Dalle stalle alle stelle, a... dove?
Ovvero: dal cortile di casa ad Abbey Road, allo studio casalingo – ma con un bagaglio di esperienza e di malizia impagabile acquisito nel corso degli anni. Questa, in poche battute, potrebbe essere la storia dei Bees, gruppo di capelloni che muove i primi passi come duo (i nomi degli indiziati: Paul Butler e Aaron Fletcher) nella natia isola di Wight, dai cui confini esce con “Sunshine Hit Me” del 2001, un album fatto di influenze pop ed exotiche, forse acerbo, ma di un certo impatto. Dopo il relativo successo, il terno al lotto: la Virgin paga le sessioni di registrazione del secondo disco, e i ragazzi scelgono di andare a registrarlo negli studi della Emi, forse i più celebri al mondo. Il risultato è un’immersione negli anni Sessanta, quanto a suoni e composizioni. “Free The Bees”, pubblicato nel 2004, è un disco pop a tutto tondo, a nostro parere splendido, ma non raccoglie i dovuti consensi – a parte un paio di brani utilizzati in pubblicità (forse sono stati quelli a garantire uno stipendio minimo ai ragazzi negli ultimi tempi).
Queste la tesi e l’antitesti: la sintesi, fresca di stampa, delle prime due esperienze discografiche dei Bees si intitola “Octopus” e raccoglie l’eredità sonora del predecessore applicandola a un formato che al pop torna ad accostare umori e sonorità soul/quasi black – il duo originale si è ormai espanso a gruppo rock vero e proprio, sezione fiati compresa.
Il risultato del terzo passo nella carriera dei Bees è valido, ma purtroppo non entusiasmante come il secondo né poliedrico come il primo. Questo per un motivo, crediamo, molto semplice: la qualità delle canzoni è più media che alta, spesso ci si sofferma più sul groove che sulla composizione, e il tono generale dell’album ne risente. Per fortuna, la padronanza delle tecniche di registrazione è acquisita, e parte del piacere dell’ascolto di “Octopus” sta nella ripresa vecchio stile dei suoni – eredità dell’esperienza a Abbey Road, c’è da scommetterci.
Come si diceva, rispetto ai Bees passati si smorza la componente sixties, si accentua quella nera (malgrado i nostri siano tutti caucasici più o meno capelloni): il ballatone con fiati “Listening Man” ne è un esempio perfetto, come pure il singolo “Left Foot Stepdown”, ritmato e incalzante come una cover degli Stereo MC’s eseguita da un gruppo freakbeat; o ancora “Got To Let Go”, suadente e misurata.
Va invece da sé che i momenti più convincenti sono quelli nello stile che aveva fatto la fortuna, alle nostre orecchie, di “Free The Bees”: le canzonette, allegre speziate del pop più classico, arrangiate con gusto impareggiabile e suono rotondo: “Who Cares what the Question is”, marcetta degna del miglior Ringo Starr; “Love in the Harbour” e “Hot One”, con i loro intrecci vocali alla Brian Wilson; “End of the Street”, spassosissimo finale.
Pesando i pro e i contro di cui sopra, il giudizio è una salomonica sufficienza con lode: molto buona la forma, qualche indecisione sui contenuti, per un disco valido ma non eccelso come le prove precedenti. Ma visto che non si tratta di “svolta stilistica” né di azzardo, possiamo sempre sperare che i Bees tornino a scrivere una manciata di canzoni ineccepibili e a farci gridare al miracolo come avvenne non più di tre anni fa.
19/03/2007