Apri la "scatola musicale" degli Oneida e ci trovi la sorpresa.
"The Wedding" è infatti in primo luogo il prodotto della "music box più grande della East Coast", come l'hanno definita. Una collezione di diavolerie d'ogni sorta allestita dal gruppo in un magazzino di New York: tavole di compensato, pezzi di vecchi marchingegni industriali, ingranaggi navali abbandonati e più di 70 lame di sega da sfrigolare su una varietà di chiodi e spuntoni metallici solo azionando la manovella di una macchina.
Ma - come si diceva - la "scatola" contiene sorprese, e che sorprese!
Nonostante il minaccioso armamentario, infatti, gli hooligan psichedelici di "Each One Teach One" sterzano inaspettatamente verso la melodia, sfoderando persino una sezione d'archi, arrangiata da Brian Coughlin (musicista d'avanguardia e leader dei Fireworks Ensemble).
Una conversione sulla via di Damasco o una trovata per sfuggire all'incipiente inaridimento creativo, malcelato dal precedente "Secret Wars"? Forse, più semplicemente, il quartetto di Brooklyn ha voluto tener fede a una promessa...
Quando uscì "Secret Wars", infatti, gli Oneida annunciarono che l'album successivo sarebbe stato "un capolavoro pop barocco" al quale stavano lavorando fin dal 2001. "Un disco fatto di ritornelli che fanno bene al cuore". Il batterista Kid Millions si era spinto più in là: "Saranno i Left Banke che suonano come una macchina". Fatto sta che le loro jam epilettiche si sono di colpo "ristrette" in canzoni brevi (salvo i 7 minuti di delirio space-blues di "The Beginning Is Nigh"), seppur sempre attraversate da lampi d'allucinazioni.
Certo che dopo aver spinto il tasto "play", l'impressione è di aver inserito nel lettore il cd sbagliato...
Parte "The Eiger", infatti, e sembra quasi di ascoltare Hanoi Jane declamare un sonetto shakespeariano accompagnato da una orchestra da camera.
Sarà uno scherzo? Forse sì, perché arriva subito "Lavender" a riportare in scena gli Oneida di "Each One Teach One": i riff aggressivi di chitarra, gli assalti del drumming, il barrage di tastiere e il canto sgraziato danno forma a un incubo nel solco della migliore new wave.
Ma c'è qualcosa di ancora più "antico" nella musica dei quattro garage-rocker che hanno voluto prendere il nome di una tribù indiana. Qualcosa che riporta in vita lo spirito più "deviato" della psichedelia (richiamata anche dal disegno in copertina), del prog e del kraut-rock degli anni d'oro.
Qualcosa che assume i contorni della liturgia orientaleggiante di "Spirits", con il suo andamento lento da cerimoniale velvettiano tra minacciose volute d'organo, tintinnii di campanelli e un cupo mantra chitarristico, o della ancor più solenne "Heavenly Choir", scandita dal drumming squadrato e dai riff acuminati di chitarra.
Quando è poi il registro surreale a prendere il sopravvento, ci si può imbattere nel videogame per synth e organetti impazziti di "High Life" o nella marcetta ubriaca per archi di "Know".
E, al culmine della tensione, si finisce invischiati nel pastiche sulfureo di "Did I Die", che parte Black Sabbath, con le chitarre che grattano i nervi, e deraglia in un imprevedibile epilogo krauto.
Sono brani d'indubbio fascino ipnotico, costruiti su (dis)armonie fosche e malate che fanno del barocchismo delle intenzioni più un'esasperazione grottesca che un fatuo orpello. Ascoltare per credere anche la gag folktronica di "Run Through My Air", coi suoi tronfi arpeggi acustici.
Altre volte, però, sembra che gli Oneida non sappiano ancora maneggiare con padronanza la nuova materia sonora, come quando tentano di clonare i tardi Mercury Rev ("You're Drifting", intonata da Jane in un registro trasognato alla Donahue su un sottofondo di gorgoglii elettronici, e "Charlemagne", con una vocina psichedelica in una giostra di synth e violini) o si producono in abulici bozzetti folk (la conclusiva "August Morning Haze").
Diciamola tutta, però: gli Oneida rischiavano di diventare la classica band indie pseudo-intellettuale, rinchiusa nella sua torre d'avorio e venerata da una setta di cacofonisti snob.
Potevano campare di rendita per una vita su un disco come "Each One Teach One".
Invece, hanno voluto "sporcarsi le mani" con violini e ritornelli.
Non sarà "un capolavoro pop barocco" e resterà forse un episodio isolato nella loro discografia, ma "The Wedding" è il disco di una band di valore.