Ascoltare un disco piacevole è sempre una cosa per cui vale la
pena svegliarsi cinque minuti prima; a maggior ragione se in un mese tanto
intirizzito come questo gennaio brumoso e quasi tirato via. Cadono come gocce le
note stilizzate da questa autrice americana votata al quasi anonimato, schiva
come poche, erede e testimone di un folk-writing apparentemente sempre
sull'orlo del passatismo, ma tenacemente sempre in grado di riproporsi con
effetto, istrionico come i talentuosi - non sempre, per la verità -
autori/interpreti chiamati a farsi messaggeri per noi avidi ascoltatori. E tra
color che stan sospesi, indecisi se cedere alla tentazione di involgersi
completamente su se stessi o gridare la pena che hanno in corpo, un posto di
spessore lo occupa Nina Nastasia, che mentre correva l'anno del grande botto,
ossia il 2000, esordiva con l'album "Dogs", recentemente ristampato da Touch and
Go/Wide. Merito all'etichetta dunque, che ci permette di colmare una lacuna
musicale dovuta alla scarsissima tiratura dell'esordio, uscito (e subito
diventato rarità) per la Socialist Records.
Disco leggero, nel senso di
vellutato, che tuttavia si tiene ben lontano da certe esagerazioni cantautoriale
di cui oggidì si riempiono i banchi dei venditori di musica. Nina se la cava
bene con una voce che lascia sempre l'impressione di averla già ascoltata da
qualche parte, neanche fosse un marchio di fabbrica di chi, americana, si volge
alla professione di cantastorie. O forse a causa dell'altro marchio, quello
dell'ascoltatore che cerca sempre di scovare, per far vedere di aver capito un
disco, i giusti accostamenti, gli opportuni riferimenti, le inequivocabili
filiazioni. Magari in un altro mondo musicale, peggiore o migliore di questo, le
cose andrebbero diversamente, ma in questa terra di note nessuno prescinde
dall' humus culturale (musicale in questo caso) in cui è cresciuto e,
vuoi per tacito omaggio, vuoi per ineluttabile sedimentazione, infarcisce di
citazioni il proprio lavoro. Così fa Nina, che tuttavia appare abile nel
filtrare tale retroterra e rielaborarlo grazie alla propria sensibilità di
ragazza scarna nei lineamenti e nell'arte, tesa e dura come chi si prepara ad
andare a chiudersi in camerino e lì, finalmente, sfogarsi col pianto negatosi
sul palco.
C'è una sorta di primo gruppo: i tre brani iniziali, che ci
introducono nella dimensione più cantilenante dell'autrice. Minimale, ci si
presenta il suo fare musica; cadenzato, accennato e ridondante come una vecchia
filastrocca che ti viene in mente di intonare mentre passeggi in mezzo ai campi,
rivedendo il volto rugoso di una nonna che a te la cantava e che ora non c'è
più. Evidente, questo, soprattutto in "Dear Rose" e in "Oblivion". "Judy's In
The Sandbox" fa quasi da trait d'union con quanto verrà dopo.
A una
prima parte abbondante, in cui ricorre la medesima atmosfera, pare accostarsi un
cambiamento d'umore e di suono. Non più aggressivo, ma meno intimo sì. Si
sentono gli archi, in un modo che non t'aspetteresti, e il brano si spegne con
un'ossessiva quanto sgraziato balbettio vocale. E ciò preannuncia "Underground",
il pezzo che forse più occhieggia al rock e che lascia l'impressione di
ascoltare qualcuno che, pur volendo contenersi, non vi riesca e cede ad attimi
di sfogo a lungo sopiti. I campi ci sono ancora, ma forse da ovest sale qualche
nuvola. E Nina l'acquieta col sogno.
"Dogs", pezzo intenso e visionario,
malinconico e nostalgico di una vita diversa. Musicalmente completo e simile al
precedente, testimone d'una poetica quasi bucolica. Questi due brani fanno in
modo che Nina, tornando a richiudersi in sé con "A Love Song", abbia perduto
l'innocenza e la tranquillità dell'inizio del disco.
Permane una forte
immaginazione, così anche nella successiva, struggente "Stormy Weather", venata
di pessimismo e in "Smiley", quasi un dialogo interiore dell'autrice, che
stavolta pare voler distruggere da dentro la cantilena che, nel bene e nel male,
sempre l'ha accompagnata. Tanto che nei due brani successivi ("Roadkill" e
"Nobody Knew Her") pare urlare tale nuova situazione eversiva: "I'm Feeling
Myself Against The Ground" e "I Want To Get Out Of Here".
Non si
discostano le ultime tracce da quanto detto finora. La spinta visionaria rimane,
seppur non sempre vivida. Paiono bozzetti aggiunti, incollati, per cavalcare
l'onda (ipotesi negativa) o per effettivo bisogno (ipotesi positiva). La voce,
comunque, continua a piacere e certa malinconia non ne vuol sapere di staccarsi
di dosso ad ogni ascolto, e, colpetto dopo colpetto, ti entra dentro. Ma è come
dice Nina, chiudendo il disco: "I know it's important to feel justified, I know
you thought everything would be much easier".
12/12/2006
1. Dear Rose
2. Oblivion
3. Judy's in the sandbox
4. Underground
5. A dog's life
6. A love song
7. Stormy weather
8. Smiley
9. Roadkill
10. Nobody knew her
11. Too much in between
12. Jimmy's rose tattoo
13. The long walk
14. All your life
15. 4 yrs