Che l'Italia non sia propriamente la culla del rock, è assunto di cristallina evidenza. Lo testimoniano il pedissequo accodarsi ai vari movimenti (prog-rock, wave, post-rock) con il canonico lustro di ritardo; la mancanza di fattori di reale novità delle proposte (escludendo i CCCP/CSI, caso più unico che raro); il potente filtro operato della tradizione "leggera", che ha contaminato, e in verità arricchito, assai numerose esperienze (Afterhours docet).
Data la nostra storia, e memore dell'esplosione del progressive (il genere che, nato all'interno del calderone, ha, più di tutti, teso ad allontanarsene), mi ha sempre meravigliato che, del variopinto contenitore post-rock, abbiano attecchito con tanto successo tra i musicisti italiani le caratteristiche più d'impatto. Vale a dire le correnti più chitarristiche, emozionali e giovanilistiche; finendo per lasciare inesplorato, o quasi, tutto il versante prettamente di contaminazione.
Gli Humanoira, nonostante la quindicina d'anni che li separa dai loro beniamini Tortoise, provano a solcare quella via, sfruttando peraltro l'ulteriore piano offerto dal "filtro italico" e puntando quanto più possibile all'apertura. Le parecchie carte in tavola e la consapevolezza con cui i quattro livornesi le padroneggiano non significano però l'automatica riuscita dell’operazione. Detto chiaramente: non sono le premesse (o le intenzioni) a distinguere un buon disco da un disco di merda. Per capire dove va a piazzarsi "L'arte di sciogliere la neve" occorre assaggiarne i frutti.
Partiamo da un paio di certezze preliminari.
La prima è che siamo dinanzi a un disco compiuto. Possano piacere o meno, i nove brani sono tali nel senso più pieno; niente idee lasciate a fluttuare qui e lì, niente accenni, niente confusione. Il che non vuol dire piena maturità, o forma definitiva, ma semplicemente forma. Questo perché i rischi maggiori delle opere complesse sono due: non trovare adeguati mezzi per tradurre le idee; non avere sufficienti idee per riempire i mezzi. Gli Humanoira hanno gli uni e le altre.
La seconda è il suono. Limpido, pieno, vitale. Strumenti che si amalgamano senza sminuirsi, cura degli arrangiamenti.
Addentrandoci nel cuore del lavoro, è necessario partire dai difetti, superiori ai pregi.
Primo: latita la brillantezza. Prendiamo un pezzo come "Adios nonnini". Il grazioso giro di chitarra, il battito elettronico che si sovrappone, la fiaba sentimentale narrata dal testo ("vieni con me, ti offro un caffè, le cioccolate, le caramelle, poi ti porto nelle stalle insieme a pecore e farfalle"). Gli Humanoira evitano di scadere in svenevolezza, ma, d'altro canto, non riescono a diventare poesia. Restano in un limbo, e ci restano per il grosso del disco (che, precisiamo, avrà i coloriti più svariati, finanche opposti a questo, citato solo a mo' di esempio).
Secondo: le evoluzioni degli strumenti, quando viene loro lasciato spazio maggiore, suonano piuttosto sterili e telefonate (per quanto ben eseguite, vedesi "Radio Caronte").
Terzo: l'elettronica, che funziona, pur senza incantare, quando ha un ruolo minore, mostra tutti i suoi limiti quando viene posta in primo piano. E' il caso della robotica anti-musica de "L'acchiappacitrulli", battito pulsante su colori apocalittici (che neanche sono, ad oggi, nelle corde della band).
Quarto: non tutte le ciambelle riescono col buco. "Ciro e Anna", in tutta onestà, non si capisce dove vada a parare.
Ok, finito col bastone è tempo di carota. E non si può non iniziare da "…Perché il mio amore è pop", il contributo degli Humanoira alle migliori canzoni italiane dell'anno. Canzone moderna e d'autore fra candore e freddezza, capace di trovare la fusione perfetta fra melodia e spasmo rock, e di trattare l'amore in modo non banale. Emergono anche due dei maggiori pregi degli Humanoira. Trattasi del sax di Francesco Palazzolo, che qui non sbaglia una nota una, ma che anche negli altri episodi in cui viene usato fa la sua figura (e nel timbro lugubre di "Radio Caronte" e in quello epico della buona strumentale "Muschio"). E della voce di Riccardo Vivaldi, bella, poliedrica e incisiva; eppure non ancora pienamente matura, passando dalla disarmante naturalezza dei toni decadenti al disagio quando si tratta di graffiare.
Il terzo punto a favore è la capacità di emozionare senza scadere in facili patetismi: prova dell'equilibrio della band è la title track, lunga e accorata dedica ("a te fratellino") su dolce spirare di violini.
Il quarto sono le improvvise punte di comicità (ad esempio quando chiariscono uno dei punti chiave de "La casa" di Sergio Endrigo, con un laconico "in quella casa non c'era un cazzo"; quando asseriscono con fare deciso di essere "talmente ricchi da non riuscire a spiegarsi con parole povere"; o quando ammoniscono che "chi fa da sé diventa cieco").
A dispetto dei numeri che sembrano determinare una parità, a confermare la preannunciata prevalanza delle manchevolezze è uno spietato dentro/fuori dei brani del disco. Mezzo con cui mi sento di promuoverne soltanto un terzo (se avete letto con attenzione avrete capito anche quali). Questo è quanto, e, per me, è ragione di insufficienza. Ad ogni modo, dati i motivi di interesse che pure sono presenti, consiglio una visita al myspace della band: troverete quattro brani del disco, ascoltatene un paio e capirete se siete d'accordo con chi scrive oppure no.
18/06/2007