura puramente creativa del loro progetto musicale, slegata da qualsiasi esigenza produttiva o contrattuale, interamente focalizzata sulle idee e sull'urgenza di esprimersi attraverso la musica.
Tourists è un album che si inserisce in un percorso artistico la cui conclusione è per nostra fortuna molto lontana: il fervore del duo inglese è un fuoco mai domo, che animerà per molto tempo le nostre vite.

Contributi di Gianfranco Marmoro ("Tiger, My Friend") e Raffaello Russo ("The Only Thing I Ever Wanted")

Psapp

Discografia

Do Something Wrong EP(EP, Melodic, 2003)

7

Northdown(minialbum, Rallye, 2004)

7

Rear Moth(singolo, Where It's At Is Where You Are, 2004)

6

Buttons & War EP(EP, Arable, 2004)

7

Tiger, My Friend (Arable, 2004)

6,5

Early Cats And Tracks (compilation, Domino, 2005)7
Trycicle (singolo, Domino, 2006)

7

Hi (singolo, Domino, 2006)

6,5

The Only Thing I Ever Wanted(Domino, 2006)
7
The Monster Song(singolo, Domino, 2008)

6

The Camel's Back (Domino, 2008)

7,5

I Want That(singolo, Domino, 2013)6,5
What Makes Us Glow(The state51 Conspiracy, 2013)7,5
Tourists (The state51 Conspiracy, 2019)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Psapp su OndaRock