Ritrovare la nostra cara Colleen dopo quel meraviglioso capolavoro di "The Golden Morning Breaks" è un’emozione forte. Un’emozione che scaturisce dall’incontro ravvicinato con quella incantevole fragilità, con quel sotterraneo candore che rendono l’ascolto dei suoi dischi sempre un’esperienza totalizzante.
Registrate nel 2004 negli studi della stazione radio olandese Vpro, queste sette composizioni (ognuna basata sulle sonorità di uno strumento, tra cui la cetra tirolese, l’ukulele, la chitarra classica e il violoncello) sono il contributo dell’artista francese per la serie "Mort Aux Vaches".
E, ancora una volta, trattasi di una prova di grande spessore che, pur non raggiungendo le vette del suo predecessore, testimonia la maestria della musicista francese nel ricreare atmosfere di rara intensità, capaci di farci scivolare, nostro malgrado, in un dormiveglia sospeso, dove i volti, le voci, le cose che pensavamo di aver perso per sempre hanno scelto, nonostante tutto, di restarci accanto, seguendoci come un’ombra sottile.
Lo avverti, ne hai la viva sensazione, come quando, chiuso in una stanza vuota, senti risuonare un carillon e immagini le sue note tramutarsi in cristalli, oppure in lucciole che attraversano il vuoto e sibilano una tragica ninna-nanna ("A Little Mechanical Waltz").
La profondità lungo cui si disperde la musica è il vortice invisibile dei nostri ricordi, il fondo abissale che c’accoglie, poco alla volta, mentre ci consumiamo ("The Zither Song"). Non puoi negarlo, non puoi far finta che tutto resterà per sempre.
Prova, dunque, a delineare sullo specchio la tenebrosa austerità del suono, mentre luccica come l’acciaio nell’infuriare della tempesta, muta e maestosa ("The Bowing Song"). La musica aleggia rarefatta, indistinta. Come un respiro stanco rompe il silenzio, ne attraversa la carne viva, magnificandone, poco alla volta, lo splendore nero ("The Melodica Song").
E’ come se queste fragilissime mini-sinfonie avessero il compito di nascondere una verità terribile, magari trasfigurandone il senso, sfigurandone il volto, rendendolo irriconoscibile e, quindi, meno angosciante.
Una world-music di un universo parallelo fuoriesce dai solchi di "The Thumb Piano", mentre in "The Ukulele Song" le reiterazioni strumentali squarciano la tela, aprendoci il varco per lande immaginarie, inusitati panorami mentali che "The Cello Song" (in cui è ancora più vivo l’eco sublime di "The Golden Morning Breaks") trasforma in pura, inconoscibile geografia spirituale.
Che cosa resta, alfine, se non la gioia per le cose apparentemente più banali e meschine?
Cosa resta, dunque, se non l’impercettibile sforzo materno del sole che toglie un fiore dal grembo della terra e lo affida agli occhi di chi sa anche piangere per così poco ("Petit Fleur")?
29/03/2006