Deadbeat

New World Observer

2005 (Scape)
trip-hop

Menti imbarcate su un treno merci per Vladivostock, in composizioni senza fine.
DeadBeat è un progetto arenato su un trip-hop/dub molto canonico, rivolto a chi vuol divagare senza mitigare la frustrazione di un ascolto assillante. Il santone è Scott Monteith, già attivissimo a Montreal, segnalatosi col decente "Wild Life Documentaries" nel 2002 e amico di guru come Akufen. Le sue "partiture" sono classiche, infinite, ripetitive, in corsa contro l'eternità, quella noiosa. Dieci tracce per 61 minuti e passa, e non se ne capisce mai a fondo il motivo. Gli ovvi riferimenti (Tricky, certi Massive Attack, in ultima istanza LKJ) vengono presi e allungati come il didò, le basi incagliate su colpi al metronomo, le melodie ridotte a deboli palliativi. Tutto è incredibilmente fuori dal tempo, quasi a battere sulla telescrivente parole di altre epoche, di altre geografie, in un'azione fascinosa e compassionevole. Magari esisteranno sera adatta o momento giusto, l'importante è disperarsi ora per risollevarsi (eventualmente) poi.

Musica sfiancante, dicevo, musica che gira attorno al nostro cerchio senza segnarsi il punto di partenza. O meglio, lo scorge in un titolo che è tutto un programma: "Slow Rot From Rhetoric". Si stacca un "campione", si solleva il tappeto e scende polvere su polvere. Pause in downtempo, sintetizzatori in fila con due note, vecchi campionamenti di crash e via col sogno che turba, non proprio un incubo.

Una chance si dà a "Port-Au-Prince", abbellita con timide chitarre samba sotto cui si perpetuano ancor più teneri breakbeat, mentre tutt'intorno canta Athésia, con voce sì sensuale, ma monocromatica. La chanteuse si ripresenta in "N'Importe Quoi", classico rituale da "viaggio" intriso di presunte "riflessioni", in "Time Is Passing Slowly", ancora molto legata al riverbero, seppure nitida, spossante e quasi recitata con sospiri, infine in "Ruination", che fatica a mostrare le sue differenze dal resto. Un poco si osa in "Abu Ghraib", fotografia di un ambiente spogliato dei lividi di gloria. Si osa, perché il filo non si spezza, il ritmo cesella ritratti di continuità, il termine non si desidera. Non compaiono picchi di stanchezza e tutto è più semplice, ferma restando l'idea di plastica che fa della lista un agglomerato massimale. E' sempre dub, ma almeno senza flebo. Con "Little Town Of Bethlehem" si giunge al bivio con la sacralità, ben espressa dal titolo. Voci radio in onda a mo' di annunciazione, sempreverdi (?) sei corde da pop sofisticato e jazzy, titubanti cavalcate desertiche.
E' solo uno specchio dentro cui è riflessa una barba bianca, mai tagliata.

20/05/2013

Tracklist

  1. Slow Rot From Rhetoric
  2. Port-Au-Prince
  3. N'Importe Quoi
  4. Abu Ghraib
  5. Texas Tea
  6. Little Town Of Bethlehem
  7. Tim Is Passing Slowly
  8. Rock Of Ages
  9. Ruination
  10. Habitat For Heavy Hearts

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